• Giordano Bruno “spirto inquieto che subverte gli edifici de buona disciplina”

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    di Gian Carlo Zanon

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    «E apertamente dedicai il cuore alla terra grave e sofferente, e spesso, nella notte sacra, promisi d’amarla fedelmente fino alla morte, senza paura, col suo greve peso carico di fatalità, e di non spregiare alcuno dei suoi enigmi. Così, mi avvinsi ad essa in un vincolo mortale»

     Hölderlin, La morte di Empedocle

    Il 17 gennaio del 1600, alle sei del mattino, veniva assassinato Giordano Bruno. Come leggiamo dal Giornale della Confraternita di San Giovanni Decollato, « … stette sempre con la sua maledetta ostinazione aggirandosi il cervello e l’intelletto con mille errori e vanità»; anchel’avviso che due giorni dopo il rogo si accampava sui muri di Roma raccontava l’immagine di un ribelle: «et diceva che moriva martire e volentieri, e che la sua anima se ne sarebbe ascesa in paradiso … ».

    Da queste fonti si evince che il nolano fu condannato non tanto per i suoi scritti eretici ma per la sua caparbietà e il suo eroismo di fronte alla violenza fisica e soprattutto psichica da parte della Chiesa cattolica. Fu condannato perché era eretico nel vero significato etimologico, cioè perché fece una scelta.

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    Ma perché tanta ostinazione; non possiamo fare a meno di pensare che questa tragedia ha la sua unica matrice nella dicotomia tra essere ed esistere, cioè, la scelta tra una morte eroica e una vita destituita di senso.

    Per capire ci facciamo aiutare da un ribelle, Camus, che nel suo L’homme révolté scrive: «Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Qual è il contenuto di questo “no” ?».

    Già, cos’è il contenuto, l’essenza di questo rifiuto che porta alla morte il filosofo nolano? Poteva salvarsi abiurando come fece Galileo o fingersi pazzo come Campanella, ma non lo fece. Per comprendere dobbiamo cercare nel suo percorso intellettuale e umano la genesi della sua ubris cioè del suo “smisurato orgoglio”.

     

    “Qua Giordano parla per volgare, nomina liberamente , chiama pane il pane, vino il vino” , Bruno per tutta la vita scavò nell’italiano nascente e nel latino dei dotti per trovare le espressioni verbali i grado svelare l’essenza del reale che gli enunciati dei sapienti del suo tempo non erano più in grado di decifrare. In quel tempo l’astrazione dei filosofi sacrificava la rappresentazione verbale per favorire un dogma inattaccabile: l’ideologia religiosa, assurta a sistema filosofico, era sovrana della conoscenza perché padrona del mondo immateriale.

    La colpa del filosofo non fu tanto quella di negare l’esistenza divina, non era ancora giunto il tempo per questa suprema libertà, ma quella di indagare l’invisibile, dominio incontrastato dell’inquisizione. Non scordiamo che la ricerca era stata proibita da almeno mille anni, cioè sin dagli editti di Teodosio, e ogni tentativo di ribellione si era sempre infranto contro i muri del dogma che impediva il libero pensiero. Bruno, per la sua ricerca, usa gli strumenti che gli sono più congeniali: la satira feroce, la commedia, e soprattutto il saggio filosofico-scientifico. Cerca in tutti i modi di rifondere questa unità frantumata dal sistema filosofico cattolico che si era impossessato della scienza empirica trasformandola in credenza. Possiamo dire che Bruno possedeva un’anima corporea, senza scissione tra mente e corpo e uno “ spirto inquieto che subverte gli edifici de buona disciplina”.

    Giordano Bruno

    Nello Spaccio della bestia trionfante egli dichiara di non voler altro che sincerità, semplicità, verità. Forse intuiva quale malattia poteva invadere il proprio essere se avesse tradito la propria immagine interna, o come egli la chiamava: “sembianza”:

    Voi siete quello che abbandonò se stesso,

    la sua sembianza desiando in vano;

    (……..)

    Lasciate l’ombre et abbracciate il ver,

    non cangiate il presente col futuro,

     io d’aver dì meglior già non dispero;

    ma per viver più lieto e più sicuro,

    godo il presente, e del futuro spero:

    cossì doppia dolcezza mi procuro.

    Giordano, quindi è costretto dal proprio essere ad andare al di là del naturalismo rinascimentale di Telesio e Campanella , egli cerca di aprire «la cripta della verità» per guardare oltre le porte dell’invisibile. Egli non può più credere che la realtà umana interna sia solo una zona di guerra tra il bene e il male, e cerca disperatamente di capire quel mondo che scivola tra le dita come una nebbia, quel mondo ove le dinamiche psichiche giocano il gioco della vita. Vuole dare un’immagine e quindi un nome agli affetti, alle pulsioni, al desiderio.

    All’inizio della sua ricerca Bruno si trova di fronte a universi di conoscenza degradati e prova ad uscirne. Per far ciò egli cerca nel microcosmo dell’umano le forze, le attrazioni, i vincoli, i moti interni degli esseri umani; cerca gli strumenti del pensiero con cui “percepire”, conoscere questa realtà nascosta.

    Queste capacità, specificatamente umane, a cui egli si avvicina, le chiama Fantasia o Senso interno. In questo modo egli nomina l’immateriale nell’uomo che la sapienza del XVI secolo chiamava genericamente “anima”.

    Anima sottoposta o al male diabolico, o al “bene” divino, ma non pensata come una realtà interna  tra il corporeo e l’inorganico, tra materia e energia come invece l’immaginava il nolano: «oltre alle qualità sensibili, ce ne sono altre meno avvertibili, le quali agiscono oltre il corpo e i sensi, e giungono a toccare facoltà dell’anima più profonde, inducendovi affetti e passioni determinate». (De Anima).

     Questo per la chiesa era già un buon motivo per la condanna a morte. Il volgo doveva continuare ad essere accecato dalla credenza. Ma il popolo è in grado di leggere tra le righe, e gli epiteti  Bestemmiatore, Impenitente, Ateo, giunsero ai loro orecchi con un altro significato. Ai loro sensi giunse l’immagine di un essere umano diverso, e quell’immagine, avvertita con il timore che avvolge le cose sconosciute, cominciò a farsi strada nella mente di uomini e donne; un’immagine spesso immediatamente negata in quanto il pungolo che spingeva alla libertà interna era ancora perturbante; forse non era ancora tempo per i più, ma non per Bruno « … non invidio chi son servi nella libertà e morti nella vita».

    Per molti l’immagine della realtà umana nuova intuita da Giordano Bruno era ed è ancora evanescente come la materia di cui sono fatti i sogni e se non giunge al pensiero verbale, alla voce, alla parola scritta, svanisce; è qualcosa che c’è ma “non esiste” … e Lete, sorella della Morte e del Sonno, è sempre pronta ad avvolgere con la polvere dell’oblio l’immateriale pensiero.

    Io questa immagine di essere umano ribelle la penso, parlo di lei con pochi amici, ne scrivo affinché Giordano Bruno l’Eretico viva, perché so che egli “nel più cupo degli inverni trovò dentro di sé un’invincibile primavera”. (Camus)

    Il mattino del 17 febbraio  le fiamme che uccidevano Giordano Bruno senza dubbio erano visibili dalle pendici del Gianicolo; mi piace pensare che una contadina vide quelle fiamme e capì il senso di quei bagliori … e sgorgarono le lacrime, come fosse acqua che lenisce il dolore del corpo e della mente.

    17 febbraio 2009

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