Adriano Meis
“Credere: è un sentimento piuttosto che un pensiero che si veste di un credo che sembra pensiero ma è sordo e cieco ad ogni ragione e percezione”
M. Fagioli. “Due vestiti di bianco e il sonno dell’uomo.” Left, n. 48, 8 dicembre 2006.
Quattromila ottocento metri. Scendo dal minibus. A questa altezza la percezione può fare brutti scherzi. Un lieve cerchio alla testa non mi abbandona, nonostante che per tutto il giorno non avessi mai smesso di masticare le foglie di coca. Come ogni viaggiatore non ancora che non si è adeguato agli sbalzi repentini di altitudine il cerchio alla testa non mi lascia in pace.
El Soroche, così i Peruviani chiamano questo “male delle altezze”, e dicono che può essere pericoloso, anche mortale. Si, a queste altezze il vento invernale gelido e il Soroche possono confondere la mente.
Forse sarà per questo che le minuscole piramidi di sassi, sparse a migliaia ai lati della strada nei pressi dei passi andini, mi appaiono quasi identiche a quelle osservate sugli altipiani della Mongolia l’anno scorso.
Anche le popolazioni andine e i discendenti di Gengis Kan sono molto simili: stessa statura, gli occhi a mandorla, la pelle olivastra e scura. L’anno scorso, ad agosto, nella Inner Mongolia cinese era estate mentre ora, qui, nonostante sia sempre agosto, è inverno. Più o meno febbraio.
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E questa sembra essere l’unica sostanziale differenza. Stessi visi e stesse credenze negli dei e negli spiriti invisibili. Viene da pensare che questa abitudine di ingraziarsi, mediante il gesto di aggiungere una pietra al tumulo, le divinità della natura, sia stata portata, insieme a quel poco di conoscenza tecnica, dalle tribù caucasiche di cacciatori-raccoglitori che, ventimila o trentamila anni fa, attraversarono lo stretto di Bering non ancora sommerso per giungere poi, attraverso le terre più a nord, ora chiamate Canada, America, Messico, in Perù.
In Grecia, sin da tempi remoti, esisteva la tradizione di creare con i sassi dei tumoli. Di solito all’esterno dei centri abitati, fuori dai quei recinti dove vigevano norme, etiche, leggi, ragione, in quella tenebrosa zona dove si credeva regnassero ancora le forze invisibili della natura. Vi era la credenza che questi cumoli di sassi fossero un luogo di passaggio tra il mondo umano e le divinità telluriche, ipo-ctonie. Almeno così scriveva A. Brelich a pagina 60 del suo libro, “Introduzione alla storia delle religioni.”
I cumoli di pietre venivano chiamati hermaioi lophoi dal nome di Hermes divinità dei confini e quindi tramite fra il mondo del visibile e quello dell’invisibile.
Anche nell’Europa medioevale venivano innalzati tumoli di sassi simili a quelli che si edificano ancor oggi sulle Ande e nella Inner Mongolia, regione della atea Cina. Nel camino per Santiago de Compostela erano i Montjoies, cumoli di pietre posti sulle sommità delle colline da tempo immemorabile, ad indicare la via ai pellegrini. E fin da tempi immemorabili erano le apachetas, piccole piramidi di sassi, ammonticchiati nei crocicchi andini dai viandanti, a far si che Pachamama, Madre Terra, non facesse perdere la pista, spesso cancellata dal vento e dalla pioggia, ai progenitori dell’impero incaico. Oggi queste pile di sassi vengono ancora ricomposte dai viaggiatori peruviani e dai discendenti di Gengis Kan.
Questi gesti arcaici vengono ripetuti quasi identici e con significati simili da millenni in ogni località del globo. Anche nel film di Emanuele Crialese, Il Mondo nuovo, il protagonista compie un viaggio impervio portando in bocca una pietra che poi depositerà ai piedi di un crocifisso al quale chiederà risposte sul suo futuro.
In filo del pensiero, sospeso pochi settimane prima per la pausa delle lezioni, riprende forma nelle nostre conversazioni disturbate dai sobbalzi del mezzo che ridiscende veloce verso la valle. I pensieri si intrecciano spingendosi l’un l’atro a chiedersi il motivo per il quale in queste società, così lontane tra loro nel tempo e nello spazio, siano esistite credenze, che tuttora perdurano, così simili: «Ma secondo te, perché esseri umani di latitudini così lontane, e quindi senza alcuna possibilità di una cultura comune, sono pervenuti a credenze molto simili? Perché compiono ora come migliaia di anni fa gli stessi gesti, gli stessi riti?». I minibus si ferma. Siamo arrivati a Cuzco, capitale dell’antico impero incaico, dove le chiese, come a Roma, sono costruite sulle fondamenta di antichi templi dedicati al pantheon dei nativi.
Scendiamo dal minibus, 3300 metri. Va un po’ meglio … e il cerchio alla testa non mi ha impedito di pensare. «Ne parliamo dopo» «Ok ne parliamo dopo».
Le finestre della stanza sono invase dal verde della valle e i pensieri si affacciano a guardare la bellezza limata dallo sguardo. Poi la cena all’aperto «non mangerai davvero il cuy» «scusa ma che differenza c’è tra mangiare un porcellino d’india o un coniglio? » Lo ordino, lo assaggio «buono, ne vuoi un po’? » «ma che scifo» finisco di mangiarlo, sa di coniglio.
Al tavolo accanto una donna anziana getta per terra un pezzo di pane e un po’ di birra. «Son cosas que hacen los hechiceros». Ci dirà poi il cameriere che ostenta un gran crocifisso al collo. Da dove viene la predica penso io «meglio fare la fattucchiera che essere cattolico, no? » lei annuisce, è ancora incazzata per il mio vizio di mangiare ogni cosa di strano che mi venga incontro.
«Qui , – ci dice il libraio di Plaza de las Armas, molto soddisfatto per la per la nostra curiosità sui miti incaici – qui da noi tutto è mischiato con la religione. Quando mangiamo gettiamo a terra alcune briciole di cibo per ridare a Pachamama, una parte di ciò che ci ha donato. L’altro giorno sul giornale c’era scritto che questo gesto di rendere a Pachiamama parte di ciò che ci ha donato, potrebbe essere poi divenuto il gesto della semina. Il pensiero più o meno era questo: solo se rendo a Pachamama una parte dei semi raccolti essa poi ce li ridà decuplicati. Interessante, vero?
Qui, da noi, la gente dice che i turisti soffrono di soroche perché non ringraziano mai gli dei della natura per ciò che prendono da essa; puede ser».
Anche Omero nell’iliade narrava dei sacrifici che gli Achei facevano per ingraziarsi gli dei:
Chi all’uno, chi all’altro dei numi eterni sacrificava
pregando di sfuggire alla morte, alla mischia d’Ares:
e un toro sacrificò il sire d’eroi Agamennone,
grasso, di cinque anni, al figlio di Crono superbo;
29 luglio 2012
Continua …
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