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di Nora Helmer
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«Eppure ogni tanto incontriamo individui intatti, senza macchia, come preservati dalla lebbra comune. Per loro il mondo non è quello che appare a noi. Loro lo vedono con altri occhi. vivono nell’attimo pienamente, e l’alone che emana da loro è un eterno canto di gioia.»
Ai piedi della scala – Arthur Miller
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Per delineare l’immagine dell’eroe dobbiamo forzatamente cercare nella mitologia il significato della sua essenza. Tra la sconosciuta preistoria e la protostoria già emergono figure umane estreme che vanno ben oltre a ciò che è comune negli altri uomini.
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Questi esseri, furono sempre percepiti in modo così lontano dalla norma da attribuire loro genealogie divine. Graves afferma che le prime divinità, dopo gli animali totemici, furono appunto gli eroi.
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Per capire meglio il senso dell’eroe potremmo pensare alle primordiali manifestazioni di lotta dell’essere umano contro la natura non umana: due uomini vengono assaliti da una fiera in una caverna senza via d’uscita; uno di loro chiude gli occhi cercando follemente di annullare il pericolo e si rannicchia in posizione fetale aspettando la morte; l’altro afferra un oggetto qualsiasi, pietra, bastone, e lotta contro l’animale non più vissuto come invincibile. Se quest’uomo, scamperà alla morte avrà salvato se stesso, e forse anche il compagno.
Questo fatto apparentemente banale, potrebbe rappresentare l’inizio della figura eroica, un atto di tracotanza nei confronti della natura: sapere e far sapere che è possibile ribellarsi alla morte, facendo un gesto ateo ad occhi aperti. Un primo confine è varcato.
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C’è anche un altro elemento (di cui farò solo un piccolo accenno) che più invisibilmente va a rappresentare la lotta primordiale contro la natura: l’arte pittorica paleolitica. Arte che, ormai si sa con certezza, era praticata dal genere femminile. Le donne del paleolitico, mentre nelle caverne aspettavano i loro uomini impegnati nella ricerca del cibo, si ribellavano alle figure consuete, creando forme che sorgevano dalla scontro/incontro tra la loro fantasia interna e la percezione sensoriale della natura. Non era quindi mimesis intesa come riproduzione oggettiva della natura, ma creazione di immagini che in natura non esistevano.
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La figura dell’eroe sarà però, fino a tempi recentissimi, connaturata nell’immagine maschile.
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La lotta contro la natura, e quindi estensivamente contro la morte, avrà in Gilgamesh la sua prima rappresentazione mitica: l’eroe sumerico tenterà di sconfiggere la morte per salvare l’amico/alter ego Enkidu. La sua ribellione darà a Gilgamesh l’immortalità : egli rimarrà per sempre nella memoria mitica e nei canti degli uomini.
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Cinquemila anni sono passati da che questo mito fu inciso a caratteri cuneiformi sulle tavole di argilla. Cinquemila anni nei quali l’immagine eroica anziché mutare in senso evolutivo, si è impoverita sino a divenire la maschera canagliesca dell’“antieroe”. C’è da chiedersi se questo impoverimento è dovuto alla negazione dell’immagine femminile. Nei miti omerici, che donano all’eroe uomo l’eternità, le donne vengono sempre violentate e/o assassinate: Pentasilea, Criseide, Antigone, Ifigenia, Clitennestra.
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Con l’avvento del cristianesimo l’immagine femminile viene completamente annichilita e l’eroe perderà completamente spessore ontologico. L’imperatore Costantino I “inventa” il martire che per assurgere alla gloria imperitura non deve far altro che seguire servilmente, senza deragliare, il disegno divino.
La più clamorosa e soprattutto significativa rappresentazione di questo evento è l’Arco di Costantino: in esso è espressa un’involuzione, che il Kitzinger definisce come «la morte dell’arte classica». L’arco trionfale, costruito con grande rapidità nel 315 d.C., fu rivestito in parte con sculture ricavate “di spoglio” da altri monumenti romani e in parte da nuovi bassorilievi fatti fare appositamente dall’imperatore e isolati dal contesto.
Nei nuovi bassorilievi i corpi sono schiacciati, bidimensionali ed appaiono in file di immagini equivalenti: è una autentica perdita del centro prospettico. Ogni figura è simile all’altra, e sono scomparse le figure centrali eroiche invece ancora presenti nei pezzi di spoglio.
Alla base di questa visione esiste un’interpretazione metafisica dell’arte: le immagini dei bassorilievi voluti da Costantino sono “strumenti di una realtà che le trascende così come trascende ogni dimensione corporea”. (Romanini)
È il trionfo di una visione religiosa che in pochissimi anni annienterà la scultura perché rappresentativa di un corpo, quello umano, che non apparteneva più alla realtà vera in quanto questa veniva religiosamente alienata in un infinito post mortem.
In questo modo il sistema filosofico cristiano liquida i conflitti dell’essere. Non c’è più rivolta come accadeva ancora nel vecchio testamento, con il nuovo patto tra dio e gli uomini non c’è crisi, non vi sono più confini da varcare. Tutto e già in mente dei. La via è tracciata senza inizio né fine. Il pensiero provvidenziale elimina la “crisi della presenza” eliminando la presenza. L’essere umano diviene persona nel significato che gli etruschi davano alla parola persu: maschera. Il vuoto ontologico come un orrendo buco nero fagocita l’essere. L’eroe che ribellandosi a leggi umane o divine ingiuste, scuoteva dalle fondamenta la cristallizzazione del reale e si appropriava del suo destino, rimane incatenato al nulla.
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Nel romanzo “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello, Anselmo Paleari, uno curioso individuo che abita nella stessa pensione del protagonista, narra a Mattia un fatto curioso visto casualmente al teatro delle marionette. Egli narra che durante la rappresentazione dell’Orestea di Eschilo, il cielo di carta che serviva da fondale alla scena, si lacera. Il signor Paleari cerca di spiegare a Mattia Pascal come questo evento determini una improvvisa metamorfosi nel protagonista della tragedia eschilea: Oreste, dice Paleari, si trasforma in Amleto.
Il principe di Micene, l’“eroe” che uccidendo la madre instaura definitivamente il patriarcato con le sue leggi scritte, si trasforma nel pallido Amleto, il principe danese dal dubbio ossessivo. Nel teatrino delle marionette si determina inspiegabilmente la perdita di senso e la caduta di ogni certezza ontologica. Non sapremo mai cosa Pirandello ha voluto rappresentare introducendo nella sua opera questo fatto. Conoscendo però le due tragedie possiamo tentare una interpretazione attribuendole un valore meramente euristico.
Osservando la storia del teatro greco, possiamo notare che già nell’Orestea di Eschilo vi sono i primi sintomi di alterazione degli affetti e quindi perdita di senso che porterà alla morte della tragedia attica . Lo strappo nel cielo di carta è la rappresentazione della ferita mortale inferta da Oreste nel seno della madre. Da quell’istante nulla avrà più senso. L’uccisione della madre, l’annullamento del primo anno di vita e la distruzione degli affetti, che danno spessore e senso alla realtà, vengono sacrificati in nome della legge del padre divino: le tavole di Mosè.
Perduta la propria immagine interna, l’eroe non riesce più a decifrare il reale, e quindi non può conoscere. La perdita degli affetti rende l’uomo anaffettivo o depresso, e così l’esistente diviene una sfinge che fa solo intravvedere verità parziali, superficiali,oggettive.
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Con la legittimazione del delitto di Clitennestra si consuma un evento tragico per il pensiero occidentale: il logos soppianta il mito, sottraendo senso alla realtà. Il nuovo pensiero avulso dalla realtà inconscia, il nous onnipotente, dominerà per millenni sulla sapienza umana.
Si verificherà da questo momento l’alterazione e la normalizzazione della figura dell’eroe. Seguirà di pari passo la reificazione dei rapporti umani e la perdita del contenuto della parola.
L’immagine dell’eroe verrà contaminata e porterà dentro di sé un “miasma”, un peccato originale che sarà fatale per sé e a chi gli sta accanto.
E così l’eroe arriverà sino a noi attraversando la storia. Sarà tacciato di ybris come Edipo, morirà fatuamente come Amleto dopo aver trascinato alla follia a alla morte le “persone amate”.
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Nella tragedia I masnadieri di Schiller la rabbia porterà alla distruzione Karl Moore subito dopo aver ucciso l’amata, e nei “Pugni in tasca” di Marco Bellocchio, Ale, novello Oreste, ucciderà anch’egli la madre cieca per poi venir ucciso dall’epilessia (moderna rappresentazione delle terribili Erinni custodi della giustizia ctonia, immagini femminile deturpate).
Ormai la figura di eroe non basta più per rappresentare il movimento, per seguire una linea che migra determinando il divenire della storia.
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“Il rossore di Sonecka era il rossore di un’eroe. Dell’uomo che ha deciso di ardere e dare calore.” La poetessa russa Marina Cvetaeva suggerisce che è indispensabile all’eroe un’immagine interna femminile. Immagine interna che dia senso alla tensione verso l’infinito, verso il nebuloso, l’aorgico. L’immagine dell’eroe di confine deve avere all’interno un volto di donna.
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I confini possono essere pensati come crisi di fronte ad uno stimolo estremo, eccessivo, e affrontare una crisi senza distruggersi e senza ingannarsi significa non sbagliare il senso del confine. Al mattino l’eroe deve scegliere. Nell’antica accezione crisi significa appunto scelta. Scegliere di non aprire la porta di quel dolore o affrontare lo sconosciuto. Scegliere quella linea generata dall’orrore e dalla speranza : «mio unico amore nato dal mio unico odio», pulsione fantasia e memoria fantasia, (Massimo Fagioli) genesi di ogni movimento verso l’ignoto. L’ignoto in ogni sua forma, rapporto con l’altro da sé, immagini artistiche sconosciute, confini evolutivi dell’essere da superare.
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Può essere angosciante sapere che esiste solo una linea che segue continua, interminabile; si può amare un uomo e domani non amarlo più. Come capire, come farlo capire a lui, come raccontare di una nuova immagine che ti assedia, un’immagine che non puoi tradire, anche se è ancora indefinita. Qualcosa dentro di te che diventa il tuo peggior nemico quando fai un compromesso illecito con la ragione.
Poi un’altra immagine, la linea ora è separazione: si inarca, prosegue come retta all’infinito; puoi innamorarti ancora e ancora sino a che del primo amore non rimarrà che un punto rosso nascosto in qualche angolo del tuo corpo. E ancora e ancora, un ospite inatteso, uno straniero, mani straniere.
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Chi abita l’essenza dell’eroe di confine è un essere sempre in trincea. Fuori i clamori di una guerra che non gli appartiene, più in là c’è la Zona che solo lo Stalker conosce. Stalker il cacciatore, Stalker la guida per la terra di nessuno. Lui porta oltre il confine. Un confine che si deve attraversare per giungere alla stanza dei desideri*. Un confine che si deve oltrepassare senza voltarsi a guardare città che bruciano, e rubare quel fuoco a occhi chiusi, bruciandosi le mani. Tutto poi diventerà memoria e immagine.
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Anni di confini varcati. Volti di donna, figure di eroi. Giorni in cui tutto può accadere, notti in cui cercare rifugio nel sonno sarebbe vile; e poi quelle immagini che entravano silenziose dalla porta incustodita dei sogni; e al risveglio il mare è ancora là, infinito.
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«A chi scende in fiumi medesimi altre e altre acque affluiscono. Tu non puoi discendere in fiume medesimo mortale esistenza, due volte ottenere il medesimo stato. Ma per rapido ardore di scambio si scinde e si aggrega, non prima né dopo ma in tempo medesimo si unisce, si disfa, compare e scompare» Il divenire infinito, il panta rei di Eraclito.
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Ogni confine superato costa una tempesta di affetti. Ma ogni artista lo sa. Lo sa che deve pagare con un po’ del suo sangue quelle immagini che sorgono inaspettate e imperiose e chiedono di nascere, e chiedono di esistere. Immagini superbamente lontane dal reale percepito dai cinque sensi.
Immagini aliene dall’intermundia metafisico ove albergherebbero perfette le idee/forme platoniche.
Aistanomai, percepire sincreticamente attraverso le sensazioni, è un verbo solenne, che racconta dell’invisibile accessibile a chi sa varcare i confini della memoria inconscia per “rubare” immagini contrabbandate da quel luogo «dove nessun viandante è mai tornato». Ermes dai piedi alati, divinità dei confini aiuta gli audaci ingannando feroci doganieri.
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Eroi di confine, eroi della conoscenza. Equivocarsi sul senso del confine porta a fermarsi davanti a muri inesistenti, tornare sui propri passi, perdere Euridice, per sempre: «sconvolti dall’orrore, a quella vista tutti indietreggiarono, ma quanto li urgeva alle spalle era ancora peggiore»**.
“Risolvere” la crisi arretrando di fronte al perturbante, allo sconosciuto, porta gli esseri umani a dibattersi nella coazione a ripetere, alla banalità e al gorgo del mal de vivre .
Il divenire per gli esseri umani è un assoluto categorico, una legge a qui non possono venire meno.
La metamorfosi continua dei confini porta l’essere umano a subire una “tirannia” e non può che arrendersi al vero destino dell’uomo che è quello di rincorrere la propria immagine interna costantemente in movimento.
L’essere umano è tanto più umano quanto più si allontana dalla condizione ferina; e l’eroe esprime la propria essenza quanto più si allontana dal noto, dalle norme dell’uomo comune, dalla miseria del non essere. «Deve rovesciare ciò che il tempo ha generato, leggi, costumi, nobili leggende – Hölderlin Morte di Empedocle. Ma purtroppo – “Solitamente i mortali rifuggono da quanto è nuovo e a loro estraneo».
L’essenza dell’umano si realizza nella figura dell’eroe, un essere che muta natura in ogni istante e che trasforma ciò che gli sta attorno. «Voglio fare con tè ciò che la primavera fa con i ciliegi» scriveva Pablo Neruda a una recalcitrante Matilde Urrutia.
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L’eroe percorre sempre l’estremo confine della conoscenza. L’eroe è colui che cerca quel qualcosa che ha solo intravisto. Non importa se non raggiugerà l’oggetto del desiderio. Cercando ciò che sa esistente non avrà speso la vita invano; e comunque non può scegliere razionalmente dato che la sua legge interiore lo costringe a cercare; tuttalpiù sarà una scelta inconscia.
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Chi può essere oggi l’eroe di confine, non è certamente il Superuomo nietzschiano. Forse non è neppure l’Homme révolté di Albert Camus . Dove trovare l’eroe?
Sempre là dove e più cruenta la battaglia tra l’essere e il non essere.
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*Il riferimento è a Stalker, il film di Andrej Arsenevič Tarkovskij
** Milton, Il paradiso perduto