• La Dea bianca: Robert Graves e la sua ricerca del mito poetico nella lingua occitanica

      1 commento


     di Gian Carlo Zanon

    Giordano Bruno pensava, lo scrisse nel suo De Magia, che, prima dell’instaurazione del logos, fosse esistito un linguaggio ‘magico’ capace di esprimere l’essenza delle cose e, quindi, in grado di una presa totale sulla realtà; egli parlava di quel un linguaggio dimenticato, che a volte riaffiora nei sogni e nei segni capaci di «costringere all’amore» o a «produrre odio». Questi segni, scriveva Bruno, «…non hanno una forma certa e definita, ma chiunque, a seconda di quanto detta il suo furore, sperimenta  determinate forze che non sperimenterebbe con nessuna eleganza di discorso…».

    Robert Graves, portrait

    Evidentemente c’era in Giordano Bruno uno slancio euristico verso la comprensione dei misteri del linguaggio articolato, parlato e scritto. Echi di questa ricerca del nolano si possono ritrovare  nella famosa opera di Robert Graves, apparsa per la prima volta nel 1948 e rieditata recentemente da Adelphi, La Dea Bianca:

    «La mia tesi – scriveva Graves – è che il linguaggio del mito poetico anticamente usato nel Mediterraneo e nell’Europa settentrionale fosse una lingua magica in stretta relazione con cerimonie religiose in onore della dea-Luna, ovvero della Musa (…) Questa lingua fu manomessa verso la fine dell’epoca minoica, allorché invasori provenienti dall’Asia centrale cominciarono a sostituire alle istituzioni matrilineari quelle patrilineari, rimodellando o falsificando i miti per giustificare i mutamenti della società. Poi giunsero i primi  filosofi greci, fortemente ostili alla poesia magica, nella quale ravvisavano una minaccia per la nuova religione della  logica».

    Graves aveva capito che il logos era incapace, perché troppo legato alla ragione patriarcale, di decifrare le profondità invisibili della realtà, ed aveva intuito la portata poetica-conoscitiva di un linguaggio quasi scomparso. Giordano Bruno il filosofo e Graves , storico e mitografo, in qualche modo hanno intuito che gli esseri umani possono fare una profonda esperienza del reale nominando l’esistente in forma mitopoietica.

    Quale sia questa forma di questo linguaggio e da dove scaturisca i due non lo sanno o lo sanno solo empiricamente; sanno però che certamente non è legato al logos generato dalla ragione. Graves cerca questo linguaggio seguendo una miriade di sentieri linguistici e poi ne dichiara l’esistenza storica e la possibilità di ricrearlo; Bruno dice che è legato al furore, all’eroica passione per la ricerca della verità intangibile. Entrambi collocarono la nascita del linguaggio poetico in epoche storiche lontane.

    Ištar

    Bruno pone l’inizio del linguaggio mitopoietico all’interno delle immagini presenti nei geroglifici egiziani; Graves parla della lingua mitica, del suo vagabondare in una Età dell’oro matriarcale, dove nomadismo e stanzialità sfumavano ancora uno nell’altra, e dove, come a Cnosso, non esistevano muraglie megalitiche che escludevano il diverso da sé, l’incomprensibile barbaro che si esprimeva con suoni ineguali al modello della polis. L’autore de La Dea Bianca narra di questo linguaggio vivo in un età dimenticata, perché annullata, dove il divino era presente all’interno dell’essere umano, in forma di daimon. La Dea Bianca, era Luna, era Iside invocata da Lucio ne L’asino d’oro di Apuleio, era la Madre Terra e la stella più lucente, Ištar dea dell’eros che punisce Gilgameš perché non vuole giacere con lei.  La Dea Bianca era tutto questo, ma era soprattutto la Musa, l’Immagine Femminile senza la quale, dice Graves, la poesia è di fatto impossibile.

    Entrambi andarono a cercare spazialmente e cronologicamente i luoghi dove era esistito il linguaggio poetico; lo cercarono in epoche sepolte dal tempo, ma non seppero, come ha fatto lo psichiatra Massimo Fagioli, cogliere la sua fonte primigenia nei primi mesi di vita del neonato.

    Graves per tutta la sua vita, cercò le parole della poesia e le loro infinite migrazioni semantiche; trovò il suono e l’alfabeto dei poeti in ogni dove, seguendone le tracce nella terra dei Sumeri e sulle navi dei Fenici; seguì i canti dalla Magna Grecia alla mitica città di Tartesso, dalla Bretagna all’Irlanda e dall’Inghilterra, poi al seguito dei Normanni, in Sicilia. Oppure le trovò nelle terre dei Catari, nei cimbali dei trouvères provenzali i quali avevano tradotto i canti del gaelico nella langue d’oc.

    La corte di FEDERICO II a Palermo

    Il mitografo cercò per tutta la vita il linguaggio dell’umano, perduto. Il mito biblico della Torre di Babele, da Graves citato, forse è lì a rappresentare la perdita di quel linguaggio umano e universale, non scisso dal corpo.  Il mito biblico che racconta della disgregazione di un solo lingua in migliaia di idiomi incomprensibili forse evocava un’Età dell’Oro perduta quando il linguaggio veniva usato per unire e non per dividere.

    Robert Graves  cercò la poesia vera, quella che egli chiama anche ”iconografia verbale”. La cercò nei canti che evocavano l’immagine femminile, la Dea Bianca, con furore bruniano; la cercò là dove la storia e la capacità di immaginarla si devono ineluttabilmente fondere per divenire conoscenza; là dove veglia, sonno e sogno si uniscono

    «Fosti saggia a destarmi./ E tuttavia/ tu non spezzi il mio sogno, lo prolunghi». John Donne.

    21 ottobre 2012

    Scheda

    Titolo: La dea bianca. Grammatica storica del mito poetico

    Autore: Robert Graves

    Editore: Adelphi

    Collana: il Ramo d’Oro

    Pagg. 596

    Prezzo: € 38,25

    Leggi anche il saggio L’origine organica della poesia

    • ..mi sono chiesto che cosè la poesia ed ho pensato di rivolgere la domanda a massimo fagioli; così sono giunto a questo articolo.
      La poesia è il primo anno di vita del bambino ed in particolare sono le emozioni che il bambino prova/sente in questo periodo nel rapporto con la madre!?
      …ricerca affascinante!

    Scrivi un commento