• Kafka e gli incubi della ragione…

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    Quest’anno si celebra l’anniversario della morte di Ovidio avvenuta nel diciottesimo anno dell’era cristiana. La sua più famosa opera, Le metamorfosi, si riverbera nel romanzo più importante di Franz Kafka, La metamorfosi, apparso poco più di un secolo fa: 1815.

    Il 13 e il 20 novembre 2018, nelle sale del Camelliae Tea Room a Castiglione delle Stiviere (MN) sono andate in scena due improvvisazioni sul tema della “metamorfosi”.

    In queste due serate  dedicate alla metamorfosi, ovvero al tema della trasformazione del reale visibile ed invisibile nella letteratura occidentale, abbiamo provato a dare senso e significato a queste “trasmigrazioni”  fisiche, formali, psichiche, organiche. Lo abbiamo fatto andando a sondare le innumerevoli opere letterarie sul tema della metamorfosi, dai miti cantati da Ovidio a Kafka.

    I due testi che pubblichiamo qui sono solo i canovacci testuali a cui abbiamo attinto durante le due serate:

    20 novembre 2018

    Kafka e gli incubi della ragione

    voce e allestimento

    Nataša Ružica Agnesa Agata Korošec Frntić

    Relatore

    G.C. Zanon

     

    Nel precedente incontro abbiamo parlato della metamorfosi soffermandosi sull’aspetto magico, mitico e religioso della trasformazione della realtà fisica, naturale e soprannaturale. Sia nei miti cantati da Ovidio che nelle leggende della tradizione occidentale le trasformazioni hanno a che fare con la materia.

    Giunta al diciannovesimo secolo anche l’idea della metamorfosi si trasforma.

    La metamorfosi cambia essa stessa la propria natura e non si riferisce più solo ad una trasformazione fisica percepibile ma inizia a sottolineare trasformazioni invisibili che avvengono all’interno dell’essere umano.

    La forma non cambia, ciò che muta è la realtà umana dei protagonisti, che spesso, ripetono i tòpoi letterari del mito.

    La letteratura del diciannovesimo secolo, in una disperata lotta per affrancarsi dalla ragione illuministica e dal positivismo, si apre e si chiude con metamorfosi interiori mostruose:

    Frankenstein o il moderno Promèteo, che viene scritto nel 1818 da Mary Shelley, è una riproposizione del mito di Pigmalione e Galatea. La creatura del dottor Frankenstein, è un cadavere che, come nello stano caso di Lazzaro di Samaria, riprende vita… ma, come se fosse un neonato la sua mente, il suo pensiero muta a causa dell’ambiente umano con cui viene a contatto. Nato buono si ammala per le delusioni subite e subisce una metamorfosi caratteriale negativa che lo porterà e divenire un mostro pazzo di rabbia verso il suo creatore.

    Nel romanzo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, scritto da Stevenson nel 1886, la trasformazione è solo nella diversa fisiognomica del volto sfigurata dalla cattiveria. Ciò che cambia quindi è la natura umana, e di conseguenza il comportamento: il dottor Jekyll diventa cattivo. H. G. Wells nel 1897 pubblica The Invisible Man in cui uno scienziato trova la formula per l’invisibilità e diviene invisibile e perverso. Altra metamorfosi della natura umana.

    Stretti nella morsa di una società intrisa sia dal positivismo della dea ragione sia dominata dal mito del dio onnipotente, gli artisti si rivolgono ad uno “scientismo magico” per narrare delle trasformazioni della realtà interiore negata in modi diversi sia dalla religione, che crede la realtà umana un ente metafisico, (l’anima), sia dal positivismo che descrive l’identità dell’essere come un pantano di umori chimici in lotta tra loro per un equilibrio mentale. Ancora le case farmaceutiche ringraziano.

    La cosiddetta scoperta dell’inconscio da parte di chi la negava definendo l’inconscio “L’inconoscibile”, non aiutava certo a capire cosa accadesse in realtà nel movimento continuo ed inarrestabile del pensiero. Movimento irrazionale o diabolico, a secondo del giudizio, che si credeva controllabile o dalla morale religiosa o dal super-io della ragione.

     

    Ma non tutti caddero nella trappola del non pensiero freudiano: Kafka, per esempio scriveva a Milena Jesenská: «Tu dici, Milena, che non comprendi. Cerca di comprenderlo chiamandolo malattia. È una delle tante manifestazioni patologiche che la psicoanalisi crede di avere scoperto. Io non la chiamo malattia e credo che la parte terapeutica della psicoanalisi sia un tremendo errore.»

    Kafka doveva trovare da solo la sua strada per descrivere “le mal de vivre, ovvero l’impossibilità di aderire ad una qualsivoglia identità di appartenenza, che questa fosse rappresentata dal microcosmo famigliare o dal macrocosmo sociale. Da questo suo malessere interiore, da questo suo vivere in esilio esistenziale, nasce la sua poetica e la sua malattia mortale. Scriveva a Milena: «Ecco, il cervello non riusciva a tollerare più le preoccupazioni e i dolori che gli erano imposti. Diceva – Non ne posso più, ma se c’è ancora qualcuno cui importi conservare il totale, mi tolga un po’ del mio peso e si potrà campare ancora un tantino. Allora si fecero avanti i polmoni che, tanto, non avevano niente da perdere».

    Come dicevo da questo suo esilio esistenziale nasce la sua poetica.

    «Als Gregor Samsa eines Morgens aus unruhigen Träumen erwachte, fand er sich in seinem Bett zu einem ungeheueren Ungeziefer verwandelt. Er lag auf seinem panzerartig harten Rücken und sah, wenn er den Kopf ein wenig hob, seinen gewölbten, braunen, von bogenförmigen Versteifungen geteilten Bauch, auf dessen Höhe sich die Bettdecke, zum gänzlichen Niedergleiten bereit, kaum noch erhalten konnte. Seine vielen, im Vergleich zu seinem sonstigen Umfang kläglich dünnen Beine flimmerten ihm hilflos vor den Augen.

     

    Gregor Samsa, destandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato nel suo letto in un enorme insetto/PARASSITA immondo. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un poco il capo scorse il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta del letto, ormai prossima a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà rispetto alla sua normale corporatura, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinnanzi ai suoi occhi.»

     

    Svegliarsi per Kafka era, presuppongo, un problema visto che il romanzo Il processo inizia allo stesso modo:

     «Jemand mußte Josef K. verleumdet haben, denn ohne daß er etwas Böses getan hätte, wurde er eines Morgens verhaftet…Sofort klopfte es und ein Mann, den er in dieser Wohnung noch niemals gesehen hatte, trat ein. Er war schlank und doch fest gebaut, er trug ein anliegendes schwarzes Kleid, das, ähnlich den Reiseanzügen, mit verschiedenen Falten, Taschen, Schnallen, Knöpfen und einem Gürtel versehen war und infolgedessen, ohne daß man sich darüber klar wurde, wozu es dienen sollte, besonders praktisch erschien. »Wer sind Sie?« fragte K. und saß gleich halb aufrecht im Bett.”

    Qualcuno doveva aver diffamato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato. (…) qualcuno bussò e entrò un uomo, che egli non aveva mai visto prima in quella casa. Era snello eppure ben piantato, indossava un vestito nero attillato che, come gli abiti da viaggio, era dotato di diverse pieghe, tasche, fibbie, bottoni e di una chiusura e che di conseguenza, benché non fosse chiaro a cosa dovesse servire, sembrava particolarmente pratico. “Chi è lei?”, chiese K. sollevandosi a metà sul letto.»

     

    Il protagonista del romanzo al risveglio impazzisce. Vale a dire che, nella fantasia kafkiana, si trasforma in un “enorme insetto immondo” (ungeheueren Ungeziefer), perché, svegliandosi, fa “ritorno alla coscienza”.

    In effetti nella Lettera al padre, che è una denuncia accorata ma lucidissima al genitore, si trova la decifrazione non solo de La metamorfosi ma di tutta l’opera di Franz Kafka, e la conferma che questo “enorme insetto immondo”  altro non è che la rappresentazione della “coscienza” e della “ragione”.

     

    George Bataille, nella sua postfazione alla ‘Lettera al padre’, confermerebbe questa interpretazione riguardo al pensiero irrazionale kafkiano che rappresenta la ragione e la coscienza come un mostro da evitare ad ogni costo: cito «In una parola, Kafka volle che l’esistenza di un mondo irrazionale, i cui significati non si compongono in un ordine, rimanesse l’esistenza sovrana». Ovvero per lui la dimensione irrazionale era più importante del pensiero razionale.

    Infatti dice Bataille «Si comportava semplicemente in modo da rendersi insopportabile all’ambiente dell’attività utilitaria, industriale e commerciale; voleva restare nell’infantilità del sogno». In poche parole l’elemento in cui Kafka si trovava a proprio agio era l’irrazionale da cui poteva attingere le parole/immagini per la sua arte.

    Ne La lettera al padre scritta nel 1919, quattro anni dopo La metamorfosi, troviamo le chiavi dell’opera kafkiana. In questa lettera mai spedita, è chiara l’oppressione sadica che lo scrittore dovette subire sin da bambino da parte di un padre chiaramente schizoide, il quale voleva con tutte le sue forze che il figlio si identificasse con lui. Ma Kafka è consapevole della differenza identitaria e la descrive benissimo: «la tua mano e il mio essere, la materia da plasmare, erano così estranei l’una dall’altro». E quindi, vedendola, la rifiuta.

     

    Le umiliazioni che il padre infliggeva al figlio, troppo diverso da se stesso, miravano a devastarne l’identità umana ed artistica: «Bastava essere felici per una cosa qualunque, esserne presi, tornare a casa e raccontarla, e la risposta era un sospiro ironico, uno scrollare la testa: “Ho visto di meglio, oppure “Se i tuoi pensieri sono tutto qui …” oppure “E che te ne fai” o infine “Sai che avvenimento”»

    Come ogni schizoide che si rispetti, il padre di Kafka, cercava in ogni modo di fargli il vuoto attorno denigrando sempre, con ferocia sadica, i suoi affetti più cari: «Persone innocenti e ingenue come l’attore l’ebreo Löwy furono vittime di questo tuo atteggiamento. Senza conoscerlo, tu lo paragonasti ad un ‘parassita immondo’ (ungeheueren Ungeziefer)».

    Ma Kafka salvò la propria fantasia inconscia da questo padre che voleva annientarla. La salvò riuscendo a difendere la propria identità artistica ed il proprio pensiero irrazionale. Pensiero che gli permise di scrivere, inconsapevolmente, che l’insetto immondo non era, come aveva detto il padre, un essere umano come l’attore Löwy, o come sé stesso, perché essi erano legati al mondo dell’arte e quindi all’irrazionale. Franz Kafka descrive nel romanzo che se si fosse identificato con il pensiero della veglia e della ragione di cui il padre era custode, si sarebbe trasformato in un enorme insetto immondo.

     

    «Lei appartiene alla società che io devo combattere» dice stizzito il protagonista del romanzo Il processo alla moglie dell’usciere del tribunale, una delle donne che, come nel coro del teatro greco, ha la funzione di cercare sia la mediazione tra il “sistema” e l’individuo che gli resiste, sia il suo reintegro: infatti scrive Kafka nella lettera al padre «La mamma rivestiva inconsciamente il ruolo del battitore in una battuta di caccia. (…) grazie alle sue ‘intercessioni’ io venivo risucchiato nella tua orbita, alla quale, altrimenti, sarei riuscito a sottrarmi. » 

    Questo troviamo scritto nella Lettera al padre scritta da Kafka nel 1919 e mai spedita. E il romanzo riporta gli echi di questa sua consapevolezza.

    «“Mamma, mamma”, disse piano Gregorio, alzando gli occhi. (..) La mamma gettò un altro grido, lasciò di corsa il tavolo e cadde tra le braccia del padre, che le era corso incontro. La fuga del procuratore, fece perdere la testa anche al padre, fino ad allora abbastanza calmo. Afferrò con la destra il bastone, lasciato dal visitatore su una sedia con il cappotto e il cappello, prese con la sinistra un giornale dal tavolo, quindi, battendo i piedi e agitando bastone e giornale, cominciò a spingere Gregorio nella sua camera.»

    La vita di Kafka in buona parte è stata spesa per resistere a chi pretendeva da lui la completa identificazione con il macro sistema sociale composto da infinite cellule tra cui la più importante è la famiglia. La famiglia psicogena che cercò in tutti i modi possibili di fa sì Franz si identificasse con il padre per farne un bravo burattino da inserire nel teatro mundi dell’alveare sociale, ben descritto nelle opere di Kafka. E il pensiero freudiano è incardinato sulla strutturazione dell’identità attraverso l’identificazione con i genitori. La teoria del complesso edipico Edipo lo dice chiaramente.

    Questa alterità, questo esilio, questo suo rifiuto di identificarsi con il padre e di conseguenza con tutte le forme sociali da lui ritenute quantomeno menzognere, viene narrato anche in un altro racconto.

    Il 4 settembre del 1917, il medico diagnosticò a Kafka una tubercolosi polmonare diagnosi che in quel tempo equivaleva ad una sentenza di morte.

    Sempre in quell’anno Kafka termina il racconto Una relazione per un’accademia. Questo racconto narra delle disavventure di uno scimpanzé, Peter il Rosso.

    Peter viene catturato nelle foreste africane e in pochissimo tempo riesce, con un sorprendente quanto improbabile spirito di adattamento, a evolvere sino a poter tenere una relazione in un’Accademia gremita di illustri esponenti della cultura europea.

    Durante la relazione la sua natura primaria traspare ancora

    «Ultimamente, nel lavoro di uno dei diecimila fanfaroni che straparlano di me sui giornali, ho letto che la mia natura di scimmia non sarebbe ancora del tutto soppressa (farfugli), e lo dimostrerebbe il fatto che provo piacere a togliermi i pantaloni davanti ai visitatori per mostrare il foro d’entrata di quel colpo (ovvero la ferita d’arma da fuoco ricevuta durante la cattura N.d.R.) A questo bel tomo bisognerebbe far saltare ogni singolo ditino della mano con cui scrive.»

    Pietro il rosso, ex scimmia, parla dal pulpito di un’accademia, lasciando trasparire, una vena d’odio freddo verso il giornalista che, negando la sua metamorfosi intellettuale, intende mostrarlo inchiodato al suo stato precedente di primate.

    La frase tragicomica, sopracitata, fa intravedere la realtà interna di questa ‘scimmia’, la quale, per aver scelto di aderire, annullando la propria natura originaria, alla ‘civiltà’ degli esseri umani, è piena di rabbia e odio verso coloro con cui si è identificata.»

    È un dilemma amletico quello dell’ex scimmia:

    «Rimanere ostinatamente attaccati alle propria origine? O imitare gli uomini?».

    Metamorfizzare la propria realtà primaria, quella della nascita, o adeguare il proprio pensiero e il proprio comportamento all’ambiente in cui, non per sua scelta, Peter è capitato?

    In realtà per lo scimpanzé l’unica via d’uscita dalla sua situazione è quella di aderire alla “normalità sociale”, quantomeno dissimulare un comportamento accettabile. Infatti viste chiuse tutte le vie di fuga egli dice «Io, scimmia libera, mi sottoposi a questo giogo».

    Ed è intorno a questo dramma “dell’identificazione con il più forte”, raccontato da Kafka anche nel testo Lettera al padre, che ruota il racconto. In maniera esplicita ne La lettera al padre e artisticamente in questo racconto, Franz riflette sulla rinuncia alla propria identità umana per ‘vivere’ con gli altri esseri umani aderendo ad una pseudo identità d’appartenenza.

    Pietro il Rosso fa una scelta diversa. Dopo aver copiato in modo manierato ogni movimento degli uomini apprenderà anche la loro forma verbale imitandoli:

    «(farfugli) Era così facile imitare la gente. (sputo)A sputare, imparai fin dai primi giorni. Ci sputavamo in faccia a vicenda; l’unica differenza era che dopo io mi leccavo la faccia per pulirla, loro no. (…) La fatica maggiore me la procurò la bottiglia di grappa. L’odore mi ripugnava; mi costrinsi con tutte le forze; ma ci vollero settimane perché riuscissi a vincermi.

    Queste lotte interiori, sorprendentemente, furono dall’equipaggio prese sul serio più di ogni altra cosa».

    Ed è chiaro che Kafka più o meno consapevolmente si riferisce a modificazioni traumatiche dell’identità originaria, altrimenti non parlerebbe di “lotte interiori”.

    La metamorfosi di un primate, è il travestimento geniale per raccontare grottescamente la carriera del vivere degli esseri umani, che, troppo spesso devono rinunciare “alla propria originale nascita per ‘vivere’, o meglio sopravvivere con gli altri esseri umani”.

    Nel suo resoconto all’accademia l’ex scimmia narra del suo precedente stato animale e delle sue scelte di vita. Inizia così:

    »Hohe Herren von der Akademie!

    Sie erweisen mir die Ehre, mich aufzufordern, der Akademie einen Bericht über mein äffisches Vorleben einzureichen.

    In diesem Sinne kann ich leider der Aufforderung nicht nachkommen. Nahezu fünf Jahre trennen mich vom Affentum, eine Zeit, kurz vielleicht am Kalender gemessen, unendlich lang aber durchzugaloppieren, so wie ich es getan habe, streckenweise begleitet von vortrefflichen Menschen, Ratschlägen, Beifall und Orchestralmusik, aber im Grunde allein, denn alle Begleitung hielt sich, um im Bilde zu bleiben, weit vor der Barriere. Diese Leistung wäre unmöglich gewesen, wenn ich eigensinnig hätte an meinem Ursprung, an den Erinnerungen der Jugend festhalten wollen. Gerade Verzicht auf jeden Eigensinn war das oberste Gebot, das ich mir auferlegt hatte; ich, freier Affe, fügte mich diesem Joch.”

    Eccellenti signori dell’accademia!

    Voi mi fate l’onore di chiedermi per la vostra accademia una relazione sulla mia precedente vita di scimmia.

    In questo senso purtroppo non posso adempiere all’invito. Quasi cinque anni mi dividono dalla condizione di scimmia (farfugli), un tempo forse breve se misurato sul calendario, ma infinitamente lungo da attraversare al galoppo come ho fatto io, a tratti accompagnato da uomini eccellenti, da consigli, consensi e musica d’orchestra, eppure fondamentalmente solo, perché tutto l’accompagnamento si manteneva, per rimanere nell’immagine, lontano dalla barriera. Questo risultato sarebbe stato impossibile se mi fossi ostinato a voler rimanere attaccato alla mia origine e ai miei ricordi di gioventù (urla e farfugli). Una piena rinuncia a ogni ostinazione è stato il primo comandamento che mi sono imposto; io, che ero una scimmia libera, mi sono adattata a questo giogo. (urla e farfugli)»

    Fra le righe del racconto, narra la tragedia di esseri umani che devono rimodellare la propria originale identità umana su modelli familiari, identificandosi, con madri e padri, nonni, ecc… Identificazione che, ormai innescata, poi continuerà in fase adulta, e vedrà gli individui rimodellarsi acriticamente in una identità di appartenenza, anziché stabilire una dialettica tra identità diverse e originali.

     

    «Temo di non essere capito quando parlo di via d’uscita. Uso questo termine nel suo senso più completo e abituale. E’ con intenzione che non dico libertà. Non alludo a questo grande sentimento della libertà in tutte le direzioni. Come scimmia forse la conoscevo, e ho incontrato uomini che ambiscono ad essa. Ma per quanto mi riguarda, non desideravo la libertà allora come non la desidero oggi. Fra parentesi: parlando di libertà gli uomini si ingannano un po’ troppo spesso. E come la libertà va annoverata fra i sentimenti più sublimi, così anche il corrispondente inganno è dei più sublimi.”

    L’inizio del racconto del primate è drammatico: ferito e catturato si ritrova in una gabbia che gli impedisce i movimenti. Cerca una via d’uscita e la trova: imitando gli esseri umani essi, riconoscendolo come uno di loro, l’avrebbero lasciato libero: «Ripeto: non mi attirava imitare gli uomini; li imitavo solo perché cercavo una via d’uscita, nient’altro».

    E così inizia per Pietro il Rosso un lento e doloroso percorso di adattamento al mondo ‘umano’. La sua natura originaria è andata perduta nell’identificazione alla quale ha dovuto sottostare. Si è “salvato” entrando nel sistema: per risolvere il problema amletico dell’essere ha eliminato il problema dell’essere.

    “Quando ad Amburgo fui consegnato al primo domatore capii ben presto che due possibilità mi si offrivano: il giardino zoologico o il varietà. Non esitai. Mi dissi: cerca con tutte le tue forze di arrivare al varietà: quella è la via d’uscita; il giardino zoologico non è che una nuova gabbia: se c’entri, sei perduto”.

    E l’individuo-scimmia, tra la gabbia, dove finiscono i burattini ribelli, e il varietà, dove le marionette ammaestrate si lasciano tirare dai fili di violenti burattinai, sceglie il secondo. Sceglie lo spettacolo effimero del teatro mundi dove tutti portano inchiodata al volto la propria grottesca maschera sociale.

    Nei frammenti non inseriti nel racconto, Kafka narra amaramente di un tempo in cui il vagito originario, se non compreso dal mondo degli adulti, muore: «…tu saluti con l’urlo felice di chi non capisce. Dove vuoi andare? Dietro le assi comincia la foresta».

    Ma Kafka ci insegna che si può essere sé stessi senza aderire a metamorfosi mostruose in quanto negazioni di quel sé più profondo senza il quale la vita è solo una inutile corsa verso la morte.

    Ora di tubercolosi non si muore più, ma se ci si identifica col più forte, si muore di non essere.

    Sipario

    leggi qui il canovaccio della prima serata

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