• Federico Garcia Lorca – El duende teoría y juego – Testo

      0 commenti

    “Il duende teoria e giuoco” è il testo di una delle conferenze tenute a Cuba da Federico Garcia Lorca nel 1930.

    Signore e Signori,

    Dall’anno 1918, in cui entrai nella Residencia de Estudiantes di Madrid, al 1928, quando la lasciai, terminati gli studi di filosofia e lettere, ho ascoltato in quel raffinato salone, dove accorreva per correggere la propria frivolezza da spiaggia francese la vecchia aristocrazia spagnola, circa un migliaio di conferenze.

    Con voglia di aria e di sole, mi sono tanto annoiato che, all’andar via, mi sono sentito coperto da una lieve cenere quasi sul punto di trasformarsi in pepe d’irritazione.

    No. Non vorrei che entrasse nella sala quel terribile moscone della noia che infilza tutte le teste con un tenue filo di sonno e mette negli occhi degli ascoltatori minuscoli gruppi di punte di spillo.

    In parole povere, con il registro che nella mia voce poetica non ha bagliori di zoccoli, né svolte di cicuta, né pecore che d’un tratto sono coltelli di ironie, cercherò di darvi una semplice lezione sullo spirito occulto della dolorante Spagna.

    Chi si trova nella pelle di toro che si estende tra il Júcar, il Guadalete, il Sil o il Pisuerga (non voglio citare le onde di criniera di leone che agita il Plata), sente dire con una certa frequenza: «Questo ha molto duende». Manuel Torres, grande artista del popolo andaluso, diceva a uno che cantava: «Hai voce, conosci gli stili, ma non ce la farai mai, perché non hai duende».

    In tutta l’Andalusia, roccia di Jaén e conchiglia di Cadice, la gente parla costantemente del duende e lo scopre appena compare con istinto efficace. Il meraviglioso cantaor El Lebrijano, creatore della debla, diceva: «I giorni che canto con duende non conosco rivali»; un giorno La Malena, la vecchia ballerina gitana, sentendo suonare da Brailowsky un frammento di Bach esclamò: «Olé! Questo sì che ha duende!» e si annoiò con Gluck, con Brahms e con Darius Milhaud. E Manuel Torres, l’uomo di maggior cultura nel sangue che io abbia conosciuto, ascoltando dallo stesso Falla il suo Notturno del Generalife, pronunciò questa splendida frase: «Tutto ciò che ha suoni neri ha duende». Non c’è verità più grande.

    Questi suoni neri sono il mistero, le radici che affondano nel limo che tutti noi conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da dove proviene ciò che è sostanziale nell’arte. Suoni neri, disse il popolano spagnolo, e in ciò concordò con Goethe che, parlando di Paganini, ci fornisce la definizione del duende: «Potere misterioso che tutti sentono e che nessun filosofo spiega».

    Così, dunque, il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare. Ho sentito dire da un vecchio maestro di chitarra: «Il duende non sta nella gola; il duende sale interiormente dalla pianta dei piedi». Vale a dire, non è questione di facoltà, bensì di autentico stile vivo; ovvero di sangue; cioè, di antichissima cultura, di creazione in atto.

    Questo «potere misterioso che tutti sentono e nesun filosofo spiega» è, insomma, lo spirito della terra, lo stesso duende che abbracciò il cuore di Nietzsche, il quale lo cercava nelle sue forme esteriori sul ponte di Rialto o nella musica di Bizet, senza trovarlo e senza sapere che il duende da lui inseguito era saltato dai misteriosi greci alle ballerine di Cadice o al dionisiaco grido strozzato della seguiriya di Silverio.

    Così, dunque, non voglio che si confonda il duende col demonio teologico del dubbio contro il quale Lutero, a Norimberga, scagliò con sentimento bacchico una bottiglietta d’inchiostro, né col diavolo cattolico, distruttore e poco intelligente, che si traveste da cagna per entrare nei conventi, né con la scimmia parlante che l’astuto turcimanno di Cervantes porta con sé nella commedia della gelosia e delle selve di Andalusia.

    No. Il duende di cui parlo – misterioso e trasalito – discende da quell’allegrissimo demonio di Socrate, marmo e sale, che lo graffiò indignato il giorno che prese la cicuta; e dall’altro malinconico diavoletto di Cartesio, piccolo come mandorla verde, il quale, stufo di cerchi e di linee, se ne andò per i canali a sentir cantare i marinai ubriachi.

    Ogni uomo, ogni artista, rievocherà Nietzsche; ogni scala che sale nella torre della propria perfezione è il prezzo della lotta che sostiene con un duende, non con un angelo, come si è detto, né con la sua musa. È necessario operare tale fondamentale distinzione per la radice dell’opera.

    L’angelo guida e regala come san Raffaele, difende ed evita come san Michele e previene come san Gabriele.

    L’angelo abbaglia, ma vola oltre la testa dell’uomo, è al di sopra, dirama la sua grazia e l’uomo, senza sforzo alcuno, realizza la propria opera, la propria simpatia o la propria danza. L’angelo della via di Damasco, quello che entrò per le fessure di un balconcino di Assisi, o quello che segue i passi di Enrico Susson, ordina e non v’è modo di opporsi alla sua luce, perché agita le ali d’acciaio nell’ambiente del predestinato.

    La musa detta e, in talune occasioni, soffia. Può abbastanza poco, perché è già lontana e così stanca (io l’ho vista due volte) che dovetti metterle mezzo cuore di marmo. I poeti di musa odono voci e non sanno dove, ma sono della musa che li nutre e, talvolta, se li beve. Come per Apollinaire, gran poeta distrutto dall’orribile musa con cui lo dipinse il divino angelico Rousseau. La musa sveglia l’intelligenza, reca paesaggio di colonne e falso sapore di lauro, e spesso l’intelligenza è nemica della poesia, poiché imita troppo, poiché eleva il poeta su un trono di spighe acute e gli fa dimenticare che all’improvviso se lo possono mangiare le formiche o gli può cadere sul capo una grossa aragosta di arsenico, contro la quale nulla possono le muse che stanno nei monocoli o nel rosa di tiepida lacca del salotto.

    Angelo e musa vengono da fuori; l’angelo dà luce e la musa dà forme (da loro apprese Esiodo). Pane d’oro o piega di tuniche, il poeta riceve regole nel suo boschetto di alloro. Di contro, il duende bisogna  svegliarlo nelle più recondite stanze del sangue.

    E respingere l’angelo e tirare un calcio alla musa, e perdere la paura della fragranza di violette che esala la poesia del Settecento e del gran telescopio nei cui cristalli s’addormenta la musa malata di limiti.

    La vera lotta è quella con il duende.

    Si conoscono le vie per cercare Dio, dal rude modo dell’eremita a quello sottile del mistico. Con una torre come santa Teresa, o con tre vie come san Giovanni della Croce.

    E anche se dovessimo esclamare con la voce di Isaia: «In verità, tu sei il Dio ascondito!», alla fine Dio invia a chi lo cerca le sue prime spine di fuoco.

    Per cercare il duende non v’è mappa né esercizio. Si sa soltanto che brucia il sangue come un topico di vetri, che prosciuga, che respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili, che fa sì che Goya, maestro nei grigi, negli argenti e nei rosa della migliore pittura inglese, dipinga con le ginocchia e i pugni in orribili neri di bitume; o che spoglia Don Cinto Verdaguer con il freddo dei Pirenei, o porta Jorge Manrique ad attendere la morte nella landa di Ocaña, o copre con un vestito verde da saltimbanco il delicato corpo di Rimbaud, o mette gli occhi da pesce morto al conte di Lautréamont nell’alba del boulevard.

    I grandi artisti della Spagna meridionale, gitani o flamenchi, sia che cantino, ballino o suonino, sanno che non è possibile nessuna emozione senza l’arrivo del duende. Essi ingannano la gente e possono dare sensazioni di duende senza averlo, come vi ingannano tutti i giorni autori o pittori o stilisti letterari privi di duende; basta, però, prestare un minimo di attenzione, e non lasciarsi guidare dall’indifferenza, per scoprire la trappola e metterli in fuga col loro rozzo artificio.

    Una volta, la cantaora andalusa Pastora Pavón, «La bambina dei pettini», cupo genio ispanico, pari in capacità fantastica a Goya o a Rafael il Gallo, cantava in una taverna di Cadice. Giocava con la sua voce d’ombra, con la sua voce di stagno fuso, con la sua voce coperta di muschio, e se la intrecciava nella chioma o la bagnava nella camomilla o la perdeva in gineprai oscuri e lontanissimi. Ma niente; era inutile. Gli ascoltatori restavano zitti.

    Era presente Ignacio Espeleta, bello come una testuggine romana, cui una volta domandarono: «Come mai non lavori?»; ed egli, con un sorriso degno di Argantonio, rispose: «Come posso lavorare se sono di Cadice?».

    Era presente Eloisa, la calda aristocratica, meretrice di Siviglia, discendente diretta di Soledad Vargas, che nel Trenta non volle sposare un Rothschild perché non le era eguale per sangue. Erano presenti i Floridas, che tutti credono macellai ma che, in realtà, sono sacerdoti millenari che continuano a sacrificare tori a Gerione; e, in un angolo, l’imponente allevatore di bestiame don Pablo Murube con l’aria di una maschera cretese. Pastora Pavón finì di cantare nel silenzio. Solo, e con sarcasmo, un uomo piccolino, di quegli ometti ballerini che escono all’improvviso dalle bottigliette di acquavite, disse con voce grave: «Viva Parigi!», come a dire: «Qui non ci interessano le capacità, né la tecnica, né la maestria. È altro ciò che ci interessa».

     –

    Allora La bambina dei pettini si alzò come una folle, gobba come una prefica medievale, trangugiò d’un sol sorso un gran bicchiere d’acquavite come fuoco, e si sedette a cantare senza voce, senza fiato, senza sfumature, con la gola riarsa, ma… con duende. Era riuscita a uccidere l’intera impalcatura della canzone per cedere il posto a un duende furioso e rovente, amico dei venti carichi di sabbia, che induceva gli ascoltatori a stracciarsi le vesti quasi al medesimo ritmo dei negri antillani del rito ammassati dinnanzi all’immagine di santa Barbara.

    La bambina dei pettini dovette squarciarsi la voce, perché sapeva che gli ascoltatori erano dei raffinati che non chiedevano forme, bensì midollo di forme, musica pura dal corpo leggero per potersi mantenere in aria. Dovette privarsi di facoltà e di sicurezze; ossia, allontanare la sua musa e rimanere indifesa, affinché il suo duende venisse e si degnasse di lottare a viva forza. E come cantò! La sua voce non giocava più, era un fiotto di sangue degno del suo dolore e della sua sincerità, e si apriva come una mano di dieci dita sui piedi inchiodati, ma pieni di tempesta, di un Cristo di Juan de Juni.

    Il sopraggiungere del duende presuppone sempre un cambiamento radicale di ogni forma rispetto a vecchi piani, dà sensazioni di freschezza del tutto inedite, con una qualità di rosa appena creata, di miracolo, che produce un entusiasmo quasi religioso.

    In tutta la musica araba, danza, canzone o elegia, il sopraggiungere del duende viene salutato con energici «Allah! Allah!», «Dio! Dio!», tanto vicini all’«Olé!» della corrida che chissà che non siano la stessa cosa; e in tutti i canti della Spagna meridionale l’apparizione del duende è seguita da sincere grida di «Viva Dios!», profondo, umano, tenero grido di una comunicazione con Dio per mezzo dei cinque sensi, grazie al duende che agita la voce e il corpo della ballerina, evasione poetica e reale da questo mondo, pura come quella raggiunta dallo stranissimo poeta del secolo XVII Pedro Soto de Rojas attraverso sette giardini, o quella di Juan Clímaco per una tremolante scala di pianto.

    Naturalmente, quando si raggiunge tale evasione ciascuno ne avverte gli effetti: l’iniziato, vedendo come lo stile vince una materia povera, e l’ignorante, in quel ‘non so che’ di un’emozione autentica. Anni fa, in un concorso di ballo a Jerez de la Frontera, una vecchia di ottant’anni in gara con donne splendide e ragazze con un vitino di vespa, si portò via il premio per il semplice fatto di aver sollevato le braccia, eretto il capo e dato un colpo con il piede sul tabladillo; ma a quella riunione di muse e di angeli che stava avendo luogo, bellezze di forma e bellezze di sorriso, non poteva che vincere, e vinse, quel duende moribondo che trascinava per terra le sue ali di coltelli ossidati.

    Il duende può comparire in tutte le arti, ma dove lo si trova con maggiore facilità, com’è naturale, è nella musica, nella danza e nella poesia recitata, giacché queste necessitano di un corpo vivo che le interpreti, poiché sono forme che nascono e muoiono di continuo ed elevano i propri contorni su di un preciso presente.

    Spesso il duende di un musicista passa al duende dell’interprete e, altre volte, quando il musicista o il poeta non sono tali, il duende dell’interprete, e ciò è interessante, crea una nuova meraviglia che, all’apparenza, altro non è se non la forma primitiva. È il caso della induendata Eleonora Duse, la quale cercava opere fallite per portarle al successo grazie alla sua capacità inventiva, o il caso di Paganini, riferito da Goethe, che sapeva trarre melodie profonde da autentiche volgarità, o il caso di una deliziosa ragazza di Puerto de Santa María, che io vidi cantare e ballare l’orribile canzonetta italiana Ohi Marí!, con dei ritmi e dei silenzi e un’intenzione che trasformavano la paccottiglia italiana in un duro, eretto serpente d’oro. Ciò che in realtà avveniva in quei casi era un qualcosa di nuovo che nulla aveva a vedere con quanto esisteva prima; veniva immesso sangue vivo e scienza in corpi vuoti d’ogni espressione.

    Tutte le arti, come pure i paesi, sono capaci di duende, di angelo e di musa; e se la Germania, salvo eccezioni, ha musa e l’Italia un angelo permanente, la Spagna è in tutti i tempi mossa dal duende, come paese di musica e danze millenarie, dove il duende spreme limoni all’alba, e come paese di morte, come paese aperto alla morte.

    In tutti i paesi la morte è un fine. Giunge e si chiudono le tende. In Spagna, no. In Spagna si aprono. Lì la gente vive tra mura fino al giorno in cui muore e viene portata fuori al sole. Un morto in Spagna è più vivo come morto che in qualsiasi altro posto al mondo: il suo profilo ferisce come il filo di un rasoio.

    Gli scherzi sulla morte e la sua contemplazione silenziosa sono familiari agli spagnoli. Da El sueño de las calaveras di Quevedo al Obispo podrido di Valdés Leal, e dalla Marbella del secolo XVII, morta di parto in mezzo alla strada, che dice:

    Il sangue delle mie viscere
    copre il cavallo a poco a poco
    Le zampe del tuo cavallo
    or di catrame gettan fuoco…

    al recente ragazzo di Salamanca, ucciso dal toro, che invoca:

    Amici, ecco che muoio,
    amici, son molto malato.
    Dentro ho già tre fazzoletti
    e questo che metto son quattro…

    v’è una balaustra di fiori di salnitro, dove si affaccia un popolo di contemplatori della morte, con versetti di Geremia dal lato più aspro, o con cipresso fragrante da quello più lirico, ma un paese dove la cosa più importante di tutte ha un ultimo valore metallico di morte.

    La coltella e la ruota del carro, e il rasoio e le barbe spinose dei pastori, e la luna pelata, e la mosca, e le dispense umide, e le macerie, e i santi coperti di pizzo, e la calce, e la linea tagliente di gronde e terrazze hanno in Spagna piccole erbe di morte, allusioni e voci percettibili per uno spirito desto, che la memoria ci richiama con l’aria irrigidita del nostro proprio trapasso. Non è frutto del caso tutta l’arte spagnola legata con la nostra terra di cardi e pietre di confine, non è un esempio isolato il lamento di Pleberio o le danze del maestro Josef María de Valdivielso, non è un caso che tra tutte le ballate europee spicchi questa amata spagnola:

     

    Se tu sei la mia bella amica,
    a non guardarmi, dí, come fai?
    Occhi con cui ti guardavo
    io all’ombra li donai.
    Se tu sei la mia bella amica,
    a non baciarmi, dí, come fai?
    Labbra con cui ti baciavo
    alla terra le donai.
    Se tu sei la mia bella amica,
    a non abbracciarmi, dí, come fai?
    Braccia con cui ti abbracciavo
    con i vermi le velai.

    Né è strano che agli albori della nostra lirica suoni questa canzone:

    Dentro il verziere
    morirò,
    dentro il roseto
    ucciso sarò.
    Io me ne andavo, madre mia,
    a coglier rose,
    la morte ad incontrar
    dentro il verziere.
    Io me ne andavo, madre mia,
    a tagliar rose,
    la morte ad incontrar
    dentro il roseto.
    Dentro il verziere
    morirò,
    dentro il roseto
    ucciso sarò.

    Le teste gelate dalla luna che dipinse Zurbarán, il giallo burro con il giallo fulmine del Greco, il racconto di padre Sigüenza, tutte le opere di Goya, l’abside della chiesa di El Escorial, tutta la scultura policroma, la cripta della casa ducale di Osuna, la morte con la chitarra della cappella dei Benaventes a Medina de Rioseco, equivalgono, sul piano cólto, alle sagre di San Andrés de Teixido, dove i morti hanno un posto nella processione, ai canti funebri intonati dalle donne delle Asturie con lanterne piene di fiamme nella notte di novembre, al canto e danza della sibilla nelle cattedrali di Maiorca e Toledo, all’oscuro In recort tortosino e agli innumerevoli riti del venerdì santo che, con la coltissima festa della corrida, formano il trionfo popolare della morte spagnola. Nel mondo, solamente il Messico può andare a braccetto con il mio Paese.

    Quando la musa vede giungere la morte chiude la porta o innalza un plinto o si porta in giro un’urna e scrive un epitaffio con mano di cera, ma subito torna a stracciare il suo lauro con un silenzio che vacilla tra due brezze. Sotto l’arco troncato dell’ode ella unisce con senso funebre i medesimi fiori che dipinsero gli italiani del Quattrocento e chiama l’impavido gallo di Lucrezio affinché spaventi ombre impreviste.

    Quando vede giungere la morte, l’angelo vola in cerchi lenti e tesse con lacrime di ghiaccio e narciso l’elegia che abbiamo visto tremare nelle mani di Keats, e in quelle di Villasandino, e in quelle di Herrera, e in quelle di Béquer e in quelle di Juan Ramón Jiménez. Ma che terrore prende l’angelo quando sente un ragno, per piccolo che sia, sul suo tenero piede rosato!

    Il duende, invece, non giunge se non coglie possibilità di morte, se non sa che deve far la ronda alla sua casa, se non è sicuro di dover cullare quei rami che tutti portiamo e che non hanno, che non avranno consolazione.

    Con un’idea, con un suono o con un gesto, il duende si compiace dei bordi del pozzo in aperta lotta con il creatore. Angelo e musa scappano con violino o ritmo, e il duende ferisce, e nella guarigione di questa ferita, che mai rimargina, risiede l’insolito, l’inventato dell’opera umana.

    La virtù magica del componimento poetico consiste nell’essere sempre induendato per battezzare con acqua oscura tutti coloro che lo guardano, poiché con duende è più facile amare, comprendere, ed è una certezza l’essere amati, l’essere compresi, e questa lotta per l’espressione e per la comunicazione dell’espressione a volte acquisisce, in poesia, caratteri mortali.

    Ricordate il caso della flamenchissima e induendata santa Teresa, flamenca non per aver legato un toro furioso e averlo passato con tre figure [da torero, ndt] magnifiche, cosa che fece; non per essersi pavoneggiata davanti a fra Juan de la Miseria, né per aver mollato un ceffone al nunzio di Sua Santità, bensì per essere una delle poche creature il cui duende (non il cui angelo, poiché l’angelo non attacca mai) la trapassa con un dardo, volendo ucciderla perché gli ha carpito il suo ultimo segreto, il ponte sottile che unisce i cinque sensi a quel centro di carne viva, di nube viva, di mare vivo, che è l’Amore liberato dal Tempo.

    Coraggiosissima vincitrice del duende, a differenza di Filippo d’Austria che, bramando di trovare musa e angelo nella teologia, si ritrovò prigioniero del duende dagli ardori freddi in quell’opera di El Escorial, dove la geometria confina con il sogno e dove il duende si maschera da musa a eterno castigo del gran re.

    Abbiamo detto che il duende ama il bordo, la ferita, e si avvicina ai luoghi dove le forme si fondono in un anelito superiore alle loro espressioni visibili.

    In Spagna (come nei popoli orientali, per i quali la danza è espressione religiosa) il duende ha un potere illimitato sui corpi delle ballerine di Cadice, elogiate da Marziale, sui petti di coloro che cantano, elogiati da Giovenale, e in tutta la liturgia della corrida, autentico dramma religioso in cui, al pari della messa, si adora, e ci si sacrifica, a un Dio.

    Sembra come se l’intero duende del mondo classico si radunasse in questa festa perfetta, esponente della cultura e della grande sensibilità di un popolo che scopre nell’uomo le sue migliori ire, le sue migliori bili, il suo miglior pianto. Né nel ballo spagnolo né nella corrida si diverte alcuno; il duende s’incarica di far soffrire per mezzo del dramma, su forme vive, e prepara le scale per un’evasione dalla realtà che ci circonda.

    Il duende opera sul corpo della ballerina come il vento sulla sabbia. Trasforma con magico potere una ragazza in paralitica della luna, o riempie di rossori verginali un vecchio straccione che chiede l’elemosina per le osterie, dà con una chioma odore di porto notturno, e in ogni momento opera sulle braccia con espressioni che sono madri della danza di tutti i tempi.

    Ma mai è possibile ripetersi, ed è molto interessante sottolinearlo. Il duende non si ripete, come non si ripetono le forme del mare in burrasca.

    Nella corrida assume gli accenti più impressionanti, perché da un lato deve lottare con la morte che può distruggerlo, dall’altro con la geometria, con la misura, fondamento della fiesta.

    Il toro ha la propria orbita, il torero la sua, e fra orbita e orbita un punto di pericolo: il vertice del terribile giuoco.

    Si può avere musa con le muletas e angelo con le banderillas e passare per buon torero, ma nei passagi di capa, con il toro ancora privo di ferite, e poi nel momento di uccidere, occorre l’aiuto del duende per colpire nel segno della verità artistica.

    Il torero che spaventa il pubblico nell’arena con la sua temerarietà non torea, bensì assume quell’atteggiamento ridicolo, alla portata di qualsiasi uomo, di giocarsi la vita: il torero morso dal duende, invece, impartisce una lezione di musica pitagorica e fa dimenticare che scaglia costantemente il cuore sopra le corna.

    Lagartijo col suo duende romano, Joselito col suo duende ebraico, Belmonte col suo duende barocco e Cagancho col suo duende gitano, mostrano, dal crepuscolo dell’arena, a poeti, pittori e musicisti, quattro grandi strade della tradizione spagnola.

    La Spagna è l’unico paese dove la morte è lo spettacolo nazionale, dove la morte suona lunghi clarini al sopraggiungere della primavera, e la sua arte è sempre retta da un duende acuto che le ha conferito differenza e qualità d’invenzione.

    Il duende che riempie di sangue, per la prima volta nella scultura, le gote dei santi del maestro Matteo di Compostela, è lo stesso che fa gemere san Giovanni della Croce, e che brucia ninfe nude nei sonetti religiosi di Lope.

    Il duende che innalza la torre di Sahagún o lavora caldi mattoni a Calatayud e Teruel è il medesimo che squarcia le nubi del Greco e allontana a pedate le guardie di Quevedo e le chimere di Goya.

    Quando piove tira fuori Velazquez induendato in segreto dietro i suoi grigi monarchici; quando nevica fa uscire Herrera nudo per dimostrare che il freddo non uccide; quando arde mette nelle proprie fiamme Berruguete e gli fa inventare un nuovo spazio per la scultura.

    La musa di Góngora e l’angelo di Garcilaso devono cedere la ghirlanda di lauro quando passa il duende di san Giovanni della Croce, quando

    Il cervo vulnerato
    di sopra il colle appare.

    La musa di Gonzalo de Berceo e l’angelo dell’arciprete di Hita devono cedere il passo a Jorge Manrique quando, ferito a morte, giunge alle porte del castello di Belmonte. La musa di Gregorio Hernández e l’angelo di José de Mora devono allontanarsi per lasciar attraversare il duende che piange lacrime di sangue di Mena e il duende con testa di toro assiro di Martínez Montañés, come la malinconica musa della Catalogna e l’angelo bagnato della Galizia devono guardare, con amoroso stupore, il duende della Castiglia, tanto lontani dal pane caldo e dalla dolcissima vacca che si pasce di scampoli di cielo spazzato e terra secca.

    Duende di Quevedo e duende di Cervantes, con verdi anemoni di fosforo l’uno, e fior di gesso di Ruidera l’altro, coronano il quadro del duende di Spagna.

    Ogni arte ha, com’è naturale, un duende di forma e modo diversi, ma tutti affondano le radici in un punto da cui sgorgano i suoni neri di Manuel Torres, materia ultima e fondo comune scosso da brivido incontrollabile di legno, suono, tela e vocabolo.

    Suoni neri dietro i quali stanno da tempo in tenera intimità i vulcani, le formiche, gli zefiri e la grande notte che si cinge la vita con la via lattea.

    Signore e signori, ho innalzato tre archi e con mano incerta ho messo in essi la musa, l’angelo e il duende.

    La musa rimane tranquilla; può avere la tunica a piccole pieghe o gli occhi di vacca che guardano, di Pompei, oppure il nasone a quattro facce con cui l’ha dipinta il suo grande amico Picasso. L’angelo può agitare capelli di Antonello da Messina, tunica di Lippi e violino di Masolino e di Rousseau.

    Il duende… Ma dov’è il duende? Dall’arco vuoto entra un’aria mentale che soffia con insistenza sulle teste dei morti, alla ricerca di nuovi paesaggi e accenti ignorati; un’aria con odore di saliva di bimbo, di erba pesta e velo di medusa che annuncia il costante battesimo delle cose appena create.

    Pablo Neruda: Lorca, grande poeta

    Che poeta! Non ho mai visto riunite, come in lui, la grazia e il genio, il cuore alato e la cascata cristallina. Federico García Lorca era lo spirito scialacquatore, l’allegria centrifuga, che raccoglieva in seno e irradiava, come un pianeta, la felicità di vivere. Ingenuo e commediante, cosmico e provinciale, singolare musicista, splendido mimo, timido e superstizioso, raggiante e gentile: era una sorta di riassunto delle età della Spagna, della fioritura popolare; un prodotto arabico-andaluso che illuminava e profumava, come un gelsomino, tutta la scena di quella Spagna, ahimè!, scomparsa. […] La grande capacità di metafora di García Lorca mi seduceva e mi interessava tutto ciò che scriveva. Dal canto suo, lui mi chiedeva a volte di leggergli le mie ultime poesie e, a metà della lettura, mi interrompeva gridando: «Non continuare, non continuare, ché mi influenzi!». Nel teatro e nel silenzio, nella folla e nel decoro, era un moltiplicatore della bellezza. Non ho mai veduto un tipo con così tanta magia nelle mani. Non ho mai avuto un fratello più allegro di lui. Rideva, cantava, musicava, saltava, inventava, crepitava. […] «Ascolta», mi diceva prendendomi sottobraccio, «la vedi quella finestra? Non la trovi ciorpatelica?».
         «E che vuol dire ciorpatelico?».
         «Non lo so neanch’io, ma è assolutamente necessario che ci rendiamo conto di cosa sia e cosa non sia ciorpatelico. Altrimenti, siamo perduti. Guarda quel cane lì: com’è ciorpatelico!». […]
         Federico ebbe una premonizione della sua morte. Una volta, di ritorno da una tournée teatrale, mi chiamò per raccontarmi  un fatto molto strano. Con la troupe de La Barraca, era giunto a un remoto paesino della Castiglia, nelle cui vicinanze aveva accampato per passare la notte. Non  riuscendo a dormire, verso l’alba, uscì a fare un giro […]. Si fermò all’ingresso dell’ampio parco di una vecchia proprietà feudale, dove l’abbandono, l’ora e il freddo rendevano la solitudine ancor più penetrante. Federico si sentì, ad un tratto, oppresso per via di qualcosa di confuso che doveva accadere. Si sedette su un capitello caduto. Un agnellino venne a brucare fra i ruderi e la sua comparsa fu quella di un piccolo angelo di nebbia che, di colpo, rendeva umana la solitudine. All’improvviso apparve un branco di maiali. Erano quattro o cinque bestie scure, maiali neri, selvatici e affamati. Federico assistette allora a una scena raccapricciante: i maiali si  avventarono sull’agnello, lo squartarono e divorarono. Questa scena, di sangue e solitudine, scosse Federico a tal punto che ordinò al suo teatro ambulante di proseguire subito il viaggio. Ancora stravolto dall’orrore, Federico mi raccontava questa storia terribile tre mesi prima della Guerra Civile. In seguito compresi, sempre più chiaramente, che quella scena era stata la rappresentazione anticipata della sua morte. […] L’assassinio di Federico fu per me l’avvenimento più doloroso di un lungo combattimento. La Spagna è sempre stata un campo di gladiatori; una terra con molto sangue. L’arena, con il suo sacrificio e la sua crudele eleganza, ripete l’antica lotta mortale fra l’ombra e la luce.

     

    Articoli correlati

    Scrivi un commento