• Albert Camus – Gli articoli di Combat: “Né vittime né carnefici – Un nuovo contratto sociale”

      0 commenti

    tumblr_m5n9l1BS2Y1r68vp9o1_500

     Nel 1946 la collaborazione di Camus a Combat è rappresentata solo da otto articoli della serie Né vittime né carnefici“Ni victimes, ni bourreaux”.

    Questi articoli vennero scritti dallo scrittore francese per rispondere a due problemi che lo premevano. La prima risposta, di ordine pratico, fu quella di dare una mano al giornale Combat che stava rischiando la chiusura; la seconda, nobile, fu per lanciare un grido di allarme e di protesta contro il dominio del terrore che si stava instaurando nel mondo e contro la legittimazione dell’omicidio che lo sottendeva. Né vittime né carnefici disegna le inquietudini di Albert Camus in quel periodo storico in cui le speranze di pace e di un rinnovamento radicale della società dell’immediato dopoguerra si andavano via via appannando.

    G.C.Z.

    I suoi  articoli, oltre ad essere assolutamente attuali, rivelano le fonti della crisi sistemica che stiamo vivendo.

    Un nuovo contratto sociale

    Riassumo. La sorte degli esseri umani di tutte le nazioni non si risolverà prima che si risolva il problema della pace e dell’organizzazione mondiale. In nessuna parte del globo avrà luogo una rivoluzione efficace prima che sia realizzata questa rivoluzione pacifica. Quant’altro si dice in Francia, oggi, è insignificante o interessato. Mi spingerò persino oltre. Finché non si creerà la pace, non solo non si cambierà stabilmente il modello di proprietà in nessuna parte del globo, ma non troveranno soluzione nemmeno i problemi più semplici, come quello del pane quotidiano, della grande fame che torce i ventri degli europei e del carbone.

    Qualunque pensiero riconosca lealmente la propria incapacità di giustificare la menzogna e l’omicidio non può che giungere, per quanto poco si curi della verità, a questa conclusione. Dunque non gli resta quindi che conformarsi tranquillamente a un ragionamento come il nostro.

    Il suddetto pensiero dovrà così riconoscere: 1° che la politica interna, considerata in sé e per sé, è una faccenda del tutto secondaria e per certi versi impensabile; 2° che l’unico problema è la creazione di un ordine internazionale in grado di assicurare finalmente  forme strutturali durevoli che diano il senso della rivoluzione; 3° che all’interno delle nazioni esistono solamente problemi  amministrativi, da regolare in maniera provvisoria, e nel modo migliore possibile, in attesa di una regolamentazione politica più efficace perché più generale.

    Andrà detto, per esempio, che la Costituzione francese non può essere valutata se non in funzione del servizio che rende o non rende, ad un ordine internazionale fondato sulla giustizia e sul dialogo. Da questo punto di vista, va condannata l’indifferenza della nostra Costituzione alle più semplici libertà dell’uomo. Andrà riconosciuto che l’organizzazione provvisoria del vettovagliamento è dieci volte più importante del problema delle nazionalizzazioni o delle statistiche elettorali. Le nazionalizzazioni in un solo paese non potranno essere durevoli. E se il vettovagliamento può essere regolato sul solo piano nazionale, ecco che assume  un carattere di urgenza e impone il ricorso a espedienti, sia pure provvisori.

    Tutto ciò può finalmente dotare il nostro giudizio sulla politica interna il criterio che finora mancava. Trenta editoriali de l’Aube avranno un bell’opporsi ogni mese a trenta editoriali de l’Humanité: in ogni caso non riusciranno a farci dimenticare che i due giornali, con i partiti che rappresentano e gli uomini che li dirigono, hanno accettato senza referendum l’annessione di Briga e Tenda(1), e che agendo in questo modo, si sono trovati uniti, nei confronti della democrazia internazionale, in un’unica impresa di distruzione. Non importa se con cattiva o buona volontà, Bidault e Thorez si schierano così, in egual misura,  a favore del principio della dittatura internazionale. Per cui, checché se ne possa  pensare, finiscono per rappresentare nella nostra politica non già la realtà bensì l’utopia più sciagurata.

    Si, dobbiamo minimizzare l’importanza della politica interna. Non si guarisce la peste con i rimedi che si applicano ai raffreddori di testa. Una crisi che sta dilaniando  il mondo intero deve essere risolta su scala universale. L’ordine per tutti, affinché diminuisca per ciascuno il peso della miseria e della paura: ecco oggi, secondo logica, il nostro obbiettivo. Il che richiede, tuttavia, un’azione e una quantità di sacrifici, in altre parole uomini che siano all’altezza. E se oggi ci sono molti uomini i quali, che segreto del proprio cuore, maledicono la violenza e i massacri, non ce ne sono molti disposti a riconoscere che questo li obbliga a riconsiderare il loro pensiero o la loro azione. Coloro che vorranno fare simile sforzo troveranno comunque una speranza fondata e un codice di comportamento.

     Ammetteranno di non potersi aspettare granché dagli attuali governi, dato che questi vivono e agiscono secondo princìpi criminali. L’unica speranza risiede nella più grande delle penitenze,  quella che consiste nel riprendere le cose all’ inizio onde ricostruire una società viva all’interno di una società condannata a morte. Bisogna quindi che tali uomini, uno a uno, stabiliscano di nuovo fra loro, all’interno e al di là dei confini, un nuovo contratto sociale che li unisca sulla base dei princìpi più ragionevoli.

    Il movimento per la pace di cui ho parlato dovrebbe potersi articolare, all’interno delle nazioni, su comunità di lavoro e, al di là dei confini, su comunità di meditazione: le prime, secondo contratti graduali  sul modello cooperativo, allevierebbero la fatica del maggior numero possibile di individui; le seconde proverebbero a individuare i valori in base ai quali vivrà quest’ordine internazionale, sostenendone nel contempo la sua causa in ogni occasione.

    Più in dettaglio, il compito delle seconde sarebbe quello di contrapporre parole chiare alle babele del terrore, e d’individuare al stesso tempo i valori indispensabili ad un mondo pacificato. I suoi primi obbiettivi potrebbero essere un codice di giustizia internazionale il cui primo articolo sarebbe l’abolizione generale della pena di morte e una messa in chiaro dei princìpi necessari a ogni cultura del dialogo. Il lavoro risponderebbe ai bisogni di un’epoca che non sta trovando in alcuna filosofia le giustificazioni indispensabili alla sete di amicizia che brucia oggi le anime dell’occidente. È comunque evidente che non si tratterebbe di edificare una nuova ideologia, si tratterebbe soltanto di ricercare uno stile di vita.

    Ecco qui, in ogni caso, alcuni motivi di riflessione, sui quali, tenendo presente il quadro degli articoli in corso, non posso dilungarmi. Per parlare più concretamente, diciamo che le persone che decidessero di opporre, in ogni circostanza, l’esempio al potere, la dialettica al dominio, il dialogo all’insulto, ed il semplice onore alla furberia; che rifiutassero tutti i vantaggi della società attuale, ed accettassero soltanto i doveri e gli impegni che li legano agli altri esseri umani; che si impegnassero ad orientare prima di tutto l’insegnamento, poi la stampa e l’opinione pubblica, secondo le indicazioni di cui si è discusso fin qui, quegli uomini non agirebbero assecondando l’utopia – lo prova l’evidenza – ma il più onesto realismo. Essi preparerebbero i futuro e, di conseguenza, farebbero cadere, fin da oggi, alcuni dei muri che ci opprimono. Se il realismo è l’arte di tener conto, al tempo stesso, del presente e del futuro, di ottenere il più sacrificando il meno, come non vedere che essi si schiererebbero dalla parte alla realtà più rivelatrice?

    Non so se persone del genere si materializzeranno, oppure no. È probabile che la maggior parte di esse in questo momento stia riflettendo, e ciò è bene. Ma una cosa è certa : l’efficacia della loro azione non potrà andare disgiunta dal coraggio con cui accetteranno di rinunciare, nell’immediato, a determinati  sogni per puntare esclusivamente all’essenziale, cioè a salvare vite umane. E, una volta arrivati a questo punto, si dovrà, forse, prima di concludere, alzare la voce.

    (1)I trattati di Parigi tra le potenze vincitrici previdero la cessione dall’Italia alla Francia delle città di Briga e Tenda.

    Articoli Correlati

    Scrivi un commento