• Abitudine, abitudini … e cieli di cartapesta

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    La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! – venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. – Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis.
    – La tragedia d’Oreste?
    – Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.
    – Non saprei, – risposi, stringendomi ne le spalle.
    – Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.
    – E perché?
    – Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.
    E se ne andò, ciabattando.
    (…)

    L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto: «Beate le marionette, – sospirai, – su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato…» (1)

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    “… e mi pettino i pensieri col bicchiere nella mano. Chi di voi l’ha vista partire, dica pur che stracciona era, quanto vento aveva tra i capelli , se rideva o se piangeva” … papapapa papa para rappa, papapapa papa para rappa, “ … giocando a carte con il suo destino” canticchio e … e la notte di maggio profuma, colombe e tortore tacciono … la gatta, senti come miagola!!!!, è in amore.

    Un post-it, scarabocchiato con segni alfabetici, occhieggia dalla scrivania dicendomi “ABITUDINE”. È lì da giorni e forse è il caso di prenderlo seriamente … «L’abitudine – scriveva un Samuel Beckett trentenne, in Proustè il ceppo che incatena il cane al suo vomito.» e poi sempre su quel libriccino scriveva che «La tragedia è il racconto di un’espiazione, ma non la miserabile espiazione per la violazione di un accordo locale, sottoscritto dai bricconi per i pazzi. La figura tragica rappresenta l’espiazione del peccato originale, dell’originale ed eterno peccato suo e di tutti i “soci malorum”, il peccato di essere nati. “Pues el delito mayor/ del hombre es haber nacido”. » (2) mi chiedo perché Beckett abbia contrapposto l’abitudine al delitto di nascere … ma forse lo so.

    Stanotte forse potrei sfuggire al controllo dell’abitudine mentale, sfruttando una breve sospensione della sua feroce vigilanza, e far scorrere più velocemente il sangue nelle vene illudendomi di rivivere quei barbari sentimenti della nascita nei quali l’abitudine non era certamente esistente.

    Non era certamente esistente l’abitudine qui tollis peccata mundi; l’abitudine che ci spinge a credere che “si, tutto sommato” la nostra realtà umana altro non sia che un’immagine fissata nel tempo che si dibatte nel pensiero degli altri ai quali, per accidia e vigliaccheria, la si affida. Al più si fa uno sforzo … non per mutare la propria immagine interiore, ma per cercare di modificarla nel pensiero altri. Gli altri ai quali si affida l’occulta regia delle nostre azioni, del nostro pensiero, persino delle nostre intenzioni.

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    L’abitudine … l’abitudine … abitudine è il nascondersi nei necrologi collettivi piuttosto che trovare il coraggio di dire due parole a lei o a lui sfiorati dalla morte, o peggio, «Ai funerali supero me stesso. Eccello veramente. Cammino a passo lento in periferie fiorite di ferri vecchi, m’inoltro in larghi viali costeggiati da alberi di cemento che conducono a dei buchi di terra fredda. Là, sotto la fascia del cielo appena rossa, guardo degli arzilli individui inumare i miei amici a tre metri di profondità. E se getto il fiore che una mano terrosa mi tende, allora non sbaglio mai la fossa. Ho la pietà precisa, l’emozione esatta, la nuca opportunamente inclinata. La giustezza delle mie parole viene ammirata.» (3)

    L’abitudine … l’abitudine … abitudine è convivere – insieme a parenti, amici, amanti, colleghi – nei microcosmi che ci sono familiari, muovendosi come funamboli su tele di ragno di cui noi stessi abbiamo tessuto porzioni più o meno estese. Li ci si muove con cautela perché basterebbe un piccolo ma perturbante pensiero eversivo, avvertito dagli altri come un disequilibrio, per far sì che il malcapitato venga avvolto dai fili della ragnatela e immobilizzato preparandolo al pasto. Già vedo gli altri componenti di quel microcosmo in fila per ordine di grado, dettato dalla gerarchia del branco, che si avvicinano al perturbante per succhiare la propria dose di vitalità prodotta dai moti della sua ribellione. L’importante è ristabilire e riorganizzare l’abitudine dopo il pasto caldo con la nemesis che succede allo scompiglio. E poco importa se dopo nulla sarà più veramente come prima .. basta credere che lo sia … n’est-ce-pas?

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    L’abitudine … l’abitudine … abitudine è adeguarsi agli occhi degli altri che disegnano arbitrariamente la nostra immagine adeguandola a ciò riescono a sopportare di noi. È adeguarsi ai loro desiderata, consci e inconsapevoli, e alla loro “definitiva percezione” che ci inquadra nel loro spazio visivo che ha come sfondo il cielo di carta pirandelliano che calma l’angoscia del movimento … o del vuoto.

    È per abitudine che viviamo il gioco delle parti, stando attenti a non uscire dal ruolo assegnatoci da piccoli e grandi burattinai che vivono al nostro fianco col preciso compito di fornirci di occhiali da vista unidimensionali e di tenere sempre in ordine il cielo di cartapesta di cui parla il personaggio di Paleari nel Fu mattia Pascal di Pirandello. Cielo di cartapesta che Truman Burbank riesce a raggiungere smascherandone la sostanza.(4)

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    Ed è per abitudine che preferiamo amare animaletti domestici, pensando di essere da loro – persino dal pesce nell’acquaio – umanamente riamati, piuttosto che i nostri simili che potrebbero scegliere di non amarci. Si preferisce “vivere” la vita dei personaggi letterari che scompaiono quando vogliamo, basta chiudere il libro, piuttosto che prendere completamente in mano la propria esistenza. e «così la coscienza ci rende tutti codardi, / e così il colore naturale della risolutezza/ è reso malsano dalla pallida cera del pensiero,/ e imprese di grande altezza e momento/ per questa ragione deviano dal loro corso/ e perdono il nome di azione. » continua a ripetere da quattrocento anni Amleto.

    È considerata “normale” l’abitudine di pensare che la letteratura sia una scappatoia salvifica, un rifugio dell’anima , un luogo ameno in cui rintanarsi per resistere alla realtà che incombe con le sue leggi che non lasciano scampo e che sono, per loro stessa natura, immodificabili,. Eroi ed eroine letterarie rimangono là sullo sfondo a ricordare che il ribelle paga per tutti perché chi non nasce morendo non può vivere in mezzo ai suoi simili rimanendo illeso nel corpo e nella mente.

    Comunque sia il mondo letterario è il luogo dove tutto è possibile. Male che vada al di là del ponte ci rimane quel luogo da cui si fugge quando si esce dalle pagine del romanzo per tornare alla terra arida dell’abitudine con le sue ragionevolissime norme.

    Al ritorno, quando si chiude il libro o si accedono le luci che illuminano ferocemente la cavea teatrale o cinematografica, solo qualche livido, che per un po’ permane nello sguardo, e piccoli lembi d’affetti rimasti incollati ai pensieri, “certificano” l’esistenza di quel mondo “irreale” intravisto. Si … qualcosa di indefinito rimane caparbiamente a ricordarne l’esistenza … poi il nemico nascosto, il nume dell’abitudine, risale dai sotterranei a ricordare che la vita è un sogno sognato da un dio e che anche noi siamo quel sogno … meri pensieri di ombre cinesi. : «Sei un barbaro, avevano ragione gli astri, ma ti avverto, sii calmo e umile perché forse stai sognando anche se ti sembra di essere sveglio»(5) . La minaccia del padre al figlio, che rivendica la propria identità umana, è lì ad avvertire che la realtà è solo un sogno mandato da un regista divino per mettere in scena il proprio teatro mundi e che i sogni sono solo materiale di scarto inorganico.

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    Così i personaggi dei romanzi che dovrebbero solo ricordarci dell’esistenza di un’altra riva al di là del ponte, divengono compagni di viaggio virtuali di una improbabile second life. Molti, troppi, preferiscono queste “innocue” fuoriuscite dal reale. Le preferiscono perché in fondo hanno creduto a ciò che letteratura occidentale ha sempre raccontato: sin dai canti dell’Odissea l’epica ci ha ammoniti sui pericoli di una possibile condanna all’ esilio nelle terre di mezzo dove, devastati dai sensi di colpa per aver troppo osato, si porta a termine in solitudine la propria esistenza.

    E per paura dell’esilio si preferisce esiliare la propria identità umana rimanendo vigliaccamente a girovagare nella rivoltante fiera delle banalità posticipando all’infinito l’ora del disprezzo, che escluderebbe il ribelle dalle sfere sociali a cui ha da sempre appartenuto per identificazione coatta, rinnovando l’abitudine al “disturbo bipolare”: pensare A, dire B; o tripolare pensare A, dire B, scrivere C; o quadripolare: pensare A, dire B, scrivere C a Tizio e D a Caio; e così via. Le vie abitudinarie dell’ipocrisia sono infinite…

    L’abitudine … l’abitudine appanna le sensazioni, le veste di grigio, rendendo impercettibili i colori del movimento interno alla realtà in divenire … e inudibile il suono che da senso al linguaggio verbale.

    … spengo la luce del comodino, il chiarore indica gli albori del giorno e allunga le ombre delle dita che scrivono sul foglio macchiato di parole.

    Dal mio diario : era il 20 maggio di qualche anno fa … e nessuno si senta offeso

    Gian Carlo Zanon

    postato il 15 maggio 2015

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    Note

    (1)Luigi Pirandello – Fu Mattia Pascal, capitolo XII

    (2)“dunque il maggior delitto per un essere umano è essere nato” Calderon De la Barca – La vida es sueño . Versi  102-112

    (3)Albert Camus – L’estate – Il mare da più vicino

    (4)Truman Burbank è il protagonista del film di Peter Weier The Truman Show.

    (5)Calderon De la Barca – La vida es sueño (1630) Versi  1520-1521

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