• Una stagione all’inferno … Arthur Rimbaud (4)

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    Deliri II

    Alchimia del verbo

    A me. La storia di una delle mie follie.
    Da molto tempo mi vantavo di possedere tutti i paesaggi possibili, e trovavo risibili le celebrità della pittura e della poesia moderna.
    Amavo le pitture idiote, sovrapporte, addobbi, tele di saltimbanchi, insegne, miniature popolari; la letteratura fuori moda, latino di chiesa, libri erotici senza ortografia, romanzi delle bisnonne, racconti di fate, libretti per l’infanzia, vecchie opere, ritornelli insulsi, ritmi ingenui.
    Sognavo crociate, spedizioni di cui non esistono relazioni, repubbliche senza storie, guerre di religione represse, rivoluzioni del costume, migrazioni di razze e di continenti: credevo a tutti gli incantesimi. Inventai il colore delle vocali! – A nera, E bianca, I rossa, O blu, U verde. – Regolai la forma e il movimento di ogni consonante, e, con ritmi istintivi, mi lusingai di inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l’altro, a tutti i sensi. Riservavo la traduzione.
    All’inizio fu uno studio. Scrivevo silenzi, notti, notavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini.

     

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    Lontano dagli uccelli, da greggi e contadine,
    Che bevevo, in ginocchio dentro quella brughiera
    Circondata di teneri boschetti di nocciuoli,
    Nella foschia di un verde e tiepido meriggio?

     

    Che potevo mai bere in quella giovane Oise,
    – Olmi senza voci, erba senza fiori, cielo coperto! –
    Bere alle fiasche gialle, lontano dalla cara
    Casa? Qualche liquore d’oro, che fa sudare.

     

    Facevo insegna losca di locanda. Il cielo
    Venne spazzato via da un temporale. A sera,
    L’acqua dei boschi sulle vergini sabbie si perdeva,
    Il vento di Dio gettava ghiaccioli negli stagni;

     

    Piangendo, vedevo oro – e non potei bere.

     

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    Alle quattro del mattino, d’estate,
    Il sonno d’amore perdura.
    Sotto i boschetti svapora.
    L’odore della sera di festa.

     

    La in fondo, nel vasto cantiere
    Al sole delle Esperidi,
    Si dimenano digià – scamiciati –
    I Carpentieri

     

    Calmi, nei Deserti di muschio,
    Preparano i riquadri preziosi
    Su cui la città
    Dipingerà cieli falsi.

     

    Oh, per questi Operai così belli
    Sudditi d’un re Babilonese
    Venere! un po’ abbandona gli amanti
    Dall’anima fatta corona.

     

    Regina dei Pastori
    Da’ ai lavoratori l’acquavite,
    Che plachino le forze in attesa
    Del bagno in mare a mezzodì.

     

     

    Il vecchiume poetico interveniva molto nella mia alchimia del verbo.
    Mi abituai all’allucinazione semplice: vedevo indubitabilmente una moschea al posto di un’officina, una scuola di tamburi tenuta da angeli, calessi per le vie del cielo, in fondo al lago un salotto; i mostri, i misteri; un titolo di operetta drizzava terrori davanti a me.
    Più tardi spiegai i miei sofismi magici con l’allucinazione delle parole!
    Finii col trovare sacro il disordine del mio spirito. Ero ozioso, in preda a una febbre greve: invidiavo la felicità delle bestie, – i bruchi, che rappresentano l’innocenza del limbo, le talpe, il sonno della verginità!
    Il mio carattere s’inaspriva. Dicevo addio al mondo con delle specie di romanze:

    CANZONE DELLA PIU’ ALTA TORRE

     

    Venga, ben venga il tempo
    Di cui ci s’invaghisca.

     

    Ho avuto tanta pazienza
    Che sempre mi dimentico.
    Timori e sofferenze
    In cielo son svaniti,
    E la sete malsana
    Oscura le mie vene.

     

    Venga, ben venga il tempo
    Di cui ci s’invaghisca.

     

    Così la prateria
    Tutta in preda all’oblio,
    Più vasta, e fiorita
    D’incenso e di loglio,
    Al selvaggio ronzio
    Delle sudicie mosche.

     

    Venga, ben venga il tempo
    Il tempo di cui ci s’invaghisca.

     

    Amai il deserto, i frutteti bruciati, le botteghe avvizzite, le bevande riscaldate. Mi strascicavo per vicoli puzzolenti e, chiusi gli occhi, mi offrivo al sole, dio di fuoco.

     

    “Generale, se resta un vecchio cannone sui tuoi bastioni in rovina, bombardaci con blocchi di terra riarsa. Sugli specchi dei negozi splendenti! nei salotti! Fa’ che la città mangi la propria polvere. Ossida le grondaie. Riempi i boudoirs di polvere di rubino rovente…”
    Oh! il moscerino inebriato al pisciatoio della locanda, innamorato della borragine, e che un raggio dissolve!

     

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