L’autrice racconta della cecità anaffettiva che incontriamo ogni giorno nei rapporti umani disumanizzanti
–
Loretta Emiri
Il peggior peccato contro i nostri simili
non è l’odio, ma l’indifferenza:
questa è l’essenza dell’inumanità.
George Bernard Shaw
.
Se contiene veleno, che differenza passa nel definire il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno? L’utilizzo di termini “positivi” è forse sufficiente per trasformare condizioni di degrado, disagio o morte? Parole nuove per far apparire situazioni meno incresciose, camuffare scelte oltraggiose, tranquillizzare coscienze. Le puttane di ricchi e primi ministri sono elevate a escort. Caritativamente ribattezzati extracomunitari, gli immigrati sono bersagliati da leggi e provvedimenti sempre più xenofobi. Sbraitano se viene staccata una spina che fa sembrare in vita un corpo umano, ma non spendono una parola per chi muore di fame. Mentre pensano al petrolio come bottino, dicono di voler abbattere il dittatore e mietono vittime fra la popolazione. Ipocrisia è un termine trasparente: come fosse un evidenziatore, si può stendere su parole e frasi ambigue, su inganni e raggiri.
Mignottone definite attrici. Onnipresenti checche scurrili. Scimmie urlatrici che fanno le presentatrici. Esseri sgarbati e saccenti adulati come ineguagliabili esperti. Pensatori che hanno lardo al posto del cervello. Insieme a tuttologi di professione, sono ospiti fissi di programmi fessi. Annegare nello stagno delle banalità che fuoriescono dalle loro bocche, non è la cosa peggiore; è che questi esemplari di fauna umana sono usati come modelli per educare alla tracotanza, allo scandalo, all’insulto, al litigio, alla prepotenza. Un gran numero di politici fa parte della combriccola dei salottieri televisivi. Parlano, anzi gridano, allo stesso tempo dell’avversario, esimendosi così dall’ascoltarne le ragioni. Affliggono gli elettori con dichiarazioni più squallide delle loro stesse esibizioni canore. Più viscidi con gli alleati che con gli oppositori, con baffetti insolenti o maquillage verbale non riescono a dissimulare quanto a Giuda somiglino. Apparire è un termine coprente: come fosse un correttore, si può stendere su pensieri e sentimenti per cancellare ogni sfumatura dell’essere.
L’eccessiva comunicazione diviene non-comunicazione. Parole futili, leggere, inutili trascorrendo ore al cellulare, magari disturbando chi gradirebbe leggere. Argomenti intimi o delicati trattati in pubblico, senza pudore né discrezione, anche costringendo all’ascolto chi non vorrebbe. Bocche che si aprono come dighe che crollano, e inarrestabili parole travolgono chi ha la sventura di trovarsi sul loro percorso. Ma sei hai bisogno di confrontarti affinché l’altro ti aiuti a capire e ridimensionare la situazione, allora ti ficcano in bocca un tampone, ti dicono “non puoi lamentarti”, e ti piantano lì a soffocare. Come se tu, alla stregua di tutti, non avessi bisogno di percepire, terapeuticamente, che qualcuno ti ascolta.
Coltivi legami come fossero fiori delicati, ma non basta. Se ti viene in mente di andare a trovare qualcuno, devi prendere appuntamento. Se ti invitano a cena, i tuoi ospiti non spegneranno la televisione così, mentre cerchi di comunicare, loro la guardano e non ti si cagano.
C’è addirittura chi fa le sue proposte sempre a bruciapelo, meschinamente consapevole di non darti tempo di organizzarti per accettarle, stupidamente convinto di farti credere che a te ci tiene. Con SMS, e-mail, lettere, telefonate provi a condividere notizie per te importanti, ma ai destinatari non può fregar di meno dei tuoi tentativi di comunione e dialogo, delle sottese, seppur discrete, richieste d’aiuto. Neppure l’invito esplicito, orale o scritto che sia, convincerà nuovi conoscenti a venirti a trovare.
Quanto agli amici del giaguaro del passato, se non sei più in grado di fare ciò per cui ti cercavano mai più ti visiteranno, nemmeno per vedere se ancora campi o sei schiattato. Nessuno ha tempo.
Tutti corrono. Ognuno ha tanto da fare. Fare quello che tutti fanno.
Fare di tutto, purché non resti tempo per pensare a sé stesso o all’altro. Indifferenza è un termine corrosivo: come fosse un acido, lo si getta addosso a parole sensibili per sfregiarle e provocare sofferenze atroci a coloro che di quelle parole ancora fan uso. Come mettersi in salvo? Fissando la nostalgia su un foglio bianco da affidare al vento che viene dal mare, perché lo trasporti sull’altra sponda della stessa vita.
Cosa scriverci sopra? Con quali argomenti ripulire un quotidiano imbrattato d’indifferenza e ipocrisia?
Lavoravamo nel Dipartimento di Cultura del Segretariato dell’Educazione, nello stato brasiliano di Roraima. Lei poteva dirsi antropologa perché aveva formazione accademica. A me l’esperienza dava il diritto di auto-definirmi indigenista. Mi ero ammalata, forse di paura, o solitudine, o stanchezza, non ricordo bene. Si presentò a casa mia con una ciotola di minestra ancora calda, definendola sopa da caridade e asserendo che mi avrebbe fatto guarire. Il giorno seguente, infatti, stavo così bene che accettai l’invito ad unirmi a lei e ai suoi amici per trascorrere il fine settimana a Santa Elena, cittadina venezuelana di frontiera. Del viaggio non ho altri ricordi visivi se non quello che mi vede ballare con il più anziano del gruppo, con cui feci coppia fissa e che, solo molto tempo dopo, avrei scoperto essere omosessuale. Discreto, intelligente, spiritoso. Pungenti le sue osservazioni, quanto generose le azioni che compiva. La sua si era trasformata in casa di appoggio per nordestinos che arrivavano a frotte in cerca di lavoro e migliori condizioni di vita.
I partecipanti di quel viaggio a Santa Elena sarebbero divenuti miei grandissimi amici. Ognuno di noi si prendeva cura degli altri, sapendo ascoltarli fino a che non avessero detto tutto ciò di cui avevano bisogno per riequilibrarsi. Se qualcuno tardava a farsi vivo, ci si preoccupava, ma era il piacere di stare insieme a muovere i nostri passi alla sua ricerca. Sempre gradite le visite fatte o ricevute, più allegre quando impreviste. Nelle nostre case organizzavamo riunioni di quel partito che alcuni anni dopo avrebbe portato un operaio alla Presidenza della Repubblica Federativa del Brasile. Eravamo squattrinati, ma il non possedere un televisore era una scelta. Un intellettuale e poeta giunto dal Rio Grande do Sul sosteneva che la programmazione brasiliana fosse di gran lunga migliore dell’italiana. Di quest’ultima, cosa direbbe oggigiorno? Me lo chiedo spesso.
.
.
Qualche mese fa, nel servizio di un telegiornale italiano si ridicolizzava il presidente brasiliano perché gli era capitato di commuoversi durante manifestazioni pubbliche. Delle ciclopiche trasformazioni avvenute in ambito sociale ed economico durante i due mandati di Lula, in Italia non si parla, naturalmente, ma ci si permette di portare in giro un individuo ancora capace di provare ed esternare sentimenti umani.
Come se il ridicolo non risiedesse invece in altri ambiti, magari in una dentatura da cavallo esibita, ghignando, per far credere che tutto va bene; oppure in una strana crosta incollata sul cranio, come se un’apparenza rispondente a canoni stereotipati potesse dissimulare vuoti, bruttezze, nefandezze interiori. Saudade è una resina incolore: si applica al grezzo quotidiano per far risaltare venature.
Glossario
Nordestinos: individui procedenti dal Nordest.
Saudade: ricordo nostalgico e, allo stesso tempo, soave, di persone o cose distanti o estinte, accompagnato dal desiderio di tornare a vederle o possederle.
Sopa da caridade: minestra della carità.
(Pubblicato in Sagarana – La Lavagna del Sabato, 19-05-12, è uno dei capitoli del libro inedito A passo di tartaruga)
http://www.sagarana.net/anteprimal.php?quale=110
Nel primo articolo pubblicato potete trovare altre informazioni, su Loretta Emiri
–
Nunzio Scotto Di Covella
18 Aprile 2014 @ 11:02
…anarchico magari, ma anaffettivo mai!