• Loretta Emiri – Il suono dell’inquietudine

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    In questo nostro giornale ci siamo occupati poco di ciò che in genere viene chiamato “problema ecologico”. Anche di vicende etnologiche, in senso stretto, non abbiamo parlato molto se non di sfuggita. Eppure questi due temi, ecologia e etnologia, sono quasi sempre sovrapponibili.

    Forse corrotti da un visione troppo accentrata sulle culture che dominano il pianeta, abbiamo solo sfiorato le traversie, spesso tragiche, di piccole minoranze etniche assolutamente indifese sia di fronte alla nostra cultura dominante – sempre prevaricante nei confronti di chi non coincide perfettamente con il modello di “uomo occidentale” – ,  sia di fronte alle “ragioni” utilitaristiche del più forte e violento.

    Ragione e religione, legittimate dalla filosofia e dalla teologia, hanno creato un modello di “essere umano” fuori dal quale non si viene considerati come veri esseri umani. Voler indurre la religione cristiana e il proprio concetto di civiltà nella mente dei “pagani” è un atto di estrema violenza. Pur se il paradigma entro il quale collocare la “vera razza umana” negli ultimi decenni è formalmente mutato, in realtà la percezione, spesso delirante, dell’altro da sé, giunge a negare, più o meno coscientemente, l’uguaglianza tra tutti gli esseri nati da donna. Uguaglianza avuta in dono dalla nostra nascita che è identica a quella di ogni essere umano.

    Oggi come migliaia di anni fa il diverso da sé, a secondo del tornaconto del dominante, o al dominato viene annichilita la propria identità umana, oppure gli viene tolta la vita come fosse un animale molesto. Questo è lo scenario sociale in cui viviamo e che si riproduce in varie forme in tutti le latitudini.

    Questa mia introduzione – che vuole essere una denuncia ad un macrocosmo sociale corrotto in cui l’anaffettività di chi compie veri e propri crimini contro l’altro da sé, è condivisa nascostamente da una quantità enorme di borderline psicotici –  doveva servire solo ad introdurre la narrazione di microcosmi sociali in cui il diverso da sé è visto e vissuto affettivamente come un assolutamente uguale.

    Quindi vengo a presentarvi la protagonista di questo articolo, a cui ne seguiranno altri, che comprende quattro pagine del suo libro, Amazzonia portatile pubblicato in Italia da Manni Editori.

    Loretta Emiri, dal 2005 membro del CISAI – Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena, dell’Università degli Studi di Siena, ha vissuto per anni con gli indios Yanomami delle regioni del Catrimâni, Ajarani e Demini.

    Dai suoi scritti sparsi in libri, pubblicazioni, siti web, ecc. emerge l’immagine di una donna che per anni ha lottato per la salvaguardia dell’identità umana e culturale degli indios. I suoi racconti narrano poeticamente del suo vivere senza corazze culturali in mezzo a queste comunità autosufficienti minacciate da colonizzatori senza scrupoli.

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    Queste quattro pagine che vi propongo sono la cornice di realtà entro la quale Loretta Emiri dipinge la storia del proprio svezzamento dal passato. Separazione che presuppone un’identità umana capace di affrancarsi da tutto ciò che impedisce di realizzare la propria storia di cui l’autrice, molti anni fa, ha avvertito suoni tanto indefiniti e impercettibili quanto “reali”. Suoni “sentiti” più che uditi mentre se ne stava «quieta in stanze chiuse di case, scuole e uffici».

    Suoni “sentiti” che non si possono né udire né vedere, come crede Chatwin, neppure con i più raffinati strumenti neurologici.

    Gian Carlo Zanon

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    PARTIRE PER PARTORIRE *

    Loretta Emiri **

    Sul numero 31 della rivista Storie, ai redattori della quale avevo spedito racconti da recensire, leggevo: “Dopo diciotto anni trascorsi nel Brasile amazzonico, condividendo lo stile di vita e la cultura degli indigeni Yanomami, la Emiri torna in Italia dove inizia a scrivere con autentica passione. I tre racconti (“Xurukurayu”, “Scatola nera” e “Volevo diventare quella che sono”) partecipano a una brillante lettura saggistica: ai riferimenti etno-antropologici si mescolano emozioni e autobiografismo. Raccontare e interpretare, questo l’intento. Scavando, senza lasciarsi abbagliare dalle prime impressioni. Sarebbero piaciuti a Bruce Chatwin”.

    Il problema era posto. Dovevo scoprire chi fosse Bruce Chatwin e perché il suo nome era stato associato ai miei scritti. Una enciclopedia della letteratura mi introduceva alla sua vita e opere. Fra i titoli citati, mi affascinava Anatomia dell’irrequietezza: pubblicato postumo, pensavo fosse uno dei suoi ultimi lavori, e quindi in grado di rivelarmi la maturità raggiunta dall’uomo e dallo scrittore; inoltre, la parola irrequietezza di per sé denunciava che qualcosa in comune io e Chatwin l’avessimo proprio. Una volta acquistato, il libro risultò essere l’insieme di materiali diversi pubblicati nel corso di una ventina di anni, raggruppati secondo un criterio tematico; quando ne iniziai la lettura avevo già scritto diciassette dei racconti inseriti in questo libro e mi infastidiva l’idea che qualcuno potesse dire che Chatwin ha influenzato il mio lavoro.

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    Ho letto Anatomia dell’irrequietezza tutto d’un fiato e tirato un sospiro di sollievo di fronte all’apparenza che non avevamo niente in comune: l’irrequietezza di Chatwin derivava dalla necessità di viaggiare; la mia pensavo si manifestasse quando non scrivevo. Le pulci penetranti si insinuano sotto la pelle dei piedi degli Yanomami, scavano gallerie, depositano uova, queste si sviluppano e provocano dolore lancinante. Le parole di Chatwin si sono insinuate nella mia testa, hanno scavato gallerie, vi hanno depositato dubbi, questi sono cresciuti fino a pulsare e far male: ho dovuto riprendere in mano il suo libro, rileggerlo con calma, arrendermi di fronte all’evidenza che molte sono le cose che abbiamo in comune, delle quali non parlerò per non togliere agli interessati il gusto di scoprirle.

    Diversivo. Distrazione. Fantasia. Cambiamento di moda, di cibo, amore e paesaggio. Ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo. Senza cambiamento, corpo e cervello marciscono. L’uomo che se ne sta quieto in una stanza chiusa rischia di impazzire, di essere tormentato da allucinazioni e introspezione. Neurologi americani hanno fatto l’encefalografia a non pochi viaggiatori. È risultato che cambiare ambiente e avvertire il passaggio delle stagioni nel corso dell’anno stimola i ritmi cerebrali e contribuisce a un senso di benessere, di iniziativa e di motivazione vitale. Monotonia di situazioni e tediosa regolarità di impegni tessono una trama che produce fatica, disturbi nervosi, apatia, disgusto di sé e reazioni violente”. ¹

    Ho riletto la mia vita alla luce delle parole di Chatwin. Ho trascorso gli anni verdi standomene quieta in stanze chiuse di case, scuole e uffici, fino a percepire che ero a un passo dalla pazzia. Avevo trent’anni quando riuscivo a cambiare direzione, annunciando: “Vado in Amazzonia”. Nel tardo pomeriggio del primo giorno vissuto fra gli indios, alcune donne mi fecero dire che una di loro stava per partorire e che ero invitata ad assistere. Entrai in panico. La cultura occidentale aveva fatto sì che al parto associassi l’idea del dolore, delle grida, di stanze chiuse d’ospedale, di lenzuoli  sporchi di sangue, di mani estranee che con forbici, ago e filo seviziano vagine. Attribuii un valore simbolico al fatto che un bimbo venisse alla luce proprio il giorno in cui io arrivavo fra gli Yanomami: una nuova vita, vita nuova per me, dovevo assistere al parto, comportarmi da donna.

    Non lontano dalla grande casa comunitaria, ma al riparo dagli sguardi degli uomini, la partoriente  se ne stava accovacciata in mezzo a un circolo formato da donne che davano suggerimenti e bambini che vociavano allegri. Quando la vagina si schiuse, il nero dei capelli del bimbo contrastò plasticamente con il colore della carne. Quando la testolina apparve tutta, madre terra calamitò il piccolo mostrandosi impaziente di accoglierlo. Con esclamazioni, risate, grida gioiose, i presenti lo salutarono in coro.

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    Mi sentivo spossata: avevo dovuto intraprendere un lunghissimo viaggio attraverso spazi, tempi e culture per  scoprire che la cosa più naturale che possa accadere a una donna è partorire. La placenta venne interrata e con essa seppellii la truce immagine del parto che mi ero portata dietro. Mi recai al fiume per rinfrescare la mente. La luce del tramonto tingeva di rosso l’acqua che scorreva quieta.

    Caratterizzati da viaggi ciclici come mestruazioni, ebbero inizio gli anni della fecondità. A piedi, in barca, in bicicletta, in motorino, in auto, in camion, in pullman, in treno, in nave, in aereo, attraversai foreste, fiumi, praterie, il Brasile, un oceano, due mondi, tre culture.  Diversità di situazioni e molteplicità di impegni tinsero di rosso quegli anni che scorsero impetuosi.

    In sostituzione di quelli geografici, preclusimi dalla nuova situazione esistenziale, per mezzo della scrittura oggi realizzo viaggi mentali. Insieme a Chatwin ho percorso il presente: non senza stupore, ho dovuto concludere che l’irrequietezza che lo caratterizza non si manifesta quando non scrivo, che altre ne sono le cause. Me ne sto inquieta in un paese chiuso. Diversivo e distrazione non sono elementi che fanno parte dell’aria che respiro. Monotonia di situazioni e tediosa regolarità di impegni mi affaticano. Le mie stesse reazioni violente mi causano lesioni, che l’apatia acuisce. Non sempre distinguo la differenza che passa fra allucinazione e introspezione.

    Non mi infastidisce più l’idea che qualcuno possa dire che Chatwin ha influenzato il mio lavoro. Ormai so che  un’irrequietezza congenita ha indotto entrambi a inseguire il cambiamento,  imprescindibile elemento del creare. La stesura di un solo racconto mi separa dalla conclusione di questo libro. Nei momenti di riposo, dipingo. Pur nelle varianti possibili, utilizzo solo il giallo, unico colore in grado di contrastare plasticamente con i toni bui degli anni senili.

    ¹ Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza, Adelphi Edizioni, Milano, 1998, p.121. 

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    * Il brano “Partire per partorire” è uno dei capitoli del libro Amazzonia portatile, Loretta Emiri, Manni Editore, Lecce, 2003.

    ** NOTIZIE BIO-BIBLIOGRAFICHE

     

    Nata in Umbria nel 1947, nel 1977 Loretta Emiri si è stabilita in Roraima (Brasile), dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami delle regioni del Catrimâni, Ajarani e Demini. Fra loro ha svolto lavori di assistenza sanitaria e un progetto chiamato Piano di Coscientizzazione, del quale l’alfabetizzazione di adulti nella lingua materna faceva parte. L’obiettivo era di fornire alle comunità attinte nuove conoscenze che le mettessero in condizione di analizzare criticamente il mondo dei bianchi e quindi di difendersi nello scontro con esso. Frutto della ricerca linguistica e dell’esperienza svolte, in quell’epoca ha prodotto saggi e lavori didattici, fra i quali: Gramática pedagógica da língua yãnomamè (Grammatica pedagogica della lingua yãnomamè), Cartilha  yãnomamè (Abbecedario yãnomamè), Leituras yãnomamè (Letture yãnomamè), Dicionário Yãnomamè-Português (Dizionario Yãnomamè-Portoghese).

    Nel 1989 è stato pubblicato A conquista da escrita Encontros de educação indígena (La conquista della scrittura – Incontri di educazione indigena), che Loretta ha organizzato e che include il capitolo Yanomami di cui è autrice. Questo libro documenta minuziosamente le prime esperienze di alfabetizzazione realizzate nell’arco di dieci anni con quindici popoli indigeni nel Brasile, e la riflessione seria e sofferta sviluppatasi a partire da queste esperienze.

    La sua produzione non si limita a saggi e lavori didattici. Ha pubblicato: le raccolte poetiche Mulher entre três culturas (Donna fra tre culture) e Parole italiane per immagini amazzoniche; il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver (traducibile come “Yanomami per essere  visto dal brasiliano”); il volume di racconti Amazzonia portatile, il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice degli inediti Amazzone in tempo reale e A passo di tartaruga. Del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice.

                Dal febbraio del 2005 Loretta è membro del CISAI – Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena, dell’Università degli Studi di Siena.

    Leggi qui gli altri articoli

    Questi sono alcuni dei siti web in cui sono presenti gli scritti inediti di Loretta Emiri

    www.emiriloretta.it.webloc

     

    lorettaemiri.blogspot.it.webloc

     

    lorettaemiriparaosamigos#2C36F7

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