• Sionismo ovvero l’utopia distopica.

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    di Giulia De Baudi

    «Fin dai tempi di Herzl (fondatore e ideologo del sionismo – N.d.R.) la visione dei sionisti si era fondata su una combinazione di lungimiranza e di miopia. Lungimiranza, per la capacità di prevedere l’apocalisse degli ebrei in Europa. Miopia, per l’incapacità di prevedere la resistenza degli arabi contro il progetto territoriale sionistico.»

    Sergio Luzzato

    Su consiglio di un’amica ho letto il libro di Sergio Luzzato I Bambini di Moshe – Gli orfani della Shoah e la nascita di Israele. Ritengo che il testo di Luzzato sia essenziale per conoscere a fondo sia la complessità dell’ideologia sionista, sia la complessità del suo sviluppo, sia la sua realizzazione a cui stiamo assistendo. La conoscenza della storia è la chiave per interpretare il presente. E questo vale anche per la storia del movimento sionista e per i sui sviluppi odierni.

    Il sionismo è un’ideologia politico/territoriale il cui fine è l’affermazione del diritto alla auto determinazione del popolo ebraico inteso come discendente dai discendenti di Abramo, attraverso suo figlio Isacco, e discendenti di Giacobbe nipote di Abramo. Inutile dire che la genealogia non è storica ma mitica.

    Il sionismo, senza far distinzione di nazionalità, si rivolse al popolo israelita della diaspora e il suo intento primario fu la sua riunificazione in Palestina, ritenuta Erétz Yisra’él, ovvero Terra di Israele, territorio di tutti gli ebrei. Terra di Israele intesa come “terra di colui – Giacobbe) che lottò con èlòhìm (dio) e vinse”. Giacobbe/ Yisra’él  è l’eroe culturale nonché l’eroe eponimo del popolo di Israele. Nel mito ebraico il èlòhìm, contro cui Giacobbe combatte e vince, lo benedice dandogli il nome di Israele. Quindi gli intenti del Sionismo furono quelli riunificare gli ebrei e di creare uno stato israelitico. La scelta della Palestina, intesa come Erétz Yisra’él- Stato di Israele, si lega alla promessa biblica di èlòhìm (dio) che, secondo il miti ebraici descritti nella Bibbia, ha promesso quei territori al suo Popolo Eletto.

    All’inizio della propria storia lo Stato di Israele è come la “creatura” del dott. Frankenstein con un solo collante, la religione. Uno Stato  composto da individui di lingue diverse, proveniente da luoghi diversi, abituata a usanze diverse. Centinaia di migliaia di individualità tra loro dismogenee con un proprio vissuto sociale, con una propria lingua ma con un pensiero – scusate il riferimento a Frankenstein Junior“Ab-normal” in quanto il sionismo è una utopia distopica.

    La vulgata induce a pensare che le società dei kibbutz fossero socialiste, marxiste. Questo era vero ma solo se riferito al loro interno, e quindi, mancando la vocazione universalistica, sintetizzata da Marx con “Proletari di tutti i Paesi, unitevi!”,  non si possono definire tali. La solidarietà sociale tra gli abitanti di queste enclavi, vale solo all’interno di ciò che è il kibbutz e che sarà Israele. Questo perché quella “solidarietà” si esaurisce entro i confini dei territori acquistati fino al 1947 e conquistati nel 1948 con la guerra arabo-israeliana, e poi con la “Reconquista” dei coloni. E quindi quella solidarietà, che esclude i non ebrei, è funzionale solo al nazionalismo sionista. 

    Il primo insediamento ebraico  – in quella che in quel tempo era la Palestina Ottomana, e fino a quando nel 1917 diviene protettorato inglese – è creato da «Aharon David Gordon emigrato in Palestina all’inizio del secolo per praticare la comunità kibbutz una specie di tolstoiana religione del lavoro. (…) Gordonia (il movimento a lui ispirato n.d.R.) aveva ben poco di socialista, men che meno di marxista. Corrispondeva a un orientamento politico nazionalista, che interpretava la conquista del lavoro come conquista del suolo». Anche per i suoi successori del movimento Gordonia «il fondamento dello Stato ebraico a venire doveva essere non la lotta di classe ma l’occupazione della terra».

    Nel 1923 viene quindi fondato il movimento Gordonia che si ispira alla distopia di Gordon. Da quella data in poi nella Palestina amministrata e governata dagli Inglesi, iniziano nascere altri kibbutz gestiti da Israeliani. Pur facendo le dovute differenze tra un kibbutz e un altro l’ideologia egemonizzante è unica ed è quella sionista: occupare territori entro i quali potersi autodeterminare.

    Il kibbutz è la cellula di ciò che sarà lo stato di Israele, con un solo dio canonico, una sola “città/stato/famiglia” (il kibbutz).  Il kibbutz è idealmente gestito come un’enclave impermeabile a sollecitazioni culturali esterne, ed ha una sola lingua, l’israelitico, parlata da una sola stirpe di “sangue ebraico”. Negli anni seguenti i kibbutz sorgono a macchia di leopardo, sono collegati tra loro e con i movimenti sionistici sparsi in Europa – soprattutto con quegli insediamenti con un’elevata percentuale di popolazione ebraica dell’Europa orientale, chiamati shtetl.  Negli shtetl gli aderenti al sionismo hanno il compito deliberato di far fare ai loro “consanguinei” l’aliyah, ovvero la “salita” verso Erétz Yisra’él.

    Sin dai primi decenni del Novecento esistevano centinaia di cellule sioniste, sparse soprattutto nel Nord Europa, che formavano le giovani ebree e i giovani ebrei per poi inviarli  in Palestina. Coloro che volevano emigrare in Palestina dovevano “rinascere”: ciò voleva dire cambiare il loro nome e cognome; abbandonare la lingua della nazione in cui vivevano e l’yddish in favore dell’ebraico; essere di costituzione sana e robusta; saper fare un mestiere che potesse servire allo sviluppo dell’utopia sionista in Palestina. Queste qualità erano il salvacondotto per poter entrare in un kibbutz :«rinascere in Palestina comporta quasi per definizione il saper impugnare vanga e piccone  per redimere il sacro suolo». D’altronde il motto del sionismo era “costruire e essere costruiti”, ovvero annullare la loro storia precedente e farsi ammaestrare per poter costruire uno Stato ebraico. Anche ai sopravvissuti dai lager nazisti veniva chiesto esplicitamente di non parlare mai del loro vissuto in quei campi. Questo fa capire il motivo per cui per decenni i sopravvissuti hanno taciuto.  Solo nel 1961, con il processo a Adolf Eichmann, la storia dei sopravvissuti inizierà ad emergere.

    La rinascita in Palestina comportava anche una «(…) “rigenerazione” degli ebrei che passava, per il loro corpo ancor prima che per la loro mente, consegnandoli alla modernità quali uomini (e donne) palestrati più che celebrali, sportivi più che riflessivi.» Era questo il modello dell’individuo che doveva risacralizzare la Terra Promessa: «Dalla Palestina, i capi sionisti, insistevano sulla delicatezza del processo di selezione degli immigrati. Il “materiale” (come capitava loro di definirlo) andava scelto con cura. E, nell’impossibilità di accogliere tutti, occorreva far valere il “crudele criterio” del sionismo». Ovvero il criterio darwiniano secondo il quale sopravvive l’individuo o la specie più forte.

    Erano soprattutto i giovani a partire anche perché «nulla era più empio che l’anticipare la fine dell’Esilio rispetto al dettato biblico, il ritornare alla Terra Promessa  prima dell’avvento del Messia». Poi la religione se la sono aggiustata in modo funzionale ai loro desiderata.

    Secondo “l’utopia sionista”, in che modo formare il popolo d’Israele se non creando nei kibbutz un ambiente utopico conformandosi alle utopie già esistenti?I modelli erano quelli a cui si sono ispirati tutti i nazionalismi totalitari:  La repubblica di Platone, L’utopia di Thomas More, La Città del sole di Campanella, eccetera.. Gli israeliti non avevano, e non hanno ancora capito, che quelle utopie erano in realtà le distopie delle città stato totalitariste in cui vige la doppia etica weberiana: ciò che non è etico fare all’interno dei propri territori è etico farlo all’esterno.

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    E così fecero, per esempio separando i bambini dai genitori e affidandoli a educatori che dovevano ammaestrarli e farli diventare dei perfetti “balilla” addestrati  a difendere il loro territorio donato dal loro dio e la loro identità di appartenenza. Togliere i bambini dagli affetti familiari significa creare una società anaffettiva e quindi criminale, in cui l’identità umana viene cancellata e sostituita da una falsa identità di appartenenza. E questo non può che provocare sofferenze psichiche che lasceranno una traccia indelebile. Quando Yehudit, la moglie di Moshe, il protagonista del racconto, e la figlia Nitza giungono nel “kibbutz” Sciesopoli:«Yehudit soffre per Nitza. Per la figlia separata dai genitori, secondo le buone regole dell’educazione kibbutzistica.(…) A Sciesopoli, Nitza dorme lontano dalla mamma e dal papà. E visibilmente ne patisce. In generale Nitza patisce di essere trattata da Mosche – sempre alieno a qualunque forma di favoritismo – da bambina di Sciesopoli più che da figlia». E di questo dolore ne parlerà ancora sessant’anni dopo.

    Dagli anni Trenta in poi, ad aspettare i loro giovani correligionari c’erano i “sabra”, ovvero i giovani ebrei nati in Palestina. Nel 1933, un esponente del sionismo palestinese, e padre di alcuni di loro, scrive su una rivista del movimento kibbutzistico : «i nostri figli sono pragmatici; o, per dirlo più esattamente, sono prosaici. (…) mancano di tenerezza  e di umanità rispetto ai fenomeni elementari della vita quotidiana. (…)» E Sergio Luzzato aggiunge: «Nella loro prosaica concretezza  i figli credono di corrispondere alla lezione dei loro genitori, che avevano scelto di vivere in Palestina come uomini e donne del fare, meno pensiero e più azione in confronto agli antenati. Ma i genitori non hanno saputo trasmettere ai figli una qualità essenziale, che era propria dell’ebraismo diasporico; i sabra non conoscono la virtù della compassione. (…) Imminente era il giorno dell’eccesso di istinti patriottici: quello in cui la generazione dei figli, dismessa ogni tenerezza dei padri, avrebbe mancato di umanità» E i sabra sono padri e nonni della classe dirigenziale di Israele.

    Questi ragazzi disumanizzati, subito dopo il 1945, diverranno coloro che addossavano ai sopravvissuti ai campi di sterminio che giungevano in Palestina «quel nomignolo odioso, sabon. E, scrive Luzzato: «come accettare che gli ebrei nativi della Palestina chiamassero “saponette” gli ebrei d’Europa sfuggiti alla Shoah, sulla base della leggenda secondo cui i carnefici avevano fatto sapone delle loro vittime? Nulla esprimeva più chiaramente il disprezzo che certi sabra giovani e forti provavano per certi loro coetanei, smunti e famelici (….)»

    E, ripeto, i sabra sono padri e nonni della classe dirigenziale di Israele… e ciò è una risposta ai tanti perché sulla totale mancanza di umanità dell’attuale casta politica israeliana e sul grado di disumanità di chi la sostiene votandola.

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    Riepilogo

    Riepilogo

    Gli ebrei prima e durante la Shoah non avevano patria e quindi, come suggeriva l’ideologo del nazismo Heidegger, erano “esseri immondi”, “senza mondo”. Gli ebrei, secondo queste idee perverse, sostenute dalla crème dell’intellighenzia europea, non avevano lo stesso sangue dei “popoli ariani”. Ne va che chi non corrispondeva al “modello ariano”, non era da considerarsi pienamente umano e quindi essi erano stück, “pezzi” da usare come schiavi o far sparire nei forni crematori.

    A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento si sviluppa in Europa il movimento sionista che intende dare al popolo eletto ciò che gli manca per non essere “immondo” ovvero “senza terra”, senza una terra propria, senza una patria con cui identificarsi. Questa patria sarà Erétz Yisra’él, la Terra d’Israele.

    Un dio con cui identificarsi gli ebrei ce l’avevano da tempo. Gli ebrei, pensandolo, donano a Yahweh, il “èlòhìm” di Israele, il Signore del popolo ebraico, l’esistenza; Gli ebrei hanno un sangue etnico con cui identificarsi: Mancava solo una terra propria per essere identici al modello cristiano/occidentale. E alla fine la terra riusciranno ad averla… costi quel che costi.  Il libro di Sergio Luzzato narra egregiamente la trasformazione del popolo ebreo da una condizione di “immondità” a una condizione di nazionalismo totalitario incardinato sui pilastri dell’ideologia del dominio territoriale imperialista: dio, patria, famiglia.

    Dal 1948 in poi avranno le carte in regola per appartenere ai modelli occidentali: come divinità avranno Yahweh elòhe Sêbā’ôt, ovvero su “l’invincibile signore degli eserciti”; per patria avranno Erétz Yisra’él la Terra Promessa; per famiglia al posto di un padre una madre, avranno gli ammaestratori dei kibbutz e poi l’esercito; al posto di fratelli e sorelle maggiori con cui identificarsi avranno i sabra. Verebbe da dire che oggi sono molto aderenti al modello umano di coloro che avevano cercato di sterminarli, e quindi, se servirà, si comporteranno come loro.

    Tutti gli Stati sono strutture sociali generate dagli esseri umani e quindi costruite da individui nel corso del tempo: il problema della costruzione dello stato di Israele sta nei tempi ristretti e nei modi iper-razionalistici, “prosaici e senza tenerezza”, in cui questo Stato si è strutturato dal punto di vista umano. Per capire come potrebbe andare a finire forse è necessario leggere il romanzo di Mary Shelley

    17 febbraio 2024

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