Uno strano viaggio (La conga de Fidel)
All’alba, tutt’a un tratto, all’alba, l’espresso
entrò nella stazione, coperto di neve.
Stavo sul marciapiede, col bavero del cappotto rialzato,
e non c’era nessuno sul marciapiede, all’infuori di me.
Un finestrini del vagone letto mi si fermò davanti
Con le tendine scostate.
(…)
Dentro vi dorme una giovane donna, tra uccelli di cristallo
i suoi capelli son di fieno biondo, le sue ciglia azzurre,
le labbra rosse e piene lievemente imbronciate.
Da anni non s’era immersa in un sonno così profondo.
(…)
All’improvviso, senza rumore, l’espresso si mise in moto;
lo guardai che s’allontanava, le braccia penzoloni.
Praga era nella pioggia.
Vorrei riacchiappare il tempo:
la polvere dorata della sua corsa mi resta fra le dita.
Nel vagone letto, una donna dorme nella cuccetta più in basso;
da anni non s’era immersa in un sonno così profondo.
I suoi capelli son fieno biondo, le ciglia azzurre,
e le mani, le mani sembrano candele su candelieri d’argento.
Non potevo vedere chi dormisse nella cuccetta più in alto
se c’è qualcuno non sono io
può darsi che la cuccetta di su sia vuota.
Che il viaggiatore sia rimasto a Mosca.
Vorrei riacchiappare il tempo:
la polvere dorata della sua corsa mi resta fra le dita.
–
La nebbia ha ricoperto la terra di Polonia
ha ricoperto anche Brest.
Sono due giorni che gli aeroplani non possono
né decollare né atterrare;
ma i treni vanno e vengono passano attraverso gli occhi
dalle pupille accecate.
Nel vagone ristorante ho bevuto un latte acido che si chiama kefir.
La cameriera mi ha riconosciuto
ha visto due mie commedie in un teatro di Mosca.
Alla stazione ero atteso da una giovane donna
aveva i capelli di fieno biondo, le ciglia azzurre
e il collo lungo e rotondo
e la vita sottile come quella di una formica.
La presi per mano e andammo.
Andammo sotto il sole facendo crepitare la neve
sotto i nostri passi.
Quell’anno, la primavera era venuta più presto;
in quei giorni, un messaggero era partito per Venere;
Mosca era felice, io ero felice, eravamo felici.
Ti ho persa a un tratto in piazza Majakovskij, all’improvviso ti ho persa,
eppure non era all’improvviso: avevo già perso il calore
della tua mano nella mia mano
poi ho perso il dolce peso della tua mano sulla mia palma
poi la tua mano.
La separazione era cominciata da tempo, da quando le nostre dita
s’eran toccate la prima volta, eppure
t’ho persa così, tutt’a un tratto.
Fermavo le macchine sul mare d’asfalto, guardavo dentro, non c’eri.
I viali sono bianchi di neve, si vedono tante tracce
ma non le tue.
Con gli stivali, con le scarpette leggere, con le calze, nudi
io riconosco subito l’impronta dei tuoi passi.
Ho domandato ai metropolitani
non l’avete vista?
Se ha tolto i guanti, come non notare le sue mani
le sue mani son come candele su candelieri d’argento.
(…)
La separazione era sul tavolo, tra la tazzina di caffè
e la mia limonata;
sei tu che ce l’hai messa.
(…)
La separazione era sul tavolo, nel pacco di sigarette;
il cameriere con gli occhiali l’ha messa lì ma sei tu che l’hai ordinata
(…)
La separazione era sul tavolo nel punto dove appoggi il gomito.
(…)
La separazione era cominciata da tempo, da quando le nostre dita
s’eran toccate la prima volta.
(…)
Eppure son io che tu ami e non lo sai
e in questo tuo non saperlo
era la separazione.
La separazione sfuggiva alla gravità, non aveva peso
non posso dire che fosse come un piuma, anche una piuma ha un peso
a separazione non aveva peso, era lì.
Il tempo avanza, rapido, il mezzo delle notti viene verso di noi.
Camminiamo nel buio delle muraglie medievali che toccan le stelle,
il tempo scorre rapido, a ritroso.
L’eco del risuonare de nostri passi c’insegue come una muta di cani
gialli e famelici che corrono davanti noi.
(…)
Nella sua bocca il mondo ha una sapore di mela matura
nelle sue mani è sodo come il seno di una fanciulla di quindici anni
nei suoi occhi le canzoni sono lunghe chilometri, e la morte una spanna:
non vede nulla di quanto gli cascherà sulla testa.
Non ci sono che io a sapere quel che gli accadrà
perché ho creduto a tutto ciò che crede
ho amato tutte le donne che amerà
ho scritto tutte le poesie che scriverà
ho dormito in tutte le prigioni in cui dormirà”
(…)
È una storia che parla dell’uomo della sua gioventù delle sue speranze
l’hanno già raccontata meglio di me la racconteranno meglio di me
amici e nemici non c’è più nessuno
che non l’abbia sentita:
Batista era lo schiavo del re dei serpenti
dei milionari della canna da zucchero, indigeni o yankee,
di quelli del caffè, del tabacco, indigeni o yankee,
di un’armata di cinquantamila soldati coi carri armati
e gli aeroplani e le caserme
che uccidevano i valorosi
battendoli a morte
dopo averli castrati e accecati
delle porte dei commissariati
davanti imputridivano
i cadaveri rovesciati sul dorso
dei clamori che laceravano
le mura dei commissariati
dibattendosi come uccelli feriti
nelle notti calde
dei preti franchisti delle bische dei grossisti di eroina
dei gangster indigeni o yankee delle puttane
quindicimila all’Avana soltanto
di quello che marcisce ributtato sulla riva del mare,
Batista, il generale dei fetori di cadavere
mescolati all’odore pesante dolciastro dei fiori,
nel suo popolo di sei milioni
quattro milioni di affamati
un milione di tubercolosi
Batista era lo schiavo dell’ambasciatore
degli Stati Uniti a Cuba
in dieci anni s’era assicurato
un miliardo di dollari
era lo schiavo del dollaro
degli Stati Uniti d’America
delle forze armate degli Stati Uniti d’America.
Nell’ottobre 1956
ottantadue persone, compreso Fidel,
scesero in acqua dalla nave Gromont
avanzatasi fin sotto la costa
scesero tenendo le armi sopra la testa
immersi in acqua fino alla cintola
uscirono sulla riva sotto il fuoco delle mitragliatrici
aperto in un istante
evitando la luce dei proiettori che frugavano fiutavano il buio
come cani poliziotti
schiacciando sotto i passi le grosse rane e le grida
di “siete circondati! arrendetevi!”
per tuffarsi negli stagni tra le canne da zucchero
per arrampicarsi sulle colline
tra i palmizi e le noci di cocco;
si ritrovarono sui monti della Sierra
in dodici vivi, compreso Fidel,
degli ottantadue
–
nel novembre 1956 eran dodici, compreso Fidel,
nel dicembre 1956 erano centocinquanta, compreso Fidel,
nel febbraio 1957 erano cinquecento, compreso Fidel,
poi furono mille, compreso Fidel, cinquemila, compreso Fidel,
furono un milione, cento milioni, l’umanità intera,
e nel gennaio 1959
sbaragliarono Batista
e l’armata dei cinquantamila
e i milionari dello zucchero indigeni e yankee
e i milionari del caffè del tabacco indigeni e yankee
e le caserme e i commissariati dove marcivano i cadaveri
e i grossisti di eroina e le bische
e l’ambasciatore degli Stati Uniti d’America
e le forze armate di terra di mare d’aria
degli Stati Uniti d’America
e il fetore dei cadaveri
mescolato all’odore pesante dei fiori
si disperse
si disperse la paura
degli Stati Uniti d’America.
—
L’hostess ci disse “ci avviciniamo all’Avana”,
“le palme, le palme!” gridò qualcuno, pareva che dicesse “mamma!”
i ballerini del balletto cubano, come grosse farfalle,
si agitarono contro i vetri degli oblò.
Dopo un volo di diciotto ore
scendiamo per posarci non sulla terra
non sul cemento ma dentro la luce.
Li ho visti nella luce, intrecciati alla luce:
erano tre, una donna, due uomini
uno era barbuto
eran giovani, non sono riuscito a distinguere
quale fosse bianco, quale nero, quale mulatto
il barbuto era nero, bianco o mulatto? non potevo distinguere
non ho potuto distinguere se la donna era bianca nera o mulatta
i loro occhi si somigliano tanto e tutto ciò che hanno
è tanto nei loro occhi
che non si riesce a distinguere il colore della pelle,
d’altronde sotto questo sole che dissolve disperde impasta crea
i sangui e le epidermidi
si confondono come danze e canzoni,
tutti e tre hanno camicie di un azzurro slavato
pantaloni cachi
alla cintola pistole dal manico cesellato, e in mano
i fucili mitragliatori;
uno aveva messo il berretto piegato sotto la spallina
era il bianco o il nero o il mulatto? non potevo distinguere.
Poi li ho incontrati ancora ogni ora del giorno e della notte
nei luoghi più inverosimili
qualche volta riempivano gli autocarri qualche volta erano soli
una volta montavano la guardia
davanti al palazzo dell’associazione scrittori
due ragazze di quattordici anni
come le ragazze della nostra Anatolia le ragazze di Cuba
crescono rapidamente
i fucili mitragliatori son pronti
il berretto verde si abbassa un po’ sul sopracciglio nero;
un’altra volta era un gigante nero dai capelli bianchi ricciuti
s’appoggiava a tutta la porta della banca
la mitragliatrice stava in terra tra le sue gambe;
un’altra volta ha letto le mie poesie alla televisione
senza togliere la pistola dalla cintura
era la più grande attrice di Cuba.
–
–
È con una cadillac bianca che siamo entrati all’Avana
salivo per la prima volta su una macchina simile
non è una macchina ma un oceano
il suo milionario è fuggito a Miami;
mi ha ricordato il trono dello zar;
a diciannove anni, al Cremlino, mi ci ero seduto
per farmi fotografare;
era coperto con una federa.
Il colore mi si appiccica al dorso come una maglia
inzuppata di sudore
dal 24° piano dell’albergo guardo la città di notte.
Quello che vedo è un fondo marino dove si riflette il sole
lo splendore dei pesci gialli azzurri arancioni verdi scintilla
e dei frutti di mare giganti dalla madreperla bianca
e delle rocce dai fiori rossi mezzi piante mezzi animali
con lunghi peli.
Dal 24° piano dell’albergo ascolto la città di notte
annega nelle canzoni
canzoni nella terra, la pietra, la foglia
canzoni nella terra la pietra la foglia come il calore vibrante
canzoni nell’aria come ad esempio l’azoto
canzoni, polpa di frutti buccia nocciolo di frutti
canzoni, odore di fiori
canzoni, la Spagna, l’Arabia, l’Africa
canzoni negli occhi delle donne sui loro fianchi
canzoni, la mani calde degli uomini
canzoni, i piedi, la vita, le spalle, le danze.
Scendo in ascensore nel vestibolo
nell’ascensore giovani contadine della provincia orientale
dei villaggi di Bayamo
son venute in città per imparare il cucito
nell’albergo Havana Libre stanno in appartamenti
pieni d’ombre dei milionari
prima l’albergo si chiamava Hilton,
ventiquattro milioni di dollari;
nell’ascensore ragazze della provincia di Bursa
dei villaggi dell’Anatolia
che ci fate ragazze, come mai vi hanno lasciato entrare
nell’albergo Hilton?
mi dicono che Hilton non è più Hilton, da tempo si chiama
Istanbul Libera
e loro ridono mettendo la mano davanti alla bocca:
anche gli aghà son fuggiti con gli americani.
E la terra?
La terra ce la siamo divisa.
(…)
Ci sono dei delegati nel vestibolo
quelli arrivati ieri all’ Avana
argentini cileni ecuadoriani
brasiliani malgasci indù
finlandesi cecoslovacchi italiani
il francese Jean-Pierre parla col delegato della Martinica
eppure so che Jean-Pierre è morto davanti a Madrid
schiacciato dai carri armati Hitleriani;
ma è là di fronte a me, Jean-Pierre, col suo viso giovane
liscio come una mela
e rosso;
sarà per via del freddo:
in quest’anno 1922 a Mosca ventisette sotto zero
in quest’anno 1961 all’Avana trentacinque all’ombra.
–
Vado a zonzo per le vie dell’Avana
confondo gli uni con gli altri gli alberi sull’asfalto
non c’è modo di distinguere le macchine dalla strada asfaltata
la pioggia dal sole
le nuvole bianche dalle piscine celesti
confondo i frutti e le donne
i bambini che vanno a scuola e la libertà.
In questa città, è impossibile separare la libertà dalla gente
confondo i fucili mitragliatori e le porte, quelle coi colonnati,
quelle senza, quelle di ferro, di legno, di vetro, grandi
e piccole, tutte le porte delle strade le confondo coi fucili
confondo le barricate fatte di sacchi di sabbia e l’Atlantico
non c’è modo di distinguere l’orizzonte che aspetta al varco la sagoma
delle portaerei americane
dalle barricate fatte coi sacchi di sabbia
confondo le madri contadine col palazzo della presidenza
confondo i mausolei le statue i busti di Josè Martin
con le fotografie di Fidel
confondo Fidel con le canzoni, l’Internazionale col ch-cha-cha
la conga con Fidel
somos socialistas adelante adelante
–
confondo Fidel con le centomila persone che sulla piazza
allineandosi una dietro l’altra e mettendosi le mani sulle spalle
danzano la rumba
non c’è modo di distinguere Fidel dall’Avana
m’imbatto in Marx sulla copertina dei libri tra gli anans i mamay
m’imbatto in Marx con la sua nobile barba sceso or ora dai monti
della Sierra
m’imbatto in Lenin, ogni giorno più spesso, sul muro assolato
in mezzo a piccole stelle rosse in mezzo a frasi spagnole
col braccio alzato Lenin parla sulla Piazza Rossa, da una tribuna
di legno, circondato da bandiere cubane
m’imbatto in Nikita attraverso il ritmo delle canzoni
m’imbatto in Kennedy dai denti falsi di cane
m’imbatto in pezzi di carta da pacchi
fissati con un chiodo
sulle banche sulle officine
c’è scritto quasi sempre Nacionalizado,
incontro dei contadini
nella destra hanno il titolo di diritto alla terra, nella sinistra
l’iscrizione alla cooperativa
sembra che sognino e temano di svegliarsi, e scoprire
che tutto ciò che vedono non sia vero,
m’imbatto in qualcuno dei cinquanta milioni di alberi
piantati dalla Rivoluzione
nelle scuole che adesso son diecimila,
incontro degli architetti
degli architetti con baffi appena spuntati, che vengono
dal sole dalla luna dalle stelle, o piuttosto da un mondo
dove la vita è molto, ma molto più vera, diciamo
che vengono dal cuore del nostro ventunesimo secolo
costruiscono giardini edifici con forme colori comodità senza pari
gli edifici non sono come vestiti in serie, ad esempio
la casa del pescatore non è una casa, è una scatola per gioielli
che non somiglia a nessun’altra;
avevano da dire delle cose belle e da dirle presto
gli architetti della Rivoluzione
ai lavoratori di Cuba
e sanno trasformare il calore in frescura, l’oscurità in luce;
incontro degli operai
da che l’Avana è l’Avana nessuno è passato per le vie
con passo così franco,
a anch’io, che ogni giorno all’Avana mi sento più giovane:
l’amarezza del mondo la sento ogni giorno di meno
nella mia bocca
le rughe sulle mie mani si cancellano un poco ogni giorno
ogni giorno credo di più
che la donna lontana pensi a me soltanto
ha i capelli di fieno biondo, le ciglia azzurre,
–
e ogni giorno per le vie dell’Avana canto
più gioiosamente
somos socialistas adelante adelante.
–
anna schettini
30 Luglio 2012 @ 14:44
belle…parole che sono “uomini”….grazie…
Dalla redazione
30 Luglio 2012 @ 15:41
Secondo me questa è la più bella poesia di Nazim Hikmet …
GIan Carlo
Rosa Rivelli
15 Agosto 2013 @ 06:00
che meravigliosa pagina Gian Carlo! un tale incalzare di bellezza ha fatto si che la prima lettura fosse possibile solo tutta d’un fiato. Per poi tornarci..Grazie
XXX
15 Agosto 2013 @ 07:21
è la poesia di Nazim che amo di più in assoluto …
GC