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di Gian Carlo Zanon
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Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
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considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
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Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
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Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
0 vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
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Molti lettori riconosceranno questo canto tragico: è l’incipit del libro di Primo Levi Se questo è un uomo.
Un modo certamente brusco per iniziare a parlare della Shoah… ma penso che sia questa la strada da percorrere per tener lontane le Erinni guardiane della giustizia primordiale.
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Il termine biblico Shoah significa distruzione totale, assoluta, catastrofe che annienta. Ma la parola ebraica non riesce a rappresentare fino in fondo l’annichilimento fisico e mentale vissuto da almeno sei milioni di ebrei nei Konzentrationslager (campi di concentramento) e nei Zwangsarbeiter dove uomini e donne abili al lavoro giungendovi trovavano sul cancello la scritta beffarda Arbeit macht frei, “Il lavoro rende liberi”. Oltre quei cancelli iniziava l’orrore .
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In un libro uscito nell’ottobre 2012, Il falsario italiano di Schindler, il giornalista Marco Ansaldo, narra della sua dolorosa ricerca fatta negli archivi di Bad Arolsen, dove, solo dal 2007, è consentito l’accesso ai pochi protagonisti sopravvissuti, ai loro familiari e ai ricercatori. Per la solita ignominiosa realpolitik, i sigilli censori dell’archivio sono stati eliminati sessant’anni dopo la fine della guerra a causa di un estenuante braccio di ferro diplomatico tra gli undici Paesi firmatari di un accordo sull’archivio.
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L’Italia e la Grecia sono stati gli ultimi a dare il proprio assenso all’apertura. Non ce ne stupiamo. D’altronde il ritrovamento dell’ormai famoso “armadio della vergogna”, rinvenuto nel 1994 a Roma in un locale di Palazzo Cesi, sede di vari organi giudiziari militari, parla chiaramente di quanto gli uomini degli apparati di potere italiani abbiano scientemente lavorato per nascondere i responsabili di quegli efferati crimini di cui solo da pochissimi anni siamo venuti a conoscenza. In quell’armadio angusto vi erano relegati i fascicoli relativi ai crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l’occupazione nazifascista: : l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, l’eccidio delle Fosse Ardeatine, l’eccidio di Marzabotto, e molti altri.
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Nell’ex caserma delle Ss di Bad Arolsen, una cittadina situata al centro della Germania, in ben ventisei chilometri di scaffali, sono archiviati fascicoli, mappe, disegni, effetti personali, liste, fotografie e l’agghiacciante Totenbuch, il registro dei morti del lager di Buchenwald, dove sono annotati con ossessiva minuzia, i nomi, le date, i luoghi di origine, l’ora e il minuto della morte dei deportati. In quel documento la vita degli sventurati è classificata maniacalmente: vengono descritti i loro comportamenti durante gli interrogatori e nelle baracche, le loro malattie, le frustate, persino il numero dei pidocchi trovati nell’ultima ispezione corporale.
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Una pagina del Totenbuch, il registro dei morti del lager di Buchenwald
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La quarta parte del libro di Ansaldo è dedicata a tre donne che morirono nei Konzentrationslager nazisti di cui l’archivio conserva i fascicoli scritti in bella calligrafia dagli aguzzini: Mafalda di Savoia deceduta dopo l’amputazione di un braccio ferito durante un bombardamento degli americani; Irene Némirovsky che lasciò alla figlia salvata dall’orrore nazista il suo baule contenente il manoscritto del suo capolavoro: Suite francese.
Infine Anna Frank morta di tifo, poche ore dopo la sorella, nel Lager di Bergen-Belsen.
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Anna Frank (a destra) con la sorella
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Il libro di Marco Ansaldo non è solo un puntiglioso resoconto di ciò che egli ha trovato negli scaffali diBad Arolsen, ma pone importanti interrogativi sull’essenza e sulla genesi di quell’orrore.
«C’è persino un kitsch dell’Olocausto, perché ritengo che sia kitsch quel tipo di rappresentazione che non è in grado, o non vuole, comprendere la relazione fondamentale tra la nostra deforme vita civile e privata e la possibilità dell’Olocausto, che estrania una volta per tutte l’Olocausto dalla natura umana e si impegna ad escluderlo dalla cerchia delle umane esperienze».
È Imre Kertész che parla, lo scrittore ebreo ungherese premio Nobel per la letteratura salvatosi, perché creduto morto, dalla «distruzione degli ebrei in Europa» che da anni lotta contro «l’uso smodato del termine Olocausto» Queste sue parole, forse un po’ criptiche, aiutano ad intravedere il nucleo di quella “deformità” di pensiero purtroppo esistente tuttora nella «vita civile e privata».
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Ed è proprio l’incapacità di reperire nelle parole incise nei vari vocabolari europei il senso profondo di quanto è accaduto, che ha reso “inconoscibile” il nucleo di quell’orrore. Questa “carenza linguistica” viene accennata anche da Primo Levi: «Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo.»
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Per cercare di tradurre le parole dei due scrittori scampati alla Shoah in un linguaggio che sappia raggiungere il nocciolo del problema, forse si dovrebbe saper porre una “giusta distanza” tra chi scrive e l’oggetto della ricerca, ma dubito che si riuscirebbe nell’intento. L’unico modo è quello di mescolare il nostro Io nella pasta di quello strazio, sperando che il cuore lavato dal dolore divenga leggero e la mente attenta possa trovare le parole per narrare “l’inenarrabile”.
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Alla lingua italiana non mancano i termini verbali per definire quella “operazione mentale”, che cancella la percezione dell’umanità nell’altro da sé, senza la quale non sarebbe stato possibile che ventisette milioni di esseri umani, tra cui sei milioni di ebrei, venissero eliminati come animali da altri esseri umani, nei Lager, nelle fabbriche, durante le marce forzate, nei treni blindati … in ogni dove.
Come già disse Primo Levi, appellarsi ad un volere divino è, oltre che assurdo, fuorviante. Per questo Imre Kertész definisce l’Olocausto, (sacrificio) una credenza metafisica: «un tabù accompagnato da un mondo linguistico e religioso». Levi è molto chiaro sull’argomento: «Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto. (…) C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo.»
Difficile trovare risposte teologiche visto che anche la Chiesa cattolica, seguì passo passo l’ascesa dei nazisti: dal suo schierarsi nel voto a favore di Hitler, alla firma del concordato con il Terzo Reich hitleriano del ‘33, per finire con il sistematico aiuto fornito dalla Chiesa cattolica ai nazisti colpevoli di atrocità, che alla fine della guerra furono fatti “emigrare”, non prima di un tragicomico “secondo battesimo”, in Sudamerica o in altri luoghi sicuri.
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Quindi si deve necessariamente uscire dalla sintassi religiosa per raccontare di un sistematico lavoro filosofico, dottrinario e culturale, creato per instillare nella mente dei tedeschi, come suggerisce Ansaldo, un veleno freddo e lucido contro gli ebrei.
E qui dobbiamo necessariamente parlare di Heidegger, definito giustamente da Emmanuel Faye il fondatore dell’ideologia nazista. (1) Per ovvie ragioni non possiamo qui raccontare come il sistema filosofico di Heidegger sia parte fondante del delirio nazista. Chi volesse capirne di più può provare a leggere il lavoro di Faye, L’introduction du nazisme dans la philosophie, tradotto in italiano, e sapientemente curato dalla filosofa Livia Profeti: Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia.
L’avversione che Heidegger aveva per gli ebrei è già esplicitata in una sua lettera che nel 1926 scrive alla fidanzata Elfride:«La giudaizzazione della nostra cultura e delle nostre università è in effetti spaventosa, e ritengo che la razza tedesca dovrebbe trovare sufficienti energie interiori per emergere…»
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«È necessario –scrive Faye nella prefazione –anche rivalutare la sua responsabilità, (di Heidegger N.d.R.) non solo nell’adesione dei tedeschi a Hitler nel 1933, dove l’influenza dei discorsi del rettore Heidegger è accertata da lunga data, ma anche nella preparazione delle menti al processo che condurrà alla politica di espansione militare del nazismo e allo sterminio degli ebrei d’Europa».
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