• Recensione: “Una stagione all’inferno”… poi la salvezza…

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    di Gian Carlo Zanon

    «Cerco di mettere ordine, almeno dove riesco, il disordine non me lo posso permettere, ne ho troppo dentro per vederlo anche fuori»

    Estate 1994; Martedì; Albano Laziale. Con queste coordinate spaziotemporali entriamo nel mondo di Daniele Mencarelli – allo stesso tempo autore e protagonista del romanzo Tutto chiede perdono – mentre lui, il protagonista del romanzo, inizia il periodo di TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) all’interno di un ospedale in cui vi sono reparti per malati psichiatrici, di ogni ordine di gravità. Il reparto descritto è uno degli innumerevoli luoghi disseminati in ogni regione italiana, che, dal 1978 in poi,  hanno sostituito i manicomi. Questi enormi luoghi sono stati lentamente chiusi  e gli ospedali psichiatrici sono stati sostituiti da una miriade di strutture divenute ormai luoghi dove i malati cronici gravi, convivono con persone che, a causa di un TSO della durata di sette giorni, vengono privati della libertà e rinchiusi per fare in modo che non possano nuocere a sé stessi e agli altri.

    Il protagonista, voce narrante, parla di sé, del motivo per cui è stato incarcerato in un reparto psichiatrico, narra i suoi trascorsi, dice della sua “maledetta” impossibilità di non saper prendere la giusta distanza dal dolore degli altri. Impossibilità di uscire da una empatia che vive quasi fisicamente come un’ingiustizia inaccettabile e che lo rende preda di una rabbia incontenibile che sfocia in atti di violenza autodiretta. Lui vorrebbe non sentire, o quantomeno sentire come gli altri… ma nulla servono tutte le droghe che prende per anestetizzare il dolore e la rabbia conseguente; lui non ha «un giubbotto anti proiettile calato sul cuore, invisibile» come Pino l’infermiere.

    In questo luogo nemmeno giungono gli echi del mondo con le sue tragedie, le sue gioie e le sue viltà: spariti gli affanni giornalieri, Daniele si ritrova “nella camera di Gregor Samsa”, in compagnia di alcuni compagni ancor capaci di affetto. Lì ci sono solo rapporti interumani mediati dallo stato di salute mentale dei  pazienti. Lì ci sono solo rapporti interumani reali denudati dal manierismo sociale. Lì si è nudi; lì non si nasconde la verità sulla propria identità psichica come il protagonista è solito fare all’esterno: lì non si mente agli amici, non si «recita la parte del perfetto» davanti alla comitiva. Quel luogo, in cui si vive insieme a fratelli cha hanno «un male ricevuto in dono» , diventa un momentaneo rifugio, una possibilità di fuga dall’“assurdo” che impazza nella vita reale.

    Mentre la narrazione si snoda, scandita dal numero dei giorni di “prigionia”, l’autore, penso inconsapevolmente, mette in evidenza lo stato delle cose riguardo alla conoscenza e all’interpretazione di quella malattia mentale psichiatrica negata da Basaglia: «La nuova legge cerca di omologare la psichiatria alla medicina, cioè il comportamento umano con il corpo. È come se volessimo omologare i cani con le banane.» dirà lo psichiatra subito dopo il varo della legge Orsini. Basaglia negherà la malattia psichica con questa frase, a mio giudizio, senza senso.   

    La narrazione di Daniele è costellata da ogni genere di interpretazione riguardo le cause della malattia mentale:

    a) è causata da «qualche alieno, o da un demone, o una entità qualsiasi, Noi che possiamo saperne?»

    b) è causata da uno scompenso chimico, da una «cattiva mescolanza», secondo la dottrina umorale ippocratica, uno squilibrio nella composizione degli umori dell’organismo umano, che caratterizza e condiziona ogni stato morboso: «Fa che il mio sia solo uno scompenso chimico, datemi tutta la chimica del mondo, ma chiudetemi gli occhi, il cuore, perché non ce la faccio più a soffrire così per ciò che vedo, sento» e lo psichiatra conferma «basta trovare il farmaco giusto» per riequilibrare gli umori: lo diceva anche Galeno 2000 anni fa.

    c) la malattia mentale sorge per un trauma causato dalla impossibilità di separarsi elaborando il lutto,  dopo la morte di un genitore, come accade a Giorgio un compagno di sventura di Daniele.

    d) per questa malattia «Non esiste un farmaco che ti farà guarire , o che su di te sarà efficace tutta la vita. (…) quello che puoi trovare dai medici e dalla medicina è nel migliore dei casi un piccolo aiuto, il resto sei tu, il modo in cui vedi le cose, la forza con cui la vita ti arriva, negli anni capirai che non è tutto un male».

    Nel romanzo si parla anche di casi in cui una donna impazzisce per una diagnosi delirante di uno psichiatra in cui si confonde – accade spesso – un causa neurologica, come l’autismo, con un causa psichiatrica come l’anaffettività della madre nei primi mesi di vita:  «Al figlio avevano diagnosticato l’autismo, lo sai la scienza ufficiale come spiegava questa malattia all’epoca? Qual era la loro teoria? La mamma frigorifero. Sai che significa? secondo la scienza la colpa del figlio autistico era da ricercarsi nell’anaffettività materna. In pratica davano colpa alle madri, alla loro incapacità di amare normalmente il loro figli.»

    In  tutto questo minestrone, fatto di mezze verità e di palesi errori sulle cause della malattia mentale, è difficile orizzontarsi per il lettore già abituato, dalla cultura dominante,  a queste contraddizioni: La malattia ha cause genetiche come  dice la voce narrante che parla di un figlio «fedele al sangue – di due genitori matti che lo hanno – generato». Poi però il protagonista, di fronte alla visione di una madre completamente anaffettiva  nel rapporto con il figlio ricoverato, dice anche «Una cosa, però, la so, perché la vedo: quello che la madre ha prodotto sul figlio». E quindi sono i rapporti interumani malati che generano la malattia psichica.

    Daniele, oltre alla confusione sulle cause della malattia mentale, si ritrova a combattere con psichiatri scoglionati e anaffettivi che non solo non curano ma essi stessi sono causa di crisi psicotiche dovute alla loro perdita di umanità: «Esco dallo studio imbambolato, non sento niente , non voglio niente. Mancino (lo “psicoterapeuta” N.d. R.) mi ha trasmesso il sentimento che prova per me. Qualcosa simile allo zero. (…) Non  chiedo santi, per giunta dotati di straordinario acume clinico, ma nemmeno uomini disamorati di se stessi e degli altri. (…) je parlavo pure de ‘na cosa che a me sta a cuore, e lui bello bello dormiva, qui dentro te aiutano a casca’ più che a alzatte». Il dialetto romanesco Daniele sottolinea maggiormente l’assenza affettiva dello psicoterapeuta. Uno psicoterapeuta deludente che ha perso la propria identità medica: «Dov’è finita la sua vocazione? Quella che gli ha fatto scegliere il mestiere di  medico» di cui Daniele ha un giudizio tanto feroce quanto legittimo «perché l’infelice è lui, noi pazienti gli capitiamo sotto le mani per un’ora a seduta, ma è lui che deve stare con se stesso e la sua insoddisfazione giorno per giorno per tutta la vita». 

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    Nel romanzo emergono anche nebbiose intuizioni sulla realtà umana che, prima sana, poi si ammala: «Io, ecco, credo che in certi uomini sia rimasto un ricordo, sgranato, finito nel subcosciente. Questi uomini guardano tutto per come era veramente, prima di quella cosa che è successa, e che ha cambiato tutto.»

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    E verso la fine emerge, in poche righe, sia certezza di sé «Oggi so che non  sono io a vedere grandi le cose, ma sono loro ad esserlo, io mi limito a guardarle nella loro reale dimensione. – sia la disperazione –  Ma questa consapevolezza che stringo ora nei pugni so che passerà, come è già passata, tutto il quel momento tornerà ad essere un sintomo di un male ancora senza nome.». Certezza e perdita delle certezza di sé si alternano e, mescolandosi, fanno emergere quello stridore esistenziale causato dalla dicotomia tra ciò gli altri dicono di vedere e ciò che Daniele sente, da ciò che Daniele avverte nel rapporto con gli altri. Ma siamo sempre nella battaglia di uno contro tutti: difficile uscire indenni da una lotta così impari senza un’identità umana ben salda. Certamente Daniele reagisce all’assurdo in modo incongruo, e se vogliamo violento, verso se stesso, ma lo fa perché è incapace di, nell’ordine, a) dare un senso ad un atto affettivamente violento, come lo è la “presenza assente” dello psicoterapeuta; b) è incapace di porre in essere un rifiuto interiore; c) è incapace di separarsi psichicamente dalla persona che agisce questa invisibile violenza senza quella rabbia che conduce all’identificazione con il carnefice, e senza aspettarsi nessun aiuto soprannaturale: «Curati. Chiedi aiuto quando serve – gli dice un suo compagno di sventura – Ma lascia il tuo sguardo libero, non farti raccontare il mondo dagli altri.»

    Passata la furia degli eventi alle domande iniziali sul senso della vita umana si aggiungono altre domande urgenti che esigono risposte urgenti: «Non aprirsi mai alla pietà, svuotare l’uomo fino a farlo diventare un ingranaggio di carne. Sentirsi padroni di tutte le risposte. È questa la normalità? La salute mentale?» Poi una nuova amara consapevolezza emerge «(…) mi tocca in dote  la maledizione di vivere senza mai farci l’abitudine, a niente, al bene come al male. Vivrò da infelice, prima poi il dolore avrà la meglio».

    C’è in questo romanzo una nuova consapevolezza che contiene anche il rifiuto per ciò che è inumano per il protagonista del romanzo e per tutti quelli che come lui che rivendicano il proprio “sentire” e interpretare la realtà. Sentire e interpretare la realtà per quella che è senza adattarcisi né farsi ammaestrare dalle certezze granitiche di coloro che guardano per reificare la realtà, per rendere gli esseri umani tante marionette senz’anima, magari dando loro le pillole della felicità. Emerge la consapevolezza di chi ha conservato una realtà interna ferita ma integra, di chi non si è fatto «fatto crescere nessuna scorza» per rendersi impermeabile al dolore, e per fermare quella paura che paralizza, quella paura, capace di derealizzare la realtà che si accampa davanti agli occhi di Daniele: «(…) l’ho sperimentato anche io il limite, quando tutto perde di significato, quando la realtà si sbriciola, si smaterializza di fronte a tuoi occhi.».

    Un ottimo romanzo, fuori dagli schemi, questo di Daniele Mencarelli e del poeta suo alter ego…

    3 settembre 2022

    Scheda

    Titolo: Tutto chiede perdono

    Autore: Daniele Mencarelli

    Editore: Mondadori

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