• Realtà parallele – Mito e storia, leggenda e cronaca

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     di Salvo Carfì

     

    Buongiorno cari lettori …

     

     Pensavo proprio di aver finito di angustiarvi con i miei trips culturali sul mito … ma c’è la Cantarella che ne infila una dopo l’altra, e allora mi tocca riprendere a parlarvi di teogonie, di Caos e Cosmos, degli dei olimpici ecc.

     

    Vi dicevo della Eva Cantarella – l’insigne giurista che ha insegnato per anni diritto romano all’Università Statale di Milano –   mercoledì ha pubblicato sul Corriere un articoletto, “Medea che (forse) uccise i due figli”,  in cui mette in dubbio la veridicità del mito che narra della maga infanticida.

    Pur genuflettendomi alla sua sapienza grazie alla quale ha creato alcuni capolavori tra cui Itaca, vincitore, a ragione, nel 2003, del premio Bagutta, mi permetto di dire che non ho apprezzato molto questo suo intervento estemporaneo sul mito di Medea.

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    Primo perché il mito non è discutibile in quanto è mito. Si può interpretare sotto molti punti di vista, storico, sociale, religioso, politico, psicologico, ecc.; si può cercare di  approfondirne sempre più il senso, ma non si può toccare la sua struttura portante perché in questo modo il mito viene giù come un castello di carte.

    Come scrisse il povero Nietzsche, nel suo celeberrimo  La nascita della tragedia , ci provò Euripide con Ifigenia in Tauride e Ifigenia in Aulide , a intaccare le fondamenta del mito minando per sempre la tragedia attica: se Efigenia non fu assassinata, su consiglio del sacerdote Calcante, dal padre Agamennone, che senso ha poi l’uccisione del duce acheo da parte della moglie Clitennestra, madre della ragazza sacrificata, che voleva vendicare il vile assassinio della figlia? E poi che senso ha il matricidio di Oreste che uccide Clitennestra per vendicare il padre Agamennone?

    Come vedete è un casino! Non si possono distruggere le fondamenta del mito; poi non si si raccapezza più perché saltano tutti i collegamenti funzionali che fanno del mito un fondamentale scenario etico entro il quale il cittadino delle polis greche viveva il suo rapporto con la realtà sociale.

    Non ci possono essere dubbi sul fatto che la mitologia appartenga a un’epoca e ad una cultura in cui la facoltà predominante nel pensiero era l’immaginazione.

    Mi sembra di aver già detto che nella cultura precedente alla nascita della filosofia, l’esigenza di indagare, e poi raccontare, la realtà era soddisfatta dal mito. Il mito è dunque, originariamente, uno strumento per conoscere rappresentando la realtà visibile ed invisibile. La sua struttura è la narrazione; il suo primo strumento la voce dell’aedo. La parola mitica esprime la verità Aletheia, “ciò che non più velato dall’oblio”: ciò che, divenendo memoria,  non è più nascosto. Il mito è parola assertoria: nessuno la contesta, nessuno la deve dimostrare. Perché dimostrare una rappresentazione?

    Eppure la Cantarella, alla quale mi genufletto ecc. ecc., mette un “forse” su una rappresentazione mitica … è come se io andassi al cinema a vedere un film di fantascienza e poi all’uscita mi mettessi a discutere seriamente sul fatto che Alien, “forse”, tutto sommato, non è così cattivo e carnivoro come sembra. Come minimo mi porterebbero al neurodeliri.

     

    Leggendo l’articolo della Cantarella mi sono reso conto che lei non parla del mito di Medea in termini mitopoietici. Ne parla come se il fatto fosse realmente accaduto. Quindi quel mito, e forse tutti i miti, per l’insigne giurista è una storia vera sulla quale si può avere dei dubbi. Forse Medea non ha ucciso i figli, dice la Cantarella: « Eppure vi era chi non credeva a quella versione, e sosteneva che a uccidere i bambini, in odio alla straniera, fossero stati i Corinzi. (…)  alcuni credevano che lo avesse fatto su richiesta dei Corinzi, e qualcuno arrivava a dire che, per questa operazione, avesse ricevuto un compenso. Chi aveva ragione? Come erano andate le cose? Medea, comunque, non subì alcun processo e alcuna condanna: dopo la morte dei figli fuggì da Corinto e trovò rifugio temporaneo in un’altra città. Come spesso accade agli esuli.»

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    Inorridisco! E per due motivi: il primo è che il mito non ha questo finale ma un altro ben più ‘lussureggiante’ e il secondo è per quello che già ho detto: parla del mito come se si trovasse al mercato a parlare con le comari di un gossip  tipo quello tra B. e la nipote di Mubarak.

     

    In realtà Plutarco, Apollodoro, Diodoro Siculo e lo stesso Euripide raccontano, mitopoieticamente s’intende,  che Medea dopo aver ucciso la sposa promessa a Giasone, padre dei suoi due figli, e dopo aver crudelmente ucciso i due bambini, viene salvata da padre Elios, il sole, che la porta in lidi lontani sul suo carro di fuoco. Euripide aveva inventato l’ πμηχανὴςθεός“, cioè il deus ex machina , rendendo sempre più metafisica, e quindi irrazionale, la tragedia attica … ma si sa, era compagno di merenda di Socrate … ergo … “che te lo dico a fà” dicono a Roma.

     

     

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    Non si capisce perché l’illustre giurista abbia scritto ‘sta cosa. Proprio non si capisce. Come fanno a fare il processo per direttissima a una tizia che se la fila sul carro del sole? Ma per favore!

     

    Forse Eva Cantarella voleva farsi alfiere di qualche esule infanticida? Forse voleva mostrare in che stato misero vivono le donne esuli? Forse voleva dirci come viene percepita in modo delirante  «Una donna come quella, venuta da un paese lontano e sconosciuto, una ‘barbara’ dai costumi diversi, era capace di qualunque crimine.»

     

    Forse mentre scriveva si sentiva “esule”, “barbara dai costumi diversi”; sentiva di vivere in un “paese lontano e sconosciuto” … e come dargli torto. Anch’io da almeno due decenni mi sento un po’ ‘scomodo’ da ‘ste parti.

     

    In verità, in fondo in fondo, ho preso a pretesto questo articolo, per raccontare ancora delle realtà parallele che scorrono l’una accanto all’altra senza mai incontrarsi.

     

    Mito e storia, sono due elementi che devono sempre stare ben separati l’uno dall’altro … il mito narra di Dafne che per sfuggire ad Apollo si trasforma in alloro; di Licaone che viene mutato da Zeus in lupo per punirlo della sua ferocia; di Io che viene tramutata in giumenta per sfuggire alla rabbia di Era pazza di gelosia e di altre centinaia di racconti simili… che sono favole funzionali alla cultura di quei tempi. È difficile ora capire questo concetto? Allora la realtà sociale era congrua alla sapienza di quei giorni. Non è come adesso che il rapporto con la realtà è completamente saltato … siamo nel 2012 e ancora ci stanno raccontando  la storia della Maria vergine e di Adamo ed Eva pretendendo che sia storia vera e non mitologia da quattro soldi. Costringono al cannibalismo i bambini di dieci anni convincendoli che quel pezzo di farina che gli si attacca sul palato è il corpo di Cristo … cristo, non ci posso credere …

     

     

     

    Non era così in quel tempo, in quell’“età dell’oro” poeti e aedi, per raccontare l’amore, l’odio, le passioni, utilizzavano il mito. Sapevano talmente bene che erano favole che, pur mantenendo la struttura di base,  ogni aedo il mito lo raccontava un po’ come gli pareva.

    Ma anche per indagare la realtà, alla quale dovevano dare un contenuto, che spiegasse il divenire e il movimento, quindi un senso, si doveva utilizzare la molteplicità dello sguardo poetico:

     

    « Demetra : Questi mortali sono proprio divertenti. (…) Senza di loro mi chiedo che cosa sarebbero i giorni. Che cosa saremmo noi Olimpici: ci chiamano con le loro vocette, e ci danno dei nomi. (…) Hanno un modo di nominare se stessi e le cose e noialtri che arricchisce la vita. (…) Chi direbbe che nella loro miseria hanno tanta ricchezza? Per loro io sono monte selvoso e feroce, sono nuvola e grotta, sono signora dei leoni, delle biade e dei tori, delle rocche murate, la culla e la tomba, la madre di Core. Tutto devo a loro».

     

    Difficile avvicinarsi al mito, difficile farlo con la leggerezza di Cesare Pavese che in questo passo dei “Dialoghi con Leucò”, invade questo mondo leggendario intuendo la portata poetico-conoscitiva della mitologia: dalla notte dei tempi gli esseri umani facevano esperienza del reale nominando l’esistente in forma mitopoietica.

     

     

     

    Nel mito l’esistente veniva ammantato dagli affetti che davano profondità e senso all’esistenza. Se così non fosse le rocche ciclopiche sarebbero state “viste” solo come un ammasso ordinato di pietre, le grotte come fori nella montagna, e la culla, ovvero ciò che rappresentava il primo anno di vita, non avrebbe avuto alcuna profondità semantica.

    Come ho già raccontato, l’antico pensiero mitopoietico, dove oggetto e sguardo umano si fondevano sincreticamente, viene, già con la filosofia presocratica, lentamente, ma inesorabilmente, annullato dalla ragione: i filosofi (iniziando da Parmenide, che, inventando l’articolo determinativo, rese esangui i fonemi)  per affrancarsi dal mito, che raccontava la realtà in forma poetica, creano il logos cioè un modo di conoscere che si rapporta solo al dato empirico. Dato empirico che elimina la ‘sensazione’ e tiene conto solo dell’oggetto percepibile con i cinque sensi.

    Quel superbo mondo, popolato da dei, scompare dalla cultura ‘alta’ e ufficiale; il pensiero irrazionale esce dalla cultura dominante, che si identifica con la ragione, ma rimane sotterraneo resistendo alla razionalità e alla religione istituzionale che annullano affetti e passioni, vale a dire quel sentire umano che “sente” e “sa” dell’invisibile nascosto nella realtà percepibile dai cinque sensi.

    Ma come si dice “ciò che esce dalla porta, rientra dalla finestra” . Questa antico modo di intendere e conoscere la realtà visibile e invisibile è tuttora presente nella nostra cultura anche se ancora considerato come cosa ‘puerile’, “da bambini”. L’invisibile intenzionalità inconscia  diviene un oggetto superfluo, e pericoloso, e quindi deve essere controllata dai cultori dello spirito … i preti. L’homus rationalis non riesce a comprendere che, una volta perduta la fantasia inconscia, la vita umana è soltanto un’inutile corsa verso la morte.

    Sirene e fauni, satiri e arpie, ninfe e semidei, esseri umani che nel mito si trasformavano in animali  – come Pinocchio che si mutò in asino, ma anche Gregorio Samsa  il quale «dopo una notte di sogni agitati, si ritrovò trasformato in un insetto immondo» – rappresentano quel mondo notturno “laterale” che nella società ordinate da ragione e religione si cerca di tenere segregato. Questo per far in modo che le culture dominanti che si sono succedute nei secoli continuino a ripetere che non si può andare oltre le Colonne d’Ercole, che non si può varcare le porte dell’invisibile, perché … ci sono i mostri.

     

    Beh io l’anno scorso sono andato a Cadiz e l’unico mostro che ho trovato è stato un italiota deficiente, convinto di essere intelligentissimo, che mi ha fatto due palle così parlandomi del suo camper del cazzo.

     

    Ma si è fatto un po’ tardi … ci si vede … mostri.

    7 luglio 212

    Salvo C.

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    Realtà parallele: tutti gli articoli

    • Caro Salvo, ho amato oltremodo il tuo intervento. Perché giudicare la melodia lucente che s’alza da secoli alta oltre ogni granello d’umanità? Gaia

    • Si riprende qui un articolo di Simona Maggiorelli del 2011, nel quale si riporta:
      …..Uscito in Italia nel 1995 grazie alla casa editrice e/o, il libro su Medea, come è noto, ritrae il famoso personaggio della tragedia antica non più come infanticida , per vendetta dopo l’abbandono da parte di Giasone, ma come esperta guaritrice ostracizzata dai Greci. Proprio per questo suo sapere e per il fatto di essere un’immigrata dalle terre dei barbari ( così i Greci definivano chi non parlava la loro lingua) sarebbe stata vittima di calunnie e velenose dicerie che ne attaccarono con violenza l’identità di donna.

      In libri come I miei miti e nelle premesse a L’altra Medea, Wolf ha raccontato la ricerca che attraverso un’accurata indagine filologica dei testi antichi e un fortunato reperimenti di nuove fonti, l’ha portata a recuperare questa versione del mito di una Medea pre euripidea. L’altra Medea, in particolare, si legge come un interessante excursus sullasocietà proto patriarcale da cui emerge con chiarezza che ciò che la tradizione maschile ha tramandato ai posteri non corrisponde necessariamente all’unica verità. E L’altra Medea ci riporta anche all’attualità, dacché si tratta di un collage di annotazioni, saggi critici e rflessioni prevalentemente risalenti al periodo del soggiorno di Wolf in America, a cui è dedicato il suo ultimo romanzo uscito a novembre in Italia per le Edizioni e/o, La città degli Angeli…..

      Pensate di voler confutare anche la Wolf?

      • Come sarebbe a dire “Pensate di voler confutare anche la Wolf?” Perché la Woolf chi è? Un’altra madonna vergine da adorare? E poi perché mi dai del voi, il periodo fascista è finito da un pezzo non te ne eri accorta/o?

        O forse sei irritata/o non tanto per ciò che io, Salvo Carfì, ho scritto su Medea ma per ciò che noi (intendo gli autori di I giorni e le notti) stiamo scrivendo su questo giornale da alcuni mesi. Se è così fattene una ragione cara/o.

        Signor o signora Faber se vuoi confutare ciò che ho scritto parliamo di ciò che ho scritto e su cosa ho scritto e cioè dell’articolo della Cantarella non di un articolo della Maggiorelli che tra l’altro non ho letto. Dimmi puntualmente ciò che ti sembra inesatto o contrario alla tua visione del mondo e io ti risponderò puntualmente. Io ho lavorato sul mito della Medea che tutti conosciamo. So benissimo, se non altro per aver più volte divorato i Miti Greci di Graves, che i miti hanno decine di sfumature, addirittura anche i nomi sono differenti, si pensi a Giocasta che in alcuni parte della Grecia arcaica veniva chiamata Epicasta ecc.. Ma quando si vuole parlare del senso al mito lo si affronta dalla sua struttura mitopoietica. Altra cosa è, come probabilmente ha fatto Simona Maggiorelli, cercare le ragioni storiche, sociali, antropologiche, religiose ecc. che stanno alla base del mito e lo nutrono. Altra cosa è dire che dato che il mito ci è giunto attraverso Euripide non può essere che inficiato dall’etica e dalla filosofia presenti in quel periodo storico, e chi non potrebbe essere d’accordo, se ne può discutere … ma discutere non significa copiare e appiccicare due paragrafi della Maggiorelli e poi scrivere frasi minacciose sventolando la bandiera di una autoritas come se si fosse toccato un dogma religioso. Amo anch’io Virginia Woolf, penso che Gita al Faro sia un capolavoro della letteratura, ma non per questo ho il suo santino nel portafoglio o sventolante sul cruscotto della mia automobile, magari insieme a quello di Padre Pio e papa Giovanni XXIII ultimamente tornato di moda.

        I miei ossequi signor o signora Faber

        Salvo Carfì

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