• Prometeo, Ulisse, Gilgameš – Figure del mito, di Giulio Giorello – Recensione

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    di Giulia De Baudi

    Il mito svela ciò che la storia nasconde

     

    Difficile avvicinarsi al mito, difficile farlo con la leggerezza di Pavese che, nei Dialoghi con Leucò, invade questo mondo leggendario intuendo la portata poetico-conoscitiva della mitologia: gli esseri umani fanno esperienza del reale nominando l’esistente in forma mito-poetica. Difficile avvicinarsi al mito. Giulio Giorello entra nell’elemento mitico scegliendo alcuni autori, antichi e moderni, che hanno sondato e riproposto l’antica tradizione orale mito-poetica: Esiodo, Eschilo, il Milton del Paradiso perduto, i coniugi Mary e Percy Bysshe Shelley, Omero, Joyce, Ezra Pound.

    Ma forse è il caso di fare una premessa. Ciò che può interessare in questo libro, corredato da ben cinquanta pagine di note, sono le innumerevoli informazioni e l’immensa presenza di citazioni. In questo materiale, per chi è dotato di una forte capacità ermeneutica, si possono trovare innumerevoli spunti di ricerca, e la possibilità di reperire le fonti originarie.

    Ma c’è un problema: questo libro è un catalogo. L’autore si astiene di fornire una benché minima chiave di lettura dei miti. Giorello transita attraverso i miti con quel pensiero debole e minimalista che contraddistingue, ormai da troppo tempo, la cultura che “conta”. In questo libro non ci sono interpretazioni, egli elenca, impila, accatasta, affastella centinaia di citazioni e il suo pensiero è difficile da individuare in questo accumulo così denso di pensieri altrui. Leggendo il testo di questo cultore di filosofia – Giulio Giorello insegna Filosofia della Scienza all’Università degli Studi di Milano – capita di uscire spossati dalla fatica e non si comprende cosa intenda dire al lettore, anche perché, spesso, i nessi sono a dir poco criptici. Ma forse sono io che non capisco.


    Nonostante tutto questo, per chi è solito armarsi di pazienza e di amore per la ricerca, vi è molta materia affascinate come i pensieri di Ezra Pound sul vocabolo mitico: “Nomina sunt consequentia rerum” i nomi sono conseguenza dell’esistente, vale a dire che il fonema mitico evoca la realtà esistente: il mitos non crea le cose dal nulla come faranno poi onnipotentemente il logos e il conseguente pensiero astratto-religioso. Ezra Pound ci parla dei suoni che scaturiscono dall’arte del poeta:“…si deve prestare ascolto al “residuo di suono” che le parole lasciano dietro di sé “come un sottofondo di voce d’organo” e inseguendo “quel ritmo assoluto” che è il vero “ ritmo poetico” e che “corrisponde esattamente all’emozione o alla sfumatura di emozione da esprimere ” si giunge alla matrice poetica.
    Nonostante tutto questo, noi, utilizzando il materiale ammonticchiato dall’autore del testo, proviamo ad interpretare e a conoscere il mutevole pensiero mitico. Eschilo:“Poiché il fiore tuo, il fuoco, scintilla di tutte le arti, costui ha rubato e l’ha donato ai mortali. Delle colpe sue ora, agli dei deve pagare la pena: deve imparare ad accettare, ad amare il potere assoluto di Zeus, e smetterla con questa mania di far del bene agli uomini”. Prometeo è senza dubbio l’eroe più grande di tutta la mitologia. Egli deve pagare “per aver amato troppo i mortali”. Marx, nella prefazione della sua tesi di laurea lo definì: “…il più grande santo e martire del calendario filosofico”.

    Ma io penso che il filosofo di Treviri sbagli: Prometeo non e né santo né martire, Prometeo è un eroe. I due termini, anche se vengono solitamente usati dando loro l’identico significato, non sono affatto sovrapponibili. Il martire è colui che aliena il proprio essere in una credenza religiosa e si sacrifica per essa, vedi il martire cristiano che muore per non voler rinnegare il suo credo o il martire islamico che fa strage uccidendosi convinto che andrà in paradiso con le famose venti vergini. L’eroe, al contrario, è tale quando la realizzazione della propria identità umana diviene una possibilità di realizzazione anche per gli altri esseri umani. L’idea di Eroe nelle antiche civiltà mesopotamiche corrispondeva a quella dello scienziato. L’immagine rappresentava un essere umano che cercava di donare al resto dell’umanità qualcosa che le permettesse di elevarsi sia materialmente che psichicamente. Da un’epigrafe paleo-sumerica. leggiamo: ”…affinchè io con la mia vasta intelligenza, che supera ogni cosa, alla mia città e al mio paese acqua dolce possa procurare, e il mio comportamento e la lode della mia eroicità fino alla fine dei giorni possa far risplendere egregiamente,”. Questo ingegnere eroe cambia il corso del fiume per portare acqua nelle città sumere, e questo atto viene definito eroico.

    Altra questione, molto complessa, comune agli eroi dei miti greci, è il “peccato” di ybris, lo smisurato orgoglio che spingeva questi esseri umani oltre i limiti delle norme umane e divine. Una immagine ctonia, un daímōn interno, li obbligava a sfidare l’ira di uomini e dei: Prometeo non ascolta i moniti olimpici, Edipo è colpevole di sfuggire al fato, Antigone si ribella a leggi disumane. Ciò che l’eroe greco deve pagare, secondo il pensiero occidentale espresso nei miti, è la sua ribellione, il suo rifiutare norme coartanti, il tentativo di essere.
    Non è così per il più antico mito sumero-accadico: Gilgameš paga per non aver voluto giacere con la dea Istar: “cosa mi succederebbe dopo averti posseduta”, Gilgameš l’irrequieto signore di Uruk, colui che ha sconfitto il gigante Hubaba della montagna dei Cedri, teme la donna e la allontana da sé. Ciò scatenerà l’ira della dea e porterà alla morte l’alter ego e parte vitale del re sumero. Infatti, immediatamente successiva alla negazione dell’immagine femminile, vi è la morte di Enkidu, colui che, da animale, era divenuto essere umano solo dopo aver giaciuto sei giorni e sette notti con la prostituta sacra. L’epopea di Gilgameš è senza dubbio più antica dei miti greci. Il mito evoca la colpa dell’eroe sumero, che, per il pensiero degli antichi abitanti di Uruk, non è ribellione e rifiuto di norme politiche o religiose ma la negazione dell’immagine femminile e del rapporto uomo-donna.


    Nei canti di Esiodo ed Omero Prometeo ed Odisseo pagano il loro “peccato” di ybris, il fiero orgoglio a cui non si deve mai attingere. Odisseo, l’uomo della metis, il pensiero furbo, l’uomo dal multiforme ingegno che vince il Ciclope con l’astuzia, paga per la sua “tracotanza”: “io sono Odisseo” grida l’acheo a Polifemo. Bastano queste due parole messe una accanto all’altra, “io sono”, per suscitare l’ira degli dei. Prometeo si ribella a Zeus per salvare gli uomini , non si piega, non chiede perdono al padre degli dei. La condanna per l’empio ribelle è crudele


    Giorello non se ne accorge ma nel divenire del mito Prometeo, l’eroe si trasfigura depauperandosi: nel Paradiso perduto di Milton é Lucifero antagonista e complice del dio cristiano, è l’Angelo più luminoso, il più ribelle, il più orgoglioso … ma è il Male. L’immagine di Prometeo viene evocata anche dai coniugi Mary e Percy Bysshe Shelley. Il poeta inglese nel suo Prometeo liberato si appropria dell’immagine dell’eroe e la ridimensiona: Prometeo cercherà il “dominio di sé” e alla fine chiederà perdono a Zeus il quale si trasformerà in Demorgone cioè nel demiurgo platonico che informerà di sé la tradizione monoteistica.


    Con molta più fantasia, la moglie, Mary Wollstonecraft Shelley creerà il romanzo gotico Frankenstein ovvero il Prometeo moderno. Molto interessante la genesi del racconto. Pochi mesi prima di scrivere la prima stesura del romanzo Mary sogna la figlia morta prematuramente e quindi rimasta senza nome: “Ho sognato che la mia piccola tornasse a vivere, che ella fosse semplicemente diventata fredda e che noi l’avessimo frizionata con il fuoco e che quindi vivesse”. E così sarà per la Creatura del dottor Frankenstein: anche lui prenderà energia vitale dal fuoco di un fulmine, anche lui non avrà un nome. Giorello sfoglia svogliatamente le pagine della Shelley non accorgendosi di quanto sia geniale il racconto che la Creatura fa della propria nascita: “…una luce sempre più forte sollecitò i miei nervi fino a costringermi a chiudere gli occhi. Caddi nell’oscurità e questo mi turbò”. Proseguendo nel racconto l’autrice rappresenta la Creatura come un essere nato buono che, solo in seguito, perché offeso e percosso dagli esseri umani, divenuto ormai un mostro criminale, maledirà la propria nascita e il proprio creatore. “Sono malvagio perché sono infelice”, dirà a Victor Frankenstein, cioè a colui che gli ha dato la vita ma che, nel momento stesso della nascita, lo ha abbandonato.

    Si possono fare infinite ricerche indagando i miti ma a me sembra che Giorello li abbia attraversati senza pathos appiattendone il senso. Marx non sbaglia quando, sempre sulla sua tesi di laurea, afferma: “la morte degli eroi è simile al tramonto del sole”. Gli eroi, come il sole che tramonta e risorge, rappresentato anche nel mito di Sisifo, sono sempre simili ma sempre diversi. Si può attingere dai racconti mitici ridando vigore all’immagine dell’eroe reinventando e reinterpretando il mito per approfondirne l’essenza etica, o si può fare il lavoro inverso, vale a dire appiattire l’immagine eroica generatrice di umanità, di senso.

    Forse, per conoscere il senso profondo del mito si può ripensare a Calipso, “colei che nasconde”, come creazione poetica di quel tempo in cui la madre cela il bambino tra braccia e seni, per poi lasciarlo andare, su un’incerta ma umana zattera del sentire, nell’ ápeiron thalassa, l’infinito mare.

    Scheda

    Giulio Giorello
    Prometeo, Ulisse, Gilgameš – Figure del mito
    Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004
    Pp 258, Euro 19,80

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