• Poesie – Giacomo Sette “La mia ruvida testimonianza”

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    Testimone


    Vuoi che canto?
    Canto la tua pelle lattea stesa come la galassia
    sulla mia buia che tende all’inerzia. Vuoi che canto?
    Che ti chiamo stella e sole e nova?
    Vuoi che gli occhi, materia oscura, brillino nel mistero
    di questa energia? Vuoi che le stelle cadano, che collassino
    una dopo l’altra nel giro lentissimo dell’amplesso? Vuoi che
    canti? Questa danza libera di uomo e donna, questa
    corsa istintiva l’uno nell’altra? Vuoi che ancora io canti
    ogni tiro di tabacco, la passione che brucia e riduce
    la distanza tra la carta e la tua bocca? Vuoi cantare?
    Vuoi cantare di te, di me?
    Anche io lo vorrei.
    Ma ho un fiume di domande, un morso di cavallo nella bocca.
    Il ronzio, la polvere, che incolla le labbra, sigilla gli occhi.
    Questi uomini che mi fanno arrabbiare –
    che cuciono la pelle opaca del loro fratello stesa come il tappeto
    su cui scarpe signorili e luccicanti decidono la Storia. Vorrei cantare di te, di me –
    ma non posso. La voce è rauca, la penna stonata. Non mi sento pulito.
    Per imparare a cantare la linea delicata del tuo seno,
    la perla pungente del tuo profilo,
    devo annodare la voce sui capelli crespi della Storia,
    devo strangolare questa penna, violentare l’inchiostro, costringerlo
    a cantare per le vie magre di Belfast,
    tra i cannoni di Zagabria,
    volteggiando sulle fosse comuni,
    sui teschi, sui corpi molli, sulla pioggia d’atomo e di napalm.
    Forse, canzoni e grida già sentite.
    Saranno i fiocchi di fiamma di Parigi così simili a quelli di Tripoli e Bengasi,
    sarà la rabbia dei siriani rinfocolata dalle bombe francesi,
    sarà l’aria irrespirabile di Pechino,
    il ghigno lucente di Washington,
    le strategie letali di Francesco. Canto lo specchio torbido della fontana,
    su cui il crociato si mira, si rimira e riconosce lo jihadista nel proprio viso.
    Non posso non cantare questi uomini che mi fanno arrabbiare.
    Io mi arrabbio con questi collezionisti di fuliggine e incendi,
    che mi allontanano dai baci che ti darei. Dalle canzoni per i tuoi occhi di noce.
    Per la farina sottile del tuo tocco. Per il mandorlo sbocciato del tuo profumo.
    Per la canna da zucchero della tua immediatezza. Vorrei cantare, davvero e tornare
    semplice come i tuoi baci. Trasparenti, facili, tempestosi.
    Chiasso di primavera, di fioritura, di rondine. Leggera, radicale.
    Così… che ancora non esiste la parola.
    Ma questi uomini che mi fanno arrabbiare hanno seminato mine nei miei baci,
    domande nelle mie canzoni e furia,
    furia di capire. Il mio fuoco, prima morbido come il cotone,
    è ora morbido e aspro, come la pastura, che si posa sul letto del fiume –
    non più sul tuo.
    Si solleva il mio canto livido, eretto nei < perché?>,
    non più nei tuoi umidi < stai con me>, caldi e ciechi
    come il profumo del caffè.
    È ora torbato, amaro, rotondo sulla lingua, asciutto sul palato
    il mio amore, il mio sangue.
    Non canto più l’amore che si manifesta negli occhi.
    Il suo trionfo nelle belle gambe, il suo senso
    nel petto che sente.
    Canto ora l’amore che sfugge,
    canto ora l’amore che si fa sangue e saliva,
    richiamo masticato, morsicato, sputato
    dove la città del mondo è più nera –
    come un graffio sul muro.

    La mia ruvida testimonianza.

    18-19 Novembre 2015

    L’immagine è di Eron

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