• Nichilismo ed “essere per la morte”: note a margine dell’eccidio di Bruxelles

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    di Gian Carlo Zanon

    Nichilismo ottocentesco, essere per la morte del nazista Heidegger

    e religioni salvifiche, che esaltano la vita oltre la morte,

    terrorismo jihadista, sono culturalmente correlati tra loro?

     

    In questi giorni, come dopo gli attentati di Parigi di novembre 2015, sono in molti a chiedersi a quale categoria di pensiero si riferiscano i terroristi per legittimare le loro azioni. Sono stati interrogati filosofi e antropologi, psicologi e religiosi monoteisti ed ognuno ha detto la sua.

    Per quanto ne so, quasi nessuno, tranne indirettamente Valentina Errante sul Messaggero di oggi, hanno pensato di rivolgersi a coloro che sono stati, o che ancora permangono, all’interno di quel buco nero che attira nel suo gorgo di morte migliaia di giovani soprattutto europei. Non chiediamo mai a loro quali siano i moventi ideologici che li spingono verso il “martirio”, verso la strage degli innocenti e, secondo loro, verso la gloria di un futuro dopo la morte condito di sesso con uno smisurato numero di vergini.

     

    Come scrisse il FattoQ qualche mese fa «Secondo Soufran Group, società di intelligence privata americana, in Siria e Iraq sono presenti tra i 27 e i 31mila combattenti stranieri, contro i 12mila di 18 mesi fa. I più numerosi sono i tunisini, seguiti da francesi, tedeschi britannici e belgi.» Il che significa che la maggioranza sono europei come gli attentatori di Bruxelles.

    Eppure indagare seriamente e senza tabù sulle motivazioni che spingono gli europei  di varia estrazione etnica e religiosa a radicalizzarsi nella fede fondamentalista gestita dalle menti pensanti dei jihadisti dello Stato islamico ci depurerebbe la mente da comode definizioni bergoglio-salvinistiche.

    In questi giorni, sollecitato da un amico che mi chiedeva quali fossero alfine quei contenuti della storia, che continuavo a sbandierare senza inserirli un determinato fatto storico, ho cercato di dare forma a  un pensiero verbale in grado di evidenziarli. I contenuti primi della storia, penso, siano i pensieri che animano e creano movimenti e comportamenti degli esseri umani che a loro volta generano gli accadimenti storici. Accadimenti che verranno narrati da chi scrive la storia e che verranno letti dalle generazioni future. Ma vi rendete conto – mi rivolgo a ipotetici lettori – della complessità della storia dal suo primo essere  pensiero a, passando in varie mani, a un futuro lettore che vivrà in un’altra epoca?

     

    Tornando al terrorismo, che dall’11 settembre 2001 in poi insanguina il mondo occidentale, penso di poter dire che lo storico scrupoloso dovrebbe narrare non solo gli accadimenti ma anche quale sia il movente dell’orrore che viene esportato nelle nostre contrade che pensavamo sicure al 99%.

    Certamente ascoltare dalla viva voce dei terroristi quale sia il movente che li spinge a questi comportamenti disumani non risolverà il problema terrorismo, ma almeno avremo tra le mani un’altra tessera di questo irrisolvibile puzzle. Ciò che crede il terrorista, il famoso paradiso delle vergini, non esiste, eppure questa credenza delirante è, se non l’unica, una parte importante di quel puzzle e di quella “molteplicità intenzionale” che arma le loro mani assassine e suicide. Ma potrei affermare che questo delirio sia la parte più sostanziale di questa storia? È il delirio religioso il contenuto di questa storia che verrà narrata ai posteri? E se non è questo qual è? E se è questo il contenuto di questa storia, il delirio fondamentalista dei terroristi suicidi di Parigi e Bruxelles è simile al delirio ideologico di Anders Behring Breivik che nel 2011 assassinò “per motivi politici” 77 giovani norvegesi?

    Difficile rispondere, impossibile eludere queste domande.

     

    Certamente, mentre quello di Breivik è da classificare come una malattia mentale gravissima generatasi nella mente del norvegese e l’impianto ideologico è servito solo per dare forma alla sua pazzia, il fenomeno del terrorismo “di radice islamica” che oggi si identifica con le sigle Is’, ISIS, e altre ancora, è molto ma molto più complesso e non penso si possa liquidare col “sono tutti schizofrenici”. Questo contenuto in questa narrazione non porterebbe a nulla. In questa storia ci sono mandanti occulti potentissimi, mandanti ideologici pronti a nascondere e proteggere i terroristi, ci sono reclutatori, tecnici di armamenti e di esplosivi, addestratori militari, iman che catechizzano ed infine, ultimi nella filiera dell’orrore, i martiri assassini e suicidi. Senza di loro, che sono l’anello più debole, il terrorismo non sarebbe possibile. Ed è a loro che ci si dovrebbe rivolgere perché loro sono malati e i malati si possono curare. Come? Per esempio eliminando dalla cultura, dalla nostra cultura, deliri post mortem, paradisi e inferni e tutto l’armamentario religioso cristiano con i suoi deliri metafisici. Servirebbe se non altro a generare nei cittadini mussulmani che credono nello stessa divinità monoteista un dubbio sull’esistenza dell’inesistente.

    In Italia ci sono tre pentiti della Jihad. Tre uomini, tunisini, che sono stati addestrati in Afghanistan. Ci sono finiti seguendo il protocollo di indottrinamento inventato da Al Qaeda e utilizzato oggi dall’ISIS. Tutti e tre sono venuti in Italia da laici e sono divenuti terroristi fondamentalisti. Uno di loro Jelassi Riadh, è il protagonista del libro «Il telefonista di Al Qaeda. La confessione del primo terrorista pentito della jihad in Italia», l’islamista pentito che ha raccontato la sua esperienza a Marcella Andreoli l’autrice del testo.  Trentenne di buona famiglia, poliglotta, arrivato a Milano si è trasformato in un anello importante di una rete estremista. «La morte è il nostro debole, – ha detto Riadh ai Ros – l’essere umano può arrivare alla tecnologia, è arrivato a sbarcare sulla luna, ma di fronte alla morte non c’è scampo. Loro puntano su questo punto debole, questa realtà! Renderti utile morendo, un contributo per salvarti, mica per me, per salvare te stesso, tanto sei morto ugualmente, questa filosofia è molto pericolosa, perché quando si parla di morte è pericoloso. Perché uno ha fatto degli anni di carcere, in mezzo alla strada a Milano, nevica, fa freddo, non ha da mangiare, non ha una coperta, rischia l’espulsione, nel suo Paese ha vent’anni di carcere da scontare, l’unica soluzione è morire! Se sei in quelle condizioni e ti parlano di Paradiso e di tutto ciò che è in Paradiso, è chiaro che tu dici io sono già morto, cioè, peggio di così non può capitarmi. E quindi ti piace l’idea. Ti lasciano fare la doccia, un pasto caldo e ripeti un altro giorno, un altro giorno, e qua viene inculcato il pensiero, in questo modo».

     

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    I reclutatori, invece si legge nelle informative del Ros «Non hanno un’estrazione povera e di emarginazione sociale ma al contrario provengono da contesti socio-familiari agiati ed elitari, hanno una ottima cultura universitaria e spesso esperienze belliche significative». Sono gli indottrinati come Riadh ad essere disperati. Quindi reclutabili.

    Ricorda Jelassi Riahd «Ci fanno il lavaggio di cervello. Ci sottopongono libri e video, poi c’è la loro filosofia che non ti lascia scampo. Ti fanno sembrare la vita un inferno. Non c’è via di uscita tranne che la morte. Ma tu puoi renderti utile morendo.»

    Ma quello che più colpisce, nei racconti di Riadh, è la capacità dei «cattivi maestri» di plagiare e trasformare in bombe umane ragazzi semplici, quelli che vivono ai margini della società. Quando il tunisino insieme ad altri due giovani venne presentato a un imam, di Milano, il reclutatore che li introdusse disse al religioso: «Questi tre fratelli non sanno, non hanno ancora capito. Bevono, fumano, frequentano le ragazze, vanno in discoteca. Sono degli animali».

    L’imam prima si mostrò comprensivo poi «cominciò a parlare del giorno del Giudizio, dei fiumi di latte e miele che percorrono il Paradiso, del putridume che è l’ Inferno in cui saremmo precipitati se avessimo continuato sulla via della perdizione». «Parlava lentamente – ricorda Riadh – ma le parole erano come proiettili».

    Poi seguì il lavaggio del cervello anche per mezzo di videocassette truculente e sermoni che seguivano per legittimare atti orrendi. La rabbia, l’odio, e lo spirito di rivincita  spinge molti “Jelassi” a seguire la via dello shahid, del martire. «I veri mujaheddin non devono coltivare pensieri se non quello di fare i kamikaze».

    E forse allora qualche nesso con questo delirio del kamikaze in versione ISIS lo possiamo trovare nella filosofia dell’essere per la morte di quel nazista di Heidegger e in tutte quelle religioni che spingono gli essere umani a non realizzare la propria nascita perché quella, secondo i deliri religiosi, non rappresenta l’inizio della vita umana ma solo una miserrima tappa verso la vera realizzazione dell’autenticità dell’essere raggiungibile solo con la morte.

    24 marzo 2016

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