• Migranti: gli zombies del terzo millennio, ovvero: la lunga notte dei “vivi morenti”

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    di Giulia De Baudi

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    «Una quantità sempre crescente  di essere umani non è già più necessaria al piccolo numero che, plasmando l’economia, detiene il potere. Una folla di esseri umani si ritrova così, secondo la logica imperante, senza una ragionevole ragione di vita in questo mondo dove sono comunque nati. Per ottenere la facoltà di vivere, per averne i mezzi, dovrebbero poter rispondere ai bisogni delle reti che governano il pianeta, a quella dei mercati. Il fatto è che i mercati non rispondono più alla loro presenza e non hanno bisogno di loro. O di pochissimi e di sempre meno di loro. La loro vita non è più “legittima” ma solo tollerata. Fastidiosa…».

    Viviane Forrester, L’orrore economico, 1997.

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    Eppure – chissà – là dove qualcuno/resiste senza speranza,/è forse là che inizia la storia umana,/come la chiamano,/e la bellezza dell’uomo.

    Ghiannis Ritsos

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    Da tempo, immemorabile ormai, vado pensando che le opere letterarie “distopiche”, come, per esempio, 1984 di George Orwell (1949) oppure Brave New World di Aldous Huxley (1932),  ma anche Il paese dei ciechi di H. G. Wells – che anticipa Cecità di José Saramago – disegnino, forse molto più perfettamente di quanto avessero pensato gli stessi autori, la realtà presente e futura.

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    La narrativa horror con i suoi incubi ha percorso una strada parallela al romanzo distopico aggiungendo ai luoghi romanzeschi disumani e/o disumanizzati ciò che Kurz, il protagonista del romanzo di Joseph Conrad “Heart of Darkness, evoca nel suo ultimo delirio con le parole: «The horror! The horror!».

    L’articolo determinativo “The” sottolinea la concretezza materiale dell’orrore. L’orrore del qui e ora, non è solo una sensazione di ripulsa di fronte ad un inumano presente ma invisibile, qui e ora è anche materia percepibile ai cinque sensi. Basta affacciarsi alla scena politica per capire ciò che sto scrivendo.

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    La globalizzazione ha globalizzato anche l’orrore ed è l’intera società mondiale ad esserne stata contaminata. La “realtà distopica” non è quindi confinata in un luogo maledetto come accade in 1984 o nel romanzo citato di Wells. Le metastasi dell’orrore sociale sono giunte all’interno delle foreste pluviali brasiliane, nella Inner Mongolia cinese, nelle terre sub-sahariane devastate del land grabbing vale a dire dal massiccio accaparramento delle terre agricole, delle riserve idriche ecc. ecc..

    Il fenomeno della migrazione verso i paesi occidentali che in questi ultimi tempi ha avuto senza alcun dubbio un incremento notevole, è solo un sintomo della distopia  globalizzata da cui si cerca, legittimamente, di salvarsi. Il Völkerwanderung (migrazioni di popoli) del terzo millennio, nella  percezione sociale indotta dagli informatori mediatici, assomiglia sempre più a quelle spostamenti di popoli che travolsero l’impero romano in disfacimento creando quelli che poi gli storici cristiani hanno definito “i secoli bui”.

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    Ma il problema della distopia reale globalizzata, intesa come il contrario di utopia/buon-luogo, è complesso e quindi devo giocoforza buttar giù solo delle tracce che portano a molteplici itinerari horror.

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    Rimango quindi nel già talassa àpeiron (mare infinito) della letteratura e della fiction cinematografica, perché i sintomi dell’orrore prossimo futuro che ora avvertiamo con i cinque sensi furono avvertiti, fantasticati, o se preferite  diagnosticati precocemente da alcuni visionari: Wells, Huxley, Orwell, Bradbury, (Arancia Meccanica) ecc. ecc..

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    Ma anche qui rischio di fare solo uno sterile elenco di romanzi e film distopici come Mad Max di George Miller, (1979); Fuga da New York di John Carpenter (1981); Terminator di James Cameron (1984); ancora Arancia Meccanica (1971) e 2001 Odissea nello spazio messi in scena da Kubrick; Brazil di Terry Gilliam, (1985), Rollerball di Norman Jewison, (1975); Zardoz di John Boorman (1974); ecc. ecc..

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    Ma tradirei il mio tempo che avevo pensato di dedicare a un tema molto più specifico che è solo una porzione del problema “società distopica globalizzata” che disumanizza e che produce qualcosa che il genere horror ha definito non-morti, morti viventi, vampiri, zombies.

    Mi fermo a quest’ultima parola zombie. Lo zombie non dovrebbe essere interpretato attingendo al celeberrimo film di Romero. Se evoco la figura dello zombie nominandolo, l’immagine che mi appare è quella di un uomo disumanizzato, senza un’identità umana propria che lo leghi affettivamente all’altro da sé e allo stesso tempo lo contraddistingua dall’altro da sé è.  Ma la parola ha assunto da tempo una quantità notevole di significati.

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    La parola inglese zombie, o in creolo haitiano zonbi è un termine verbale  di origine haitiana, legato alla tradizione magica-religiosa vudù in cui si pratica la cosiddetta separazione dello spirito dal corpo. Spirito che poi sarebbe libero di vagare e di entrare ed uscire da altri corpi.

    Quindi la parola che appare per la prima volta in letteratura nel 1684 nel racconto esotico di Paul-Alexis Blessebois, Le Zombi du Grand-Pérou ou la Comtesse de Cocagne, è un termine usato per definire un’esistenza immateriale, un’anima uscita da un corpo. Pare che il vocabolo tragga origine da una contrazione creola dal francese “les hombres”, (le ombre); ma potrebbe essere anche una corruzione del congolese nsumbi, spirito maligno, diavolo.

    Quindi il vocabolo zombi o nella grafia inglese che ho adottato, zombie, oppure in creolo haitiano zonbi, è di origine haitiana, legato quindi alla tradizione magica vudù praticato in principio ad Haiti e nelle isole limitrofe dove i nativi Arawaks, sterminati dagli spagnoli, furono sostituiti da schiavi senegalesi che portarono narrazioni sulla rianimazione dei morti.

    Ma fu il breve racconto del giornalista americano William A. SeabrookGli zombi ovvero i morti che lavorano – estratto da The magic Island (1929) – a definire una caratteristica essenziale dello zombie: «Lo zombi non ha alcuna personalità, è solo un braccio guidato da una mente che gli è estranea: la produzione degli zombi in genere è di serie.» Questo è quanto scriveva Ornella Volta nella prefazione del capitolo Lo zombi inserito nel volume Frankenstein & Company, di cui era la curatrice. Il libro editato nel 1965 raccoglie tutti i prototipi della letteratura fantasy-horror – e tutta la bibliografia e la filmografia del genere fino alla data della sua edizione.

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    Il film di George A. Romero  La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead) essendo del 1968 non è contemplato nella filmografia del volume citato e cambia radicalmente il senso dato fino al 1965, ancora col film di John Gilling (The plague of the Zombies) a questa figura appartenente al genere fantasy-horror.

    Nel film di Romero lo zombie non è più un morto resuscitato allo scopo di farlo lavorare come schiavo al magico comando del capobastone o dal caporale di turno, il suo stato di morto-vivente è invece causato dalle radiazioni emesse da una sonda tornata da Venere. In questo film i morti  risorgendo devono coattivamente nutrirsi di carne umana dei vivi, che contagiano, causando così una reazione a catena. Questi cadaveri deambulanti possono essere uccisi solo colpendoli in testa, perché è questa la parte riattivata dalla malattia misteriosa. Cosa che avverrà alla fine del film.

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    … no cari miei, non mi sono incartata … basta fare alcuni splendidi nessi ed esco salva dal gomitolo di pensieri in cui mi sono volontariamente infilata … ci provo.

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    Il primo è nesso con articolo di Giulia D’Agnolo Vallan , Romero e la rivoluzione dei morti viventi, apparso su Il manifesto il 18 luglio scorso in occasione della morte del cineasta americano. (leggi qui) .

    In questo suo articolo G. D. A. Vallan scrive  «Se Romero ha liberato l’horror Usa dalla tradizione gotica europea reinventandolo completamente e lanciandone il grande revival degli anni ‘70, allo stesso tempo la sua formazione e il suo immaginario affondano le loro radici nella cultura, nei miti e nel cinema del Vecchio Mondo. Dietro all’uso del genere nella sua dimensione più esplicita di denuncia politico/sociale, nell’opera di Romero si nasconde una ricerca morale molto più complessa, appassionata e irrisolta.»

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    Il secondo ponte sinaptico mi si è creato nella mente leggendo una intervista (leggi qui) a George Andrew Romero in cui per rispondere a una domanda demenziale «I suoi zombi sono religiosi?» dice: «Gli zombi sono religiosi se per religioso intendiamo un manipolo che combatte per la sopravvivenza, spinto dalla fame e dal risarcimento dei diritti civili. (…) Ed ora il Confine potrebbe estendersi. Due settimane fa sono stato in Messico e un amico mi ha messo la pulce nell’orecchio: perché non realizzare un film con protagonisti alcuni zombi messicani? La Frontiera è un concetto assai proteiforme, d’altronde.»

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    Ed ecco lì che Romero torna al significato primario del termine verbale zombie. Il vocabolo in questione come abbiamo visto è polisemantico e quindi lo posso usare in vari modo.

    Per esempio oggi molti italioti, presi per la manina da politici e che parlano di “razza italiana” e di “aiutiamoli a casa loro”,  potrebbero definire zombies, come suggerito da Romero, i migranti messicani, asiatici, africani, intendo quei “vivi morenti” che avanzano incuranti della strage fisica che li accompagna nel loro cammino. Parlo di “quelle ombre” senza nome spinte da una forza indomabile che li costringe alla disumanizzazione nelle mani del caporalato per molti uomini e nelle reti della criminalità organizzata, che guida la prostituzione, per molte donne.

    I migranti non assomigliano forse, nella mente bacata di una buona parte di italioti, degli esseri antropofagi pronti a divorarci e ad abusare delle “nostre donne”? E poco importa se sono gli stessi italioti che in realtà abusano delle donne straniere e che, pagando l’orrore, si mettono a posto la coscienza. I migranti, per queste persone dalla mente scissa, sono a tutti gli effetti degli zombie del terzo millennio venuti a mangiarci vivi. In quell’immaginario, onnipresente e delirante, questi individui dalla pelle diversa, vestiti di stracci, maleodoranti, come nel film di Romero, deambulano in “modo strano” e, vivacchiando, calpestano le patrie piazze col telefonino in mano, bighellonano a nostre spese, terrorizzano gli italioti che per nascondere l’odio per il diverso da sé utilizzano il vocabolo xenofobia. Ma forse sarebbe il caso di usare il termine misoxenia che spiega meglio il sentimento di odio verso chi viene in modo delirante percepito come diverso da sé, come uno zombie da eliminare sparandogli in testa .. perché è lì che vive il pensiero diverso. (leggi qui)

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    E purtroppo ciò che ho narrato non è la trama di un ennesimo film horror sugli zombies … è la percezione delirante divenuta certezza politica della stragrande maggioranza degli italiani e degli europei, che vivono il delirio di essere mangiati crudi dai “vivi morenti” che avanzano, avanzano, avanzano … avanzano.

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    26/28 luglio 2017

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