• Metzengerstein – E. A. Poe – testo completo

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     E. A. Poe

     

    Pestis eram vivus – moriens tua mors ero.

    Peste ero da vivo, morendo diverrò la tua morte

    Martin Lutero

     

    Il tempo e la terra sono il regno dell’orrore e della fatalità.

     

    Per questo non darò una data alla storia che mi accingo a narrare. Dirò solo che all’epoca di cui parlo, nel cuore dell’Ungheria fioriva con radice profonda, ma nel segreto delle sètte, la credenza nelle dottrine della metempsicosi.

    Relativamente all’essenza di queste dottrine, cioè alla loro falsità o attendibilità, non dirò nulla. Afferrmo, tuttavia, che gran parte della nostra incredulità (come dice La Bruyère* di tutta la nostra infelicita) “víent de ne pouvoir ètre seuls.”(1)

    Ma la superstizione ungherese in alcuni punti rasentava paurosamente l’assurdo. Gli ungheresi divergevano sostanzialmente dalle loro autorità orientali. Cito un esempio, “L’âme” dicevano i primi (riporto qui le parole di un acuto e intelligente studioso parigino), “ne demeure qu’une seule fois dans un corps sensible: au reste, un cheval, un chíen, un homme même, n’est que la rassemblance peu tangible de ces animaux.”

     

    Una rivalità secolare divideva i Berlifitzing dai Metzengerstein.

    Mai, a memoria d’uomo, due caste così illustri si erano esasperate a vicenda in una ostilità tanto feroce. L’origine di questa inimicizia pare si debba ricercare in una antica profezia che dice: “Quando la mortalità dei Metzengerstein trionferà fatalmente sull’immortalità di Berlifitzing, così come il cavaliere trionfa sul suo cavallo, spaventosa sarà la  fatale caduta di un grande nome.

     

    Senza dubbio, le parole in se stesse avevano poco o nessun significato. Ma cause più volgari hanno dato origine, e non molto tempo addietro, a effetti ugualmente sensazionali. Inoltre i due feudi, che erano contigui, avevano a lungo gareggiato nel far sentire il loro peso determinante negli affari di un governo pieno d’intrighi. Si aggiunga che raramente i vicini sono amici; e gli abitanti del castello di Berlifitzing dai loro possenti contrafforti potevano guardare nelle finestre stesse del palano Metzengerstein. Meno che mai la magnificenza più che feudale dei Metzengerstein avrebbe potuto placare i sentimenti irritabili dei meno antichi e meno ricchi  Berlifitzing. Non c’è da stupirsi, dunque, se le parole della profezia, per quanto ingenue, erano riuscite a far sorgere e a mantenere in vita l’ostilità di due famiglie già istigate all’odio e alla contesa dalla loro stessa gelosia ereditaria.

     

    La profezia sembrava che alludesse, se a qualche cosa alludeva, al trionfo finale della casata più potente e, appunto per questo, veniva ricordata col più amaro rancore da quella meno potente e meno autorevole.

    Wilhelm, conte di Berlifitzing, nonostante la sua nobiltà era, all’epoca di questo racconto, un vecchio infermo e rimbambito, non per altro insigne che per una sfrenata e incallita antipatia verso la famiglia del suo rivale, e per una così forte passione dei cavalli e della caccia, che, a scorno dei suoi acciacchi, della sua vecchiaia, della sua imbecillità, affrontava ogni giorno i pericoli delle battute.

     

    Frederick, barone di Metzengerstein, era invece ancora minorenne. Suo padre, il ministro G., era morto in giovane età. Sua madre, Lady Mary, lo aveva seguito a breve distanza. A quell’epoca Frederick aveva diciotto anni. In una città, diciotto anni non sono un lungo periodo, ma nella solitudine, in una solitudine così splendida come quella di un vecchio principato, il pendolo oscilla con un senso più profondo.

     

    Per alcune circostanze particolari in cui si trovava l’amministrazione dei beni paterni, il giovane barone, alla morte del predecessore, entrò immediatamente in possesso dei vasti domini. Raramente, prima di lui, un nobile ungherese aveva posseduto un così vasto patrimonio. I suoi castelli erano innumerevoli. Il più grande, il più splendido era il Palazzo Metzengerstein. Il confine dei suoi domini non era mai stato chiaramente definito, ma il suo parco principale aveva un perimetro di novanta chilometri.

     

     

     

    Poche furono le congetture che si potevano fare sulla probabile condotta del successore, così giovane, con un’indole così ben conosciuta, così incomparabilmente ricco. Per tre giorni infatti, il giovane erede, superando le speranze dei suoi più fanatici ammiratori, vinse in dissolutezza e crudeltà Erode. Turpi baccanali, scandalose perfidie, inaudite atrocità fecero immediatamente capire ai suoi inquieti vassalli che nessuna servile sottomissione da parte loro, né alcuno scrupolo di coscienza da parte sua avrebbe d’allora in poi potuto difenderli dalle crudeli zanne dì quel piccolo Caligola.

    La notte del quarto giorno si videro bruciare le scuderie del castello di Berlifitzing e il vicinato fu tutto unanime nell’aggiungere quel delitto al già spaventoso elenco delle scelleratezze e delle atrocità del barone.

    Ma, durante il tumulto causato dall’incendio, il giovane aristocratico se ne stava seduto in un salone deserto al piano superiore dell’avito palazzo dei Metzengerstein, e sembrava sprofondato in meditazione. Pendevano dalle pareti arazzi magnifici, ma sbiaditi dal tempo, lugubremente oscillanti, che raffiguravano in forme vaghe e maestose un migliaio d’illustri antenati. Qui, preti e dignitari pontifici, in lussuoso ermellino, seduti familiarmente con l’autocrate e il sovrano, oppongono il veto agli ambiziosi disegni di un re temporale, o frenano con il fiat dell’imperio papale lo scettro ribelle dell’Arcinemico.

    Lì, i principi Metzengerstein, cupi, alti, con i loro muscolosi destrieri spronati al galoppo sui corpi dei nemici caduti, turbavano i nervi piú solidi per la loro espressione vigorosa. E qui, ancora, dame del passato, dalle figure voluttuose e snelle come cigni, sfiorano il suolo negli arabeschi di una danza irreale, accompagnata da una immaginaria melodia.

     

    Il barone ascoltava, o fingeva di ascoltare, lo strepito che veniva a mano a mano crescendo dalle scuderie dei Berlifitzing.

    O forse macchinava qualche atto di audacia più nuovo e più deciso. A un tratto i suoi occhi si posarono istintivamente sulla figura di un enorme cavallo, dal manto di un colore innaturale, raffigurato sull’arazzo come appartenente a un antenato saraceno della famiglia del suo rivale. Immobile come una statua, spiccava in primo piano il cavallo; poco più indietro il suo cavaliere, abbattuto, veniva finito dalla daga di un Metzengerstein.

    Sulle labbra di Frederick affiorò un’espressione diabolica, appena si accorse dell’oggetto, sul quale i suoi occhi si erano inconsciamente posati. Tuttavia non li distolse di lì. Anzi, non seppe darsi ragione della opprimente ansietà che sembrava calare come un drappo funebre sopra i suoi sensi.

     

    Gli fu , difficile conciliare le sue illogiche sensazioni di sogno. Con la certezza di essere sveglio. Quanto più fissava la scena, tanto più la magia lo incantava e tanto più gli sembrava impossibile sottrarre lo sguardo dal fascino che emanava da quell’arazzo.

     

     

    Improvvisamente fuori del palazzo crebbe la violenza del tumulto. Allora con uno sforzo si volse a guardare i bagliori di luce rossastra che le scuderie in fiamme riverberavano sulle finestre del salone.

    Ma durò poco: il suo sguardo, infatti, ritornò meccanicamente alla parete. E qui stupì, inorridì. La testa del gigantesco destriero aveva mutato posizione. Il collo dell’animale, dapprima curvato, come per compassione, sul corpo abbattuto del suo signore, si era ora proteso in tutta la sua lunghezza verso il barone. Gli occhi dapprima invisibili, spiravano energia e umanità, accesi di un rosso infuocato e insolito, e nella bocca digrignante del cavallo, che sembrava infuriato, spiccavano, sepolcrali e ripugnanti, i denti.

    Inebetito dal terrore, il giovane gentiluomo corse vacillando alla porta. L’aprì, e un fascio di luce rossastra, che invase la sala, mandò la sua ombra a disegnarsi nettamente sull’arazzo, che ne rabbrividì. Esitò un istante sulla soglia. Barcollò. E con un fremito vide l’ombra coincidere perfettamente con la figura dello spietato e trionfante uccisore del saraceno Berlifitzing.

     

    Per liberarsi da quest’incubo, il barone si precipitò all’aria aperta. Sull’entrata principale del palazzo s’imbatté in tre scudieri, che, a stento e a rischio della loro vita, cercavano di frenare gl’impeti convulsi di un gigantesco cavallo rosso come il fuoco. – “Di chi è questo cavallo? Dove l’avete preso?” domandò il giovane con voce inasprita dalla collera, appena si accorse che la bestia selvaggia che gli stava dinanzi era la copia perfetta del misterioso destriero dell’arazzo.

    “È vostro, signore, –  rispose uno degli scudieri –  almeno nessun altro proprietario lo reclama. Lo abbiamo catturato mentre fuggiva, tutto fumante e schiumante di rabbia, dalle scuderie in fiamme del castello di Berlifitzing.  Abbiamo pensato che appartenesse all’allevamento di cavalli stranieri del vecchio conte e che si fosse smarrito, e così l’abbiamo riportato al castello, ma lì gli stallieri ci hanno detto di non avere alcun diritto sul cavallo; e questo è strano, perché la bestia porta, segni evidenti di essere sfuggito a stento alle fiamme.”

    “Inoltre, sulla fronte porta impresse a fuoco le lettere W.V.S.”  interruppe un altro stalliere; “e ho supposto, naturalmente, che fosse la sigla di Wilhelm von Berlifitzing, benché al castello neghino assolutamente di conoscere il cavallo”.

     “Strano, molto strano!” disse il giovane barone con un’aria assorta, e visibilmente ignaro del significato delle sue parole. “Un magnifico cavallo davvero! Un cavallo straordinario! Non sbagliate affatto, sebbene, come voi vedete, sia ombroso e intrattabile.” E dopo una pausa soggiunse: “Ebbene, lo terrò io. Forse un cavaliere come Frederick di Metzengerstein può domare perfino il diavolo, se mai uscisse dalle scuderie di Berlifitzing”.

    “Sbagliate, mio signore; questo cavallo non proviene dalle scuderie del conte e credo che ve lo abbiamo già detto, perché, in un caso simile, noi sappiamo troppo bene il nostro dovere per portarlo alla presenza di un nobile della vostra famiglia.”

    “Vero!” osservò il barone, seccamente, nel momento stesso in cui un giovane cameriere, a passi precipitosi e rosso in viso, giungeva dal palazzo. Costui bisbigliò all’orecchio del padrone, entrando nello stesso. tempo in particolari minuziosi e circonstanziati, che era misteriosamente scomparso dal salone, che indicò, un piccolo pezzo dell’arazzo, senza che una sillaba di quello che riferiva trapelasse a soddisfare l’eccitata curiosità degli scudieri, tanto era basso il tono della sua voce.

     

    Una ridda di emozioni sconvolse visibilmente l’animo di Frederick a quella notizia. Tuttavia, si ricompose subito e diede l’ordine categorico di serrare immediatamente il salone, e di portargli immediatamente la chiave. Sul suo volto era apparsa un’espressione di malvagia risolutezza.

     

    “Avete udito della brutta morte del vecchio cacciatore Berlifitzing?” disse uno dei vassalli al barone, dopo che il cameriere se ne fu andato. L’enorme cavallo, che il signore aveva fatto proprio, si avventava e s’impennava con raddoppiato furore pei il lungo viale che dal palazzo portava alle scuderie dei Metzengerstein.

    “No!” disse il barone volgendosi bruscamente all’interlocutore. “Morto, hai detto?”

    “Si!, Mio signore , e a un pari vostro immagino che questa notizia non giungerà sgradita”

    Un sorriso guizzò sul volto di chi lo ascoltava.

    “Com’è morto?”

    “Mentre tentava temerariamente di salvare i suoi cavalli da caccia favoriti, è miseramente perito tra le fiamme”.

    “V-e-r-a-m-e-n-t-e!” esclamò il barone, come se si lasciasse impressionare lentamente e deliberatamente dalla verità di un’idea eccitante.

    “Veramente!” ripeté il vassallo.

    “Orribile!” disse il giovane con calma e ritornò senza battere ciglio al palazzo.

     

    Da quel giorno qualcosa mutò sensibilmente nella condotta esteriore del corrotto giovane barone F.V.M. Infatti, il suo modo di comportarsi deludeva ogni speranza, e sconcertava i disegni di molte mamme intriganti. Le sue abitudini e le sue maniere piú che mai urtavano la suscettibilità della aristocrazia. Nessuno più lo vedeva fuori dei suoi domini, e nel, suo mondo, il vasto mondo della società, viveva completamente senza amici, solo, a meno che quel cavallo soprannaturale, impetuoso, color del fuoco, che egli da allora in poi continuamente cavalcava, non avesse misteriosamente diritto al titolo di amico.

    Tuttavia, per un lungo periodo ricevette numerosi inviti da parte dei suoi vicini. “Vorrà il barone onorare la nostra festa con la sua presenza?” “Vorrà il barone unirsi a noi nella caccia al cinghiale?” “Metzengerstein non va a caccia, Metzengerstein non accetta,” erano le superbe e laconiche risposte.

    Un’orgogliosa aristocrazia non poteva tollerare questi ripetuti insulti. E così gl’inviti si fecero meno cordiali, meno frequenti, infine cessarono del tutto. La vedova dello sfortunato. conte Berlifitzing fu perfino udita esprimere il voto che “il barone restasse a casa quando non desiderava starci, dal momento che fuggiva la compagnia dei suoi simili, e cavalcasse quando non desiderava cavalcare, poiché preferiva la compagnia di un cavallo.”

     

     

    Questo in verità era lo sfogo puerile di un rancore ereditario e dimostrava semplicemente come le nostre parole possano divenire stranamente insignificanti, quando desideriamo essere energici in modo particolare.

    Tuttavia, le persone caritatevoli attribuivano il mutamento della condotta del giovane signore al naturale dolore di un figlio per la perdita prematura dei genitori, dimenticando, però, il suo comportamento atroce e avventato del breve periodo immediatamente successivo a quella perdita.

     

    C’erano alcuni, infatti, i quali dicevano che si era fatta un’idea troppo arrogante della propria importanza e della propria dignità. Altri ancora (e fra questi bisogna ricordare il medico di famiglia), non esitarono a parlare di malinconia morbosa e di malattie ereditarie. Invece fra il popolo correvano oscure allusioni di natura più equivoca.

     

    In realtà, l’irragionevole attaccamento del barone alla sua cavalcatura, – attaccamento che ogni nuova manifestazione dell’indole feroce e demoniaca dell’animale sembrava rendere più morboso, – alla fine divenne, agli occhi di tutte le persone ragionevoli, una passione terribile e contro natura.

    Nel bagliore del mezzogiorno, nel cuore della notte, ammalato o sano, nel sereno o nella tempesta, il giovane Metzengerstein sembrava inchiodato alla sella di quel cavallo gigantesco, la cui indocile audacia si accordava così bene al suo spirito.

     

    Inoltre, agli ultimi avvenimenti si erano aggiunte alcune circostanze che diedero un carattere soprannaturale e prodigioso alla mania del cavaliere e ai poteri del cavallo. Era stato accuratamente misurato lo spazio che il cavallo copriva con un salto, e si trovò che superava, con una differenza da far sbalordire, le più esagerate supposizioni delle menti più esaltate. Il barone, poi, che pure aveva assegnato ad ogni suo cavallo un nome caratteristico, non ne aveva nessuno per l’animale. La stalla era isolata dal resto delle scuderie, e nessuno, tranne il padrone in persona, aveva avuto il coraggio, non dico di badare alla cura e al governo del cavallo, ma addirittura di entrare nel recinto della sua stalla. Si notò inoltre che i tre stallieri, che avevano catturato il cavallo in fuga dalle scuderie in fiamme di Berlifitzing, erano riusciti, si ,a bloccare la sua corsa imbrigliandolo con catene e nodi scorsoi, ma nessuno dei tre poteva affermare di aver realmente messo una mano sul corpo dell’animale, sia durante quella pericolosa lotta che in qualsiasi altro momento.

     

    La singolare intelligenza di un cavallo nobile e focoso non manca talvolta di suscitare nella gente un interesse ragionevole, ma questo cavallo impressionò, in certe strane circostanze, perfino i più scettici e i più flemmatici. Si dice che ci furono delle volte in cui la gente, che stava stupita intorno all’animale, fosse indietreggiata per l’orrore che suscita il cupo e impressionante significato del suo terribile scalpitio; e delle volte in cui il rapido sguardo del suo occhio umano, che sembrava frugare nell’anima, avesse fatto impallidire e fuggir via il giovane Metzengerstein.

     

     

    Tuttavia, quella fanatica e straordinaria passione del giovane barone per le ardenti qualità del suo cavallo non fu mai messa in dubbio da nessuno dei suoi cortigiani. Soltanto un piccolo paggio insignificante e deforme, le cui deformità, sempre sotto gli occhi di tutti, erano più interessanti delle sue opinioni, aveva (se vale la pena di tener conto delle sue idee) la sfrontatezza di dire che il suo padrone non era mai salito in arcioni senza brivido inesplicabile e quasi impercettibile, e che, al ritorno da ogni sua lunga e abituale cavalcata, un’espressione di malignità trionfante deformava i muscoli della sua faccia.

     

    Una notte di tempesta, Metzengerstein si svegliò di soprassalto da un sonno pesante, scese some impazzito dalla sua stanza, balzò in sella con furia infernale, spronò e scomparve nel groviglio della foresta. Queste sue partenze passavano inosservate, tanto erano comuni, ma quella notte il suo rientro fu atteso con grande ansietà dai suoi servi, quando, dopo alcune ore di assenza, si videro le mirabili e magnifiche mura merlate del palazzo Metzengerstein sussultare e fendersicon paurosi scricchiolii fin dalle fondamenta, sotto l’azione di una densa e livida massa di fuoco indomabile.

     

    Quando l’incendio fu scoperto, le fiamme avevano ormai raggiunto una violenza così terribile, che tutti gli sforzi per salvare una qualunque parte dell’edificio apparvero inutili, e i vicini, presi alla sprovvista, se ne stavano intorno inerti, silenziosi, sbalorditi. A un tratto, però, l’attenzione dellamoltitudine fu distolta e inchiodata da un fatto nuovo e spaventoso, che dimostrò quanto la folla sia più intensamente eccitata dalla visione dell’agonia umana che dal più spaventoso spettacolo della materia inanimata.

     

     

    Per il lungo viale di annose querce che portava dalla foresta all’entrata principale del palazzo Metzengerstein, fu visto un cavallo con in groppa un cavaliere coi capelli al vento e gli abiti in disordine, venir di gran carriera con un impeto che superava l’impeto stesso del Demone della Tempesta.

    Il cavallo, era evidente, non ubbidiva più al morso. Gli sforzi del cavaliere erano sovraumani, lo si vedeva dall’espressione angosciata della sua faccia e dal tendersi convulso delle sue membra. Nessun suono gli sfuggì dalle labbra lacerate che nella stretta del terrore si mordeva sempre più,

    all’infuori di un grido solitario. Fu un attimo, e sul ruggito delle fiamme e l’ululo dei venti si alzò altissimo e acuto il suono martellante degli zoccoli. Un attimo ancora e, scavalcando con un balzo solo la porta e il fossato, il cavallo si avventò su per le scale del palazzo, che ormai rovinavano, e sparì col suo cavaliere nell’inferno di fuoco.

     

    In quel preciso istante cadde la furia della tempesta e seguì una calma di morte. Una fiamma bianca come un sudario avvolse l’edificio, e, alzandosi alta nella quieta atmosfera, irradiò lontano un bagliore soprannaturale, e una nuvola di fumo gravò sopra i bastioni nella forma distintae gigantesca di un cavallo.

     

     

    Metzengerstein è un racconto di Edgar Allan Poe. Fu pubblicato la prima volta a Filadelfia sul Saturday Courier nel 1832.

    (1) “deriva dal fatto che non possiamo  pensare di essere soli”

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