• Loretta Emiri – Toki l’immortale

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    13007375_494840370702534_7571605380594715343_nLoretta e Toki nell’area yanomami dell’Ajarani

    Toki dei sopravvissuti *

    Loretta Emiri **

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                Attraverso internet e facebook, da alcuni mesi arrivano fino a Fiammetta buone notizie riguardanti gli yanomami dell’Ajarani. Ha saputo della loro lotta per la riconquista della terra, dell’espulsione degli invasori, della consulenza che ricevono da parte di competenti membri dell’Istituto Socio-Ambientale, del rafforzamento dell’autostima dovuto anche alla realizzazione nella propria comunità di eventi importanti come l’Incontro di Sciamani del novembre 2013. Inoltre, ha saputo che a loro sarebbe stato dedicato il capitolo di una dissertazione. Volendo dare il suo contributo nella nuova fase congiunturale, Fiammetta ha deciso di addentrarsi nella foresta del suo archivio. Individuata una cartellina ingiallitasi nel corso di trent’anni, per niente facile le è stato fronteggiare le emozioni provocate dalla lettura dei materiali in essa contenuti. Ha trasferito nel computer tutto ciò che ha ritrovato: documenti divulgati all’epoca della stesura, note scritte durante un soggiorno nell’area e puntigliosamente riorganizzate, considerazioni provocate dalla rilettura dei materiali. Risultato finale è stato un dossier che si è affrettata a far pervenire all’autrice della dissertazione, agli yanommai dell’Ajarani, ai leader e associazioni di altre aree yanomami, agli alleati su cui gli indios possono contare a livello regionale e nazionale. Tra le motivazioni che l’hanno spinta a organizzare il dossier, la più viscerale riguarda la speranza che anche attraverso il suo lavoro i giovani yanomami dell’Ajarani accedano e recuperino un pezzetto della tanto sofferta storia dei loro vecchi.

    Fiammetta arrivò tra gli yanomami nel novembre del 1977, quando già erano stati raggiunti da molte disgrazie. Nel 1930, utilizzando mano d’opera indigena, alcuni raccoglitori di caucciù avevano esplorato il bacino del medio fiume Catrimâni; durante una festa avevano ucciso alcuni yanomami ed erano fuggiti. Tra il 1950 e il 1960, gli yanomami conosciuti come yawári, che abitavano nell’alto fiume Pacu, erano stati decimati nel contatto con avventurieri che percorrevano la regione; i componenti del villaggio Hawarihipi erano stati sterminati da varie epidemie introdotte da raccoglitori di caucciù e avventurieri infiltratisi nel basso fiume Catrimâni; sempre in questa epoca si erano verificati i primi casi di tubercolosi. Nel 1974, la strada Perimetrale Nord, che avrebbe dovuto congiungere il Brasile alla Colombia, aveva tagliato a sud il territorio yanomami; le equipe di disboscamento, assunte senza nessun controllo sanitario, erano penetrate massicciamente nella regione portando con sé epidemie di influenza e morbillo, mortali per gli indios; nella regione del torrente Repartimento e fiumi Ajarani e Pacu, il contatto con i lavoratori della strada aveva causato la morte di numerosi indigeni, riducendo tredici villaggi a otto piccoli gruppi di famiglie. Nel 1975, dopo la pubblicazione delle ricerche geologiche del Progetto Radambrasil, nel territorio yanomami avevano cominciato ad infiltrarsi cercatori d’oro e compagnie minerarie e di prospezione. Nel 1977, la seconda epidemia di morbillo dall’arrivo della strada aveva ucciso sessantotto persone, cioè la metà della popolazione dei villaggi Manihipi, Uxiu e Iropi; in quello stesso anno, aree tradizionalmente occupate dagli yanomami erano state incluse nel progetto di colonizzazione chiamato Distretto Agro-Zootecnico di Roraima. Attratti dalle novità e dai beni materiali della società occidentale, uomini di tutti i gruppi locali avevano intensificato le visite a fattorie e segherie spuntate lungo la strada, spingendosi fino alla città di Caracaraí. Alcune volte si erano mossi gruppi interi, con donne e bambini; il risultato era sempre lo stesso: venivano imbrogliati nelle loro transazioni commerciali; ottenevano indumenti usati, contaminati, che trasmettevano loro malattie della pelle; tornavano a casa con l’influenza, che rapidamente raggiungeva tutti i villaggi.

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    Per arrivare al Catrimâni, dove all’epoca operava, si passava attraverso l’area dell’Ajarani. A Fiammetta si stringeva il cuore quando, dalla vettura su cui viaggiava, scorgeva individui o piccoli gruppi di yawári. Alteri, ben nutriti, sempre dipinti e ornati gli yanomami del Catrimâni; mendicanti, coperti di stracci, malaticci gli yanomami dell’Ajarani. Ma solo qualche anno dopo avrebbe avuto piena coscienza delle condizioni dei sopravvissuti delle comunità yanomami sacrificate in olocausto in nome del progresso. Ho iniziato a scrivere questo brano dopo aver letto che l’ultimo dei coloni abusivi è stato espulso. Per giungere a questa vittoria, gli yanomami dell’Ajarani hanno dovuto aspettare ventidue anni dall’omologazione della Terra Indigena Yanomami. È tempo di festeggiare. Lo faccio ricordando una donna che, analfabeta, ha scritto indelebilmente la sua storia dentro Fiammetta.

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    Soggiornò nell’Ajarani dal quattordici dicembre 1984 al sei gennaio 1985. Finalità del viaggio fu l’avvio della raccolta di oggetti della cultura materiale yanomami per il Museo Integrato di Roraima, che era in via di strutturazione. Fu così che Fiammetta conobbe ciò che restava degli yawári: accerchiati dai coloni, continuavano ad essere raggiunti da malattie e a diminuire anno dopo anno; mentre lingua, usi e costumi erano violentemente alterati nello scontro con la società nazionale. Non trovò che fossero “rovinati”, come un ottuso missionario italiano sosteneva: erano malati, sofferenti, cenciosi, bisognosi di accompagnamento e cure. Svolgendovi piccoli lavori umili, nel Posto di Vigilanza governativo vivevano due giovani yanomami costretti a restare scapoli, perché le donne con le quali avrebbero potuto sposarsi erano tutte morte. Accanto al Posto c’era la casa di Poxe e sua moglie; in quei giorni morì di malaria il loro bambino, di poco più di un anno; era il secondo figlio che la coppia perdeva. Kotersi risiedeva in una casa di fango vicino al proprio campo; un bambino e una bambina del suo nucleo famigliare, anch’essi con malaria, vennero trasportati nell’ospedale di Caracaraí; delle cinque lamine portate ad analizzare quel giorno, tre risultarono positive alla malaria.

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    I bianchi la chiamavano Maria Vecchia; di circa settant’anni, Toki era una donna ancora forte e bella. A differenza degli altri gruppi famigliari, lei e il marito risiedevano in una maloca, la grande casa comunitaria, tradizionale, indigena. Con loro viveva il vecchio che, ubriaco, era caduto nel fuoco; la carne gli si era bruciata fino all’osso; aveva trascorso un anno intero in Boa Vista, nell’ospedale chiamato Casa dell’Indio; la gamba atrofizzata non lo aveva più lasciato camminare bene. In quei giorni stava tanto male da non riuscire ad alzarsi dall’amaca; Fiammetta vide Toki fornirgli legna, acqua, pesce e focacce. Un altro vecchio aveva un occhio strabico e un tumore alla spalla per il quale era già stato operato; mentre l’uomo chiamato Makaxi aveva un occhio completamente bianco, assai inquietante.

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    Un giorno Fiammetta andò con Toki nel campo per raccogliere manioca; si affaticò solo abbassandosi ed estraendo pochi tuberi, che la yanomami legò con una fibra vegetale per consentirle di trasportarli agevolmente; utilizzando uno specifico cesto da carico, Toki riuscì a caricarsi sulle spalle un peso tale da lasciare la bianca a bocca aperta. Fiammetta seguì la yanomami anche quando, in compagnia di tre bambini, stava andando a pescare in uno stagno; Toki cercò un ramo con foglie per appoggiarvi i pesci e una liana per infilarceli; poi fece consegnare un coltello a Fiammetta e le spiegò che doveva servirsene per dare il colpo di grazia agli esemplari che le avrebbe dato per fargliene dono. Ripassando per la maloca le offrì dell’acqua. Raggiunto il fiume le allungò una tavola  per farcela sedere, e il suo coltello per pulire i pesci, operazione che lei eseguì con le sole agili mani. La notte che Fiammetta dormì nella maloca, i giovani della rabberciata comunità di sopravvissuti cantarono fino all’alba allietando lei e l’ospite yanomami venuto dal Boqueirão.

    Collana di Tokicollana confezionata da Toki Yawári Yanomami

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    Depositaria delle conoscenze del suo popolo, generosa, infaticabile, Toki era il cuore pulsante che teneva in vita il corpo della malridotta comunità yawári; di lei Fiammetta conserva il ricordo e un oggetto appartenutole, entrambi di valore inestimabile. Mentre era ancora al Catrimâni, aveva ammirato una collana di piccoli semi neri, del tipo che ormai solo Toki produceva; l’aveva tenuta in mano per descriverla nell’inventario di una collezione etnografica e, proprio come fa il microbo della malaria, il desiderio di possederne una uguale era entrato nel suo sangue. Anni dopo, quando raggiuse l’Ajarani, Toki aveva al collo vari preziosi giri di quei piccoli semi neri, tutti facenti parte di un solo lungo cordoncino di fibra vegetale; Fiammetta avvertì un’emozione profonda, avendo l’impressione che donna e collana aspettassero lei. Tre decenni sono trascorsi da quel momento e ha ormai raggiunto l’età che Toki aveva allora: quando vuole apparire più curata, o sente il bisogno di affermare la propria identità, Fiammetta deve solo mettere al collo il nero gioiello e subito una giusta venatura di colore trasfigura il suo viso pallido.

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    * Il brano “Toki dei sopravvissuti” è uno dei capitoli dell’inedito Romanzo indigenista.

     

    ** Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português, il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, la raccolta poetica Mulher entre três culturas, i volumi di racconti Amazzonia portatile e Amazzone in tempo reale (premio speciale della giuria per la Saggistica, del Premio Franz Kafka Italia 2013), il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice degli inediti A passo di tartaruga e Romanzo indigenista, mentre del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti.

     

     

     

    • Come “il ragazzo” che non voleva più “parlare” o, forse, non voleva più “guardare” per “vedere sempre più ed in fondo”, rischiando d’impazzire. Ma, egli, “il ragazzo” finchè “sogna” non corre questo rischio (certo vedersi in sogno con “difficoltà a deambulare” ed a “seguire dei compagni di lavoro” non è il massimo della vita, ma mi piace pensare “Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più”): “… perchè nessuno è mai impazzito, nei sogni o, perchè nessuno è mai impazzito sognando.”
      Forse, non è propriamente “pertinente” il commento, ma lasciare un messaggio che poi, chi sa quando “rileggerò” (mi) aiuta punto, proprio come… “Toki aveva al collo vari preziosi giri di quei piccoli semi neri, tutti facenti parte di un solo lungo cordoncino di fibra vegetale.”

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