Pubblichiamo un brano dal libro Amazzone in tempo reale di Loretta Emiri in cui la ferocia dei conquistadores e dei gesuiti viene messa sapientemente a fuoco. L’agiografia dei gesuiti difensori dei nativi è solo l’ennesima leggenda creata da una infame storiografia e dai falsi bagliori hollywoodiani. Spazzatura storica che è servita e serve solo al potere temporale e religioso da sempre a braccetto per impedire qualsivoglia fiamma di libertà materiale e mentale.
G.C.Z.
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GUARANI *
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Loretta Emiri **
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All’antichissimo tronco tupi è attribuita un’esistenza di almeno cinquemila anni. Da esso, circa duemila e cinquecento anni fa, è derivata la famiglia linguistica tupi-guarani. La storia dei tupi aveva per scenario la foresta tropicale; quella dei guarani le foreste subtropicali del bacino dei fiumi Paraguay, Paraná e Uruguay. All’epoca della conquista europea, innumerevoli popolazioni native occupavano la vasta regione che si estende dall’Amazzonia al Río de la Plata, e dall’oceano Atlantico alla Cordigliera delle Ande. Almeno quattordici grandi gruppi denominati guarani vennero raggiunti dalla colonizzazione spagnola e portoghese, e dal processo detto civilizzatore portato avanti da missionari francescani e gesuiti.
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I primi contatti fra europei e guarani furono caratterizzati da alleanze a livello sociale, economico e politico. In ambito sociale l’alleanza avvenne attraverso il meticciato: pensando che i forestieri fossero brava gente, gli indios dettero loro in moglie le proprie figlie, così che tutta la famiglia indigena si metteva a servizio dell’uomo bianco onorandolo come parente; naturalmente, nei casi in cui il primo contatto avvenne attraverso la guerra, gli europei si appropriarono a forza delle donne dei gruppi sconfitti e sottomessi. Sotto l’aspetto economico, gli indios approvvigionarono le basi di riposo e rifornimento dei conquistatori. In ambito politico, la cultura indigena venne strumentalizzata dagli europei, che usarono le conoscenze topografiche dei guarani, la loro abilità come guerrieri e l’inimicizia con altre popolazioni per guerreggiare contro i nativi ancora non sottomessi.
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In poche decadi, il crudele governo impiantato frantumò le istituzioni indigene e portò a una tragica diminuzione della popolazione. Lo sfruttamento disumano indusse gli indios a ribellarsi. Gli scontri convinsero gli europei a entrare in contatto con altri gruppi guarani che, a loro volta, divenivano vittime della ferocia dei colonizzatori; sottoposti a violenze di ogni genere, quando anch’essi si ribellavano, venivano sostituiti da indigeni neocatturati. La parola spagnola encomienda e quella portoghese bandeira definiscono identiche situazioni: le incursioni e spedizioni realizzate per catturare gli indios ancora liberi, al fine di schiavizzarli e sottometterli all’economia coloniale. L’allora governatore del Paraguay notò che la drastica diminuzione della popolazione indigena metteva in pericolo la colonizzazione; comprese che, se la spada stava fallendo, la croce avrebbe potuto salvare la situazione; propose l’invio di missionari che catechizzassero, e quindi domassero, i “selvaggi”. L’intento era che gli ordini religiosi entrassero in contatto con i gruppi indigeni sparsi nella foresta, li riunissero in uno stesso luogo e predisponessero i loro animi all’accettazione del Vangelo e dei lavori forzati.
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Perseguitati da un lato dagli spagnoli e dall’altro dai portoghesi, molti guarani pensarono di trovare scampo nelle missioni. Per colmare il vuoto lasciato dagli indigeni fuggiti o uccisi da stenti e fatiche, per varie decadi, gli abitanti degli agglomerati di colonizzazione portoghese agirono predatoriamente anche nei confronti delle popolazioni delle missioni. Fra i religiosi che operarono tra i guarani, i gesuiti si distaccarono nel criticare la situazione in cui gli indios versavano: denunciarono lo sfruttamento cui erano sottoposti; difesero il loro diritto a liberarsi; si impegnarono a far rispettare le leggi che regolavano il lavoro indigeno; ottennero che gli individui da loro amministrati fossero considerati sudditi diretti del re, evitando così l’intermediazione delle autorità coloniali. Ma le missioni erano pur sempre al servizio della corona spagnola, che assecondavano nel proposito di portare i nativi ad adeguarsi a ciò che era inteso per vita civile e politica. Modificando la loro cultura, i missionari erano convinti di umanizzare gli indigeni; conquistandoli spiritualmente ottenevano che, docili, si sottomettessero alla colonizzazione.
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In un primo momento, gli indios opposero resistenza al nuovo modo di essere inculcato nelle missioni. I loro sciamani si resero portavoce del malessere e della crisi sociale. Ma i gesuiti furono così efficienti nella guida temporale e spirituale che ben presto i leader religiosi nativi vennero cooptati, poi indeboliti, quindi silenziati, infine sostituiti. Nelle missioni non era permessa l’entrata di spagnoli, meticci, negri e mulatti: senza ricorrere al meticciato, i missionari riuscirono ugualmente a far sì che sui guarani pesasse un rilevante sfruttamento economico, un’accentuata dominazione politica e l’assoluta impossibilità di continuare ad essere gli stessi.
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I guarani che restarono fuori dalle missioni e dal raggio di azione dei tiranni europei si nascosero nelle foreste adiacenti il fiume Paraná. Il relativo isolamento li aiutò a preservarsi. Il frastorno causato dalla Guerra della Triplice Alleanza, intavolata da Brasile, Argentina e Uruguay contro il Paraguay (1865-1870), li indusse a rioccupare territori anticamente abitati da altri gruppi guarani. Dal Paraguay peregrinarono in Argentina e quindi in Brasile. Qualche anno dopo la fine della “Guerra grande”, il governo paraguaiano dette in concessione ettari ed ettari di foresta vergine, mentre persone e imprese acquisirono nella regione enormi proprietà per lo sfruttamento, ad esempio, del mate. Ebbe così inizio la svendita dell’habitat che per millenni aveva permesso alla cultura guarani di esprimersi a livello religioso, sociale ed economico.
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Nella seconda metà di questo secolo, nella regione di frontiera fra Paraguay e Brasile la colonizzazione si è intensificata con ritmi e metodi violenti. La monocoltura ha preso il posto delle foreste. Gli indios sono stati espulsi, o ridotti a braccianti mal retribuiti alle prese con disgregazione sociale, marginalizzazione, solitudine, fame, malattie, alcoolismo. Anche nel versante paraguaiano, i proprietari delle fattorie sono prevalentemente brasiliani, detti i “brasiliani di Stroessner” perché comprarono enormi estensioni di terra a prezzo bassissimo all’epoca del suddetto dittatore. Per ironia della sorte, i guarani che percorrono oggi il litorale e la regione Sud del Brasile sono considerati “indios paraguaiani”. Dei quattordici gruppi guarani contattati nei secoli XVI e XVII, dieci sono scomparsi. In Bolivia sopravvivono i chiriguano. In Paraguay, Argentina e Brasile troviamo superstiti dei gruppi nhandeva, kaiowá e mbyá. I cittadini degli stati nazionali edificati sulle macerie del mondo guarani si vantano del progresso impiantato nella regione e cercano di ignorare gli indigeni che si ostinano a campare, oppure li perseguitano trattandoli come intrusi e invasori. Così che i guarani vivono oggi in microscopiche riserve, precariamente accampati ai bordi di strade, miseramente istallati sotto i ponti alla periferia di città.
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La “Terra Senza Mali” è l’eden che i guarani hanno cercato di raggiungere attraverso migrazioni tradizionali e costanti. La mistica ricerca di spazi concreti dove poter vivere secondo i propri schemi culturali motivava tali migrazioni: come prescindere dalla terra se senza di essa non c’è cultura? Peregrinare alla ricerca della “Terra Senza Mali”, per i guarani significava migliorare il proprio mondo, sé stessi, la vita. Le foreste sono state trasformate in campi. I palazzi hanno sostituito gli alberi. La costruzione di centrali idroelettriche ha portato all’inondazione di villaggi o aree limitrofe. La terra è sempre più scarsa; sempre più difficile per i guarani è mantenere il proprio sistema socioeconomico e religioso. Andare dove se a oriente ed occidente c’è la stessa devastazione, lo stesso assedio? Presa coscienza del fatto che la “Terra Senza Mali” non esiste più, il procedere dei guarani si è trasformato in via crucis.
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Nello stesso mese che vide Colombo sbarcare in America, mia madre e mia nipote sono volate a Buenos Aires. Successivamente hanno raggiunto le Cascate dell’Iguaçu, situate ventidue chilometri a monte della confluenza del fiume omonimo con il grande Paraná, nel punto di confine tra il Brasile a nord, l’Argentina a sud, il Paraguay a ovest. È ciò che resta dell’universo guarani: un circoscritto, ma prodigioso, spettacolo naturale che si offre agli occhi dei turisti internazionali. Di indigeno, il luogo conserva il nome, che significa “acqua-grande”. Transitando lungo strade che collegano le cascate alle rovine delle missioni, i forestieri possono persino scorgere le baracchette dei superstiti guarani.
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In Europa correva l’anno dei festeggiamenti per i cinque secoli trascorsi dalla cosiddetta “Scoperta dell’America”. Usando una terminologia più propria, in Brasile si parlava di invasione e genocidio, di cinquecento anni di oppressione e lotta, di resistenza indigena. Tutta una serie di iniziative vennero prese per ricordare i milioni di nativi morti e le innumerevoli società indigene estinte, e per denunciare la situazione dei sopravvissuti al massacro fisico, culturale e religioso. Ben due volte, quell’anno, soggiornai in São Paulo. Ogni volta che mi recavo al centro, fra la marea dei pedoni e il fragore del transito scorgevo minuscole isole umane: silenziose e dignitose famigliole guarani-mbyá offrivano artigianato agli occhi dei viandanti. Mantenendomi a distanza di discrezione, mi soffermavo qualche minuto seguendo la scena e il corso dei pensieri che mi suscitava.
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Morro da Saudade, traducibile come Monticello della Nostalgia, è il nome portoghese con cui è conosciuto un villaggio mbyá che dista sessanta chilometri dal cuore di São Paulo. Confina con un terreno appartenente all’emittente radiofonica che i proprietari bianchi hanno impudicamente chiamato “Radio Tupi”. Spesso gli indios raggiungono il centro della metropoli per vendere manufatti. Negli stessi luoghi ove crebbero alberi e antenati, vagano silenziosi trasportando bambini, artigianato e mali. A volte pernottano, in gruppi, sui marciapiedi. Essendo inadeguati i campi di cui dispongono, per il fabbisogno alimentare dipendono dai prodotti comprati nei mercati; così che l’artigianato è divenuto fonte di reddito. Nelle fasce di foresta rimaste raccolgono le ultime materie prime disponibili. Nei campi coltivano bambù, semi, zucchette. Sostituiscono penne di uccelli ormai introvabili con quelle di gallina, debitamente tinte. Impiegano il nailon al posto di fili di cotone e fibre vegetali. Per dare toni vibranti agli adorni da vendere, comprano carta copiativa, succhi di frutta colorati artificialmente e, addirittura, una sostanza che i fabbricanti bianchi hanno impudicamente battezzato “Tinta Guarani”. Infine, riducono le dimensioni di alcuni manufatti per assecondare gli acquirenti che preferiscono oggetti non ingombranti. Il patetico prodotto finale è nient’altro che la materializzazione della trasfigurazione esistenziale guarani.
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* Il brano “Guarani” è uno dei capitoli del libro Amazzone in tempo reale.
** Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português e il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver. In italiano ha scritto Amazzonia portatile, Quando le amazzoni diventano nonne, Amazzone in tempo reale (Premio Speciale per la Saggistica del Premio Franz Kafka Italia 2013). È anche autrice dell’inedito A passo di tartaruga, mentre dell’inedito Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più è la curatrice.
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