• Lo scarabeo d’oro di E. A. Poe – (testo II parte)

      0 commenti

     

    Marciammo così per circa due ore, e il sole stava giusto tramontando quando ci inoltrammo in una regione infinitamente più tetra di quanto avessimo fino allora veduto. Era una specie di altopiano in prossimità della vetta di una collina quasi inaccessibile, ricoperta dalla base alla cima da una boscaglia fitta e disseminata di enormi macigni che parevano sparsi a casaccio sul terreno: solo il sostegno degli alberi cui si appoggiavano impediva a molti di essi di precipitare nelle valli sottostanti. Forre profonde, variamente innervate, davano al paesaggio un’aria di ancor più arcigna solennità.

     

    La piattaforma naturale sulla quale ci eravamo arrampicati era fittamente rivestita di rovi; attraverso i quali, come presto scoprimmo, ci sarebbe stato impossibile farci strada senza usare la falce; e Jupiter, seguendo gli ordini del padrone, provvide ad aprirci un sentiero fino ai piedi di una tulipifera di enorme altezza che si ergeva accanto a otto o dieci querce e tutte le superava, come pure qualsiasi albero avessi mai visto, per la bellezza del fogliame e della forma, per l’apertura dei rami e la maestà dell’insieme. Quando raggiungemmo l’albero, Legrand si volse a Jupiter e gli chiese se riteneva di potercisi arrampicare. Il vecchio parve un po’ sconcertato dalla domanda, e per qualche istante non rispose nulla. Infine si avvicinò a quel tronco enorme, ne fece lentamente il giro e lo esaminò con scrupolosa attenzione. Ultimata l’indagine, si limitò a dire:

     

    «Sì, Massa, Jupiter arrampica tutti alberi che ha veduto in vita sua».

     

    «E allora sali, sbrigati! tra poco sarà troppo buio per vedere quel che stiamo facendo».

     

    «Fino a dove devo andare su, Massa?», chiese Jupiter.

     

    «Prima arrampicati sul tronco, poi ti dirò io da che parte devi andare, e… un momento, aspetta!… Porta con te lo scarabeo».

     

    «Lo sgarabeo, Massa Will!… lo sgarabeo d’oro!», gridò il negro, ritraendosi sgomento. «E perché devo portare lo sgarabeo su per albero? Accidenti a me, se lo faccio!».

     

    «Se tu, Jup, un negro grande e grosso, hai paura di prendere in mano un piccolo, innocuo scarabeo morto, be’, lo puoi portar su legato a questo spago; ma se non lo porti con te in un modo o nell’altro, mi vedrò costretto a romperti la testa con questa vanga».

     

    «Ma cosa ti salta adesso, Massa?», disse Jupiter, che la vergogna rendeva evidentemente più disponibile. «Sempre a sgridare tuo vecchio negro! Io volevo scherzare, e basta. Io, paura di sgarabeo? Che cosa m’importa a me di sgarabeo?». E cautamente prese in mano un’estremità dello spago e, tenendo l’insetto lontano da sé quanto glielo permettevano le circostanze, si accinse a salire sull’albero.

     

    In gioventù la tulipifera o Liriodendron Tulipiferum, l’albero più grandioso delle foreste americane, ha un tronco singolarmente liscio e spesso si leva a grande altezza senza rami laterali; ma, in età più matura, la sua corteccia si fa nodosa e diseguale e sul tronco appaiono numerosi, brevi rami. La difficoltà della salita, nel caso in questione, era dunque più apparente che reale. Stringendo il più saldamente possibile l’enorme tronco con le braccia e le ginocchia, afferrando con le mani alcune sporgenze e puntando i piedi nudi su alcune altre, Jupiter, dopo aver rischiato di cadere un paio di volte, si infilò alla fine nella prima grande biforcazione e parve considerare praticamente conclusa l’intera faccenda. In effetti, il rischio dell’impresa era ormai superato, sebbene lo scalatore si trovasse a un’altezza di sessanta-settanta piedi dal suolo.

     

    «Adesso da che parte devo andare, Massa Will?», chiese.

     

    «Tieniti al ramo più grande, su questo lato», disse Legrand. Il negro obbedì prontamente, e all’apparenza senza gran fatica; salì ancora e ancora, finché la sua tozza figura scomparve nel folto. Poco dopo si udì la sua voce, come un richiamo lanciato da grande distanza.

     

    «Devo andare ancora avanti?».

     

    «A che altezza sei?», chiese Legrand.

     

    «Tanto, tanto alto», rispose il negro; «posso vedere il cielo da cima di albero».

     

    «Lascia perdere il cielo, e sta attento a quello che dico. Guarda giù lungo il tronco e conta i rami sotto di te da questa parte. Quanti rami hai superato?».

     

    «Uno, due, tre, quattro, cinque… Da questa parte ho passato cinque rami grossi, Massa».

     

    «Allora sali di un altro ramo».

     

    Pochi minuti dopo si udì di nuovo la voce di Jupiter, che annunciava di aver raggiunto il settimo ramo.

     

    «Ora, Jup», esclamò Legrand, palesemente molto eccitato, «voglio che tu ti spinga in avanti lungo quel, ramo quanto più ti è possibile. Se vedi qualcosa di strano, fammelo sapere».

     

    A questo punto, quei pochi dubbi che ancora potevo avere sulla follia del mio sventurato amico vennero definitivamente dissipati. Era completamente impazzito: questa la sola conclusione che potevo trarre. E cominciai a pensare, vivamente preoccupato, al modo di riportarlo a casa. Mentre riflettevo su quel che mi conveniva fare, si udì di nuovo la voce di Jupiter.

     

    «Ho gran paura a andare troppo avanti su questo ramo… Ramo morto, tutto marcio».

     

    «Hai detto un ramo morto, Jupiter?», gridò Legrand, con la voce che gli tremava.

     

    «Sì, Massa, morto morto… ma proprio finito, trapassato».

     

    «In nome del cielo, che debbo fare?», chiese Legrand, apparentemente sconvolto.

     

    «Fare?», feci io, lieto di poter dire la mia, «ma venirvene a casa a mettervi a letto. Su, andiamo! Siate ragionevole. Si fa tardi. E poi, ricordate la vostra promessa, no?».

     

    «Jupiter», gridò Legrand senza minimamente badarmi, «mi senti, Jupiter?».

     

    «Sì, Massa Will, ti sento benissimo».

     

    «Allora saggia bene il legno col tuo coltello, e vedi se ti pare proprio molto marcio».

     

    «É  marcio è marcio, Massa», rispose il negro di lì a pochi minuti, «ma non tanto come credevo. Posso andare avanti ancora un poco, da solo: sì, credo che posso».

     

    «Da solo?… che vuoi dire?».

     

    «Ecco, voglio dire lo scarabeo. È molto molto pesante, lo scarabeo. Se io prima lo lascio cadere, allora questo ramo non si rompe col peso di un negro da solo».

     

    «Maledetto furfante!», grido Legrand, visibilmente sollevato, «che razza di assurdità mi tiri fuori adesso? Prova a lasciar cadere lo scarabeo, e io ti rompo il collo. Ehi, Jupiter, mi senti?».

     

    «Sì, Massa, non c’è bisogno di sgridare così un povero negro».

     

    «Bè, ascolta: se ti arrischi lungo quel ramo fin dove ti senti sicuro, e non lasci cadere lo scarabeo, quando torni giù ti regalo un dollaro d’argento».

     

    «Vado, Massa Will, vado», rispose prontamente il negro, «sono quasi alla fine».

     

    «Alla fine?», chiese Legrand, e urlava quasi, «dici che sei alla fine di quel ramo?».

    «Quasi alla fine, Massa… O-o-o-oh! Ossignore! che cosa è questo coso qui sull’albero?».

     

    «E allora?», incalzò Legrand al colmo della gioia, «che cosa è?».

     

    «Be’, niente: solo un teschio… qualcuno ha lasciato sua testa qui su questo albero, e i corvi hanno beccato via tutta la carne, proprio tutta».

     

    «Un teschio, hai detto?… benissimo!… come è attaccato al ramo? che cosa lo tiene fermo?».

     

    «Devo guardare bene, Massa. Toh, questa è proprio una circostanza curiosa, parola mia… c’è un chiodo grosso nel teschio: questo lo tiene fermo su legno».

     

    «Bene. Ora, Jupiter, fa’ esattamente come ti dico; mi senti?».

     

    «Sì, Massa».

     

    «Fa’ attenzione, allora! Trova l’occhio sinistro di teschio».

     

    «Hm! Trovarlo? Questo non ha occhi, neanche uno».

     

    «Al diavolo, quanto sei stupido! Sai distinguere la mano destra dalla sinistra?».

     

    «Sicuro che so… lo so bene! Mano sinistra è quella che taglio la legna».

     

    «Giusto, perché sei mancino! e il tuo occhio sinistro è dalla stessa parte della tua mano sinistra, capito? Ora, suppongo, riuscirai a trovare l’occhio sinistro del teschio, o il posto dove c’era l’occhio sinistro. L’hai trovato?».

     

    Segui una lunga pausa. Alla fine, il negro chiese:

     

    «Anche occhio sinistro di teschio è dalla stessa parte di mano sinistra di teschio?… Perché teschio mani non ne ha… Fa niente! Adesso ho trovato occhio sinistro… Ecco occhio sinistro! Che cosa devo fare?».

     

    «Infilaci lo scarabeo e calalo per tutta la lunghezza dello spago… Attento a non lasciartelo sfuggire, lo spago».

     

    «Fatto, Massa Will. Molto facile far passare sgarabeo per buco… Ecco, guarda che viene giù!».

     

     

    Durante questo colloquio, la figura di Jupiter era rimasta completamente invisibile; ma l’insetto, che aveva calato, appariva adesso distintamente all’estremità dello spago e splendeva come un globo d’oro brunito agli ultimi raggi del sole al tramonto che ancora illuminavano debolmente l’altura su cui ci trovavamo. Lo scarabaeus ormai penzolava fuori dei rami e, se Jupiter l’avesse lasciato cadere, sarebbe caduto ai nostri piedi. Legrand prese subito la falce e sgombrò uno spazio circolare del diametro di tre o quattro yarde, proprio sotto all’insetto; fatto ciò, ordinò a Jupiter di lasciare andare lo spago e di scendere dall’albero.

     

    Conficcato con grande precisione un piolo nel terreno, nel posto esatto dove lo scarabeo era caduto, il mio amico trasse di tasca un metro a nastro. Ne assicurò un’estremità al punto del tronco più vicino al piolo, e lo svolse fino a raggiungere il piolo stesso; poi continuò a srotolarlo nella direzione indicata dal due punti dell’albero e del piolo, mentre Jupiter con la falce liberava il suolo dai rovi. Nel punto così trovato venne piantato un secondo piolo, e tenendo questo come centro, Legrand tracciò un cerchio rudimentale, del diametro di circa quattro piedi. Quindi prese una vanga, e dopo averne data una a Jupiter e una a me, ci esortò a metterci a scavare il più rapidamente possibile.

     

    A dire il vero, tali passatempi non sono mai stati di mio gusto e, in quel particolare momento, avrei più che volentieri opposto un rifiuto; calava infatti la notte, e la camminata di prima mi aveva non poco affaticato; ma non vedevo come svicolare e d’altra parte temevo di turbare con un diniego l’equilibrio mentale del mio sventurato amico. Certo, se avessi potuto contare sull’aiuto di Jupiter, non avrei esitato a ricorrere alla forza, per riportare a casa quel povero folle, ma conoscevo troppo bene i sentimenti del vecchio negro per sperare che, in qualsiasi circostanza, avrebbe preso le mie parti nel caso di una colluttazione col suo padrone. Quest’ultimo, ormai ne ero sicuro, si era lasciato contagiare da qualcuna delle innumerevoli superstizioni del Sud relative a tesori sepolti, e questa sua fantasticheria aveva trovato conferma nel ritrovamento dello scarabaeus o, forse, nell’ostinazione di Jupiter, in quel suo ripetere che si trattava di uno «sgarabeo di oro vero». Una mente già incline alla follia sarebbe stata facilmente sedotta da simili suggestioni, specie se consone alle sue idee preconcette – e allora mi tornò alla mente il discorso del poveretto a proposito dello scarabeo che gli avrebbe «additato» la sua fortuna. Tutto considerato, ero profondamente turbato e perplesso ma, alla fine, decisi di fare di necessità virtù: scavare di lena e così convincere al più presto il visionario, con una prova concreta, della fallacia delle sue convinzioni.

    Accese le lanterne, ci mettemmo tutti al lavoro con uno zelo degno di più ragionevole causa, e mentre la loro luce cadeva sulle nostre persone, e sugli attrezzi, non potei fare a meno di pensare che formavamo un gruppo davvero pittoresco, e che a un intruso che per caso si fosse trovato a passare di lì il nostro lavoro sarebbe certo parso strano e sospetto.

    Per due ore scavammo senza tregua, scambiando rare parole, disturbati solo dall’abbaiare del cane, smodatamente interessato a quel che facevamo. Alla fine, divenne così turbolento da farci temere che richiamasse qualche vagabondo lì attorno: o, piuttosto, questo temeva Legrand; quanto a me, avrei accolto con piacere qualsiasi interruzione che mi avesse dato modo di ricondurre a casa quell’esaltato. Alla fine, la cagnara venne ridotta al silenzio molto efficacemente da Jupiter che, balzato fuori dalla buca con aria quanto mai risoluta, legò la bocca dell’animale con una delle sue bretelle e poi, con un ghigno sussiegoso, se ne tornò al lavoro.

     

    Trascorso il tempo di cui si è detto, avevamo raggiunto una profondità di cinque piedi, senza trovar traccia di tesori. Seguì una pausa generale, e cominciai a sperare che la farsa fosse conclusa. Ma Legrand, benché palesemente sconcertato, si asciugò la fronte meditabondo e ricominciò. Avevamo scavato l’intero cerchio del diametro di quattro piedi, e ora ne allargammo un po’ i limiti, scendendo di altri due piedi. Niente, ancora niente. Il cercatore d’oro, che sinceramente commiseravo, alla fine si tirò fuori della fossa, i tratti del volto segnati dalla delusione più amara e lentamente, con riluttanza, prese a infilarsi la giacca che si era tolta all’inizio del lavoro. lo nel frattempo non feci commenti. A un segnale del padrone, Jupiter comincio a raccogliere gli attrezzi. Ciò fatto e sbavagliato il cane, in profondo silenzio ci avviammo verso casa.

    Non avevamo forse fatto una decina di passi in tale direzione quando Legrand bestemmiò forte, poi si avventò contro Jupiter e lo agguantò per il colletto. Esterrefatto, il negro spalancò occhi e bocca, lasciò cadere le vanghe, e cadde in ginocchio.

     

    «Disgraziato!», sibilò Legrand a dentri stretti. «Maledetto furfante d’un negro! Parla, su! Rispondi immediatamente, e senza mentire! Qual è… qual è il tuo occhio sinistro?».

     

    «Santo gelo, Massa Will! Non è questo qui mio occhio sinistro?», mugghiò l’atterrito Jupiter, mettendo la mano sul proprio organo della vista – il destro – e tenendovela con disperata tenacia, quasi temendo che da un momento all’altro il padrone volesse cavarglielo, quell’occhio.

     

    «Me lo sentivo! Lo sapevo! Evviva!», gridò Legrand, lasciando andare il negro ed esibendosi in una serie di salti e piroette, con gran stupore del suo valletto che, levatosi in piedi, muto volgeva lo sguardo dal padrone a me, da me al padrone.

     

    «Forza! Dobbiamo tornare indietro», disse quest’ultimo, «il gioco non è finito». E di nuovo ci fece strada fino alla tulipifera.

     

    «Jupiter», disse, quando giungemmo ai piedi dell’albero, «vieni qui! il teschio era inchiodato al ramo con la faccia verso l’esterno, o con la faccia verso il ramo?».

     

    «La faccia era in fuori, Massa, così i corvi potevano beccare bene suoi occhi e senza fatica».

     

    «Bene. Allora, tu hai lasciato cadere lo scarabeo attraverso questo occhio, o quell’altro?». E Legrand toccò gli occhi di Jupiter, prima l’uno poi l’altro.

     

    «Questo occhio, Massa, il sinistro, proprio come tu hai detto», e il negro indicò l’occhio destro.

     

    «Basta così: dobbiamo provare di nuovo».

     

    E qui il mio amico, nella cui follia ora vedevo, o mi sembrava di vedere, qualche traccia di metodo, rimosse il piolo che segnava il punto in cui era caduto lo scarabeo e lo spostò di circa tre pollici più a ovest della sua posizione primitiva. Quindi, teso come prima il metro a nastro dal punto più vicino del tronco fino al piolo, e continuando a svolgerlo in linea retta per un tratto di cinquanta piedi, segnò un punto distante parecchie yarde da quello in cui avevamo scavato in precedenza.

    Intorno al nuovo punto venne tracciato un cerchio un po’ più ampio del primo, e ci rimettemmo al lavoro con le vanghe. Ero terribilmente stanco ma, senza capire che cosa mi avesse fatto cambiare idea, non mi risentivo più per la fatica che mi veniva imposta. Ero inspiegabilmente interessato: eccitato, anzi. Forse c’era qualcosa nel modo di comportarsi di Legrand, pur così stravagante, una certa aria di premeditazione o di deliberazione, che mi impressionava. Scavavo di buona lena e di tanto in tanto mi sorprendevo addirittura a cercare con gli occhi, in una sorta di smaniosa attesa, il tesoro immaginario, il cui miraggio aveva sconvolto la mente del mio sventurato amico. In un momento in cui ero completamente assorto in queste mie fantasticherie, e quando eravamo al lavoro da forse un’ora e mezza, fummo di nuovo interrotti dai furiosi latrati del cane. La prima volta la sua irrequietezza era stata evidentemente provocata dalla voglia di far le feste o da capriccio, ma ora il tono era diverso: ostinato, allarmante. A Jupiter, che si riprovò a chiudergli la bocca, oppose una resistenza furiosa; poi, balzato nella buca, si diede a raspare freneticamente il terreno con le zampe. In pochi secondi aveva scoperto una massa di ossa umane, due scheletri completi, mista a parecchi bottoni di metallo e quel che sembravano resti di tessuto di lana, imputriditi e quasi ridotti in polvere. Un paio di colpi di vanga portarono alla luce la lama di un grosso coltello spagnolo e, scavando oltre, tre o quattro monete d’oro e d’argento sparpagliate.

     

     

     

    A quella vista, Jupiter riuscì a stento a frenare la sua gioia, ma il volto di Legrand esprimeva un’estrema delusione. Comunque, ci sollecitò a continuare nei nostri sforzi, ma aveva appena finito di parlare che io inciampai e caddi in avanti: la punta del mio stivale si era impigliata in un grosso anello di ferro semi-sepolto nel terriccio smosso.

     

    Ora lavoravamo con foga, e mai passai dieci minuti di più intensa eccitazione. In quell’intervallo di tempo dissotterrammo quasi completamente una cassa di legno oblunga che, a giudicare dalla sua perfetta conservazione e dalla straordinaria durezza del materiale, doveva certo esser stata soggetta a un qualche processo di mineralizzazione, forse dovuta al bicloruro di mercurio. La cassa era lunga tre piedi e mezzo, larga tre piedi, e profonda due piedi e mezzo. Era solidamente rinforzata da strisce di ferro lavorato e ribattuto, che formavano una sorta d’ traliccio. Su ciascun lato, nella parte superiore, erano tre anelli di ferro – sei in tutto – per mezzo dei quali sei persone avrebbero potuto reggerla, ma tutti i nostri sforzi congiunti riuscirono a spostare di ben poco il cassone dentro la fossa. Ci sarebbe stato impossibile, lo capimmo subito, rimuovere quel peso enorme. Per fortuna, il coperchio era assicurato solo da due catenacci scorrevoli, che facemmo scivolare, tremando, ansimando per l’eccitazione. E un istante dopo, un tesoro di incalcolabile valore si rivelò sfolgorante ai nostri occhi. Come i raggi delle lanterne caddero dentro la buca, da un confuso ammasso d’oro e di gioielli si sprigionò un barbaglio, una vampata che letteralmente ci abbacinò.

     

     

     

    Non cercherò di descrivere i sentimenti con cui guardavo. Naturalmente, predominava lo stupore. Legrand appariva disfatto dall’emozione: disse poche parole. Il volto di Jupiter si fece, per qualche minuto, mortalmente pallido: pallido quanto può esserlo, per legge di natura, il volto di un negro. Sembrava inebetito, folgorato. Poi cadde in ginocchio nella fossa e, affondando fino al gomito le braccia nude nell’oro, ve le tenne dentro, come a crogiolarsi in un bagno di delizie. Infine, con un profondo sospiro, esclamò, quasi in soliloquio:

     

    «E tutto questo viene da sgarabeo d’oro! Quello sgarabeo tanto bellino! Il povero, piccolo sgarabeo che io ho sparlato tanto! Non hai vergogna di te, negro? Su, rispondi!».

     

    Alla fine, dovetti richiamare l’attenzione del padrone e del servo sulla necessità di portar via di lì il tesoro. Si faceva tardi, ed era bene metterci all’opera, se volevamo portar tutto a casa prima dell’alba. Era difficile dire che cosa dovessimo fare, e perdemmo molto tempo a discutere e deliberare, tanto confuse erano le idee di tutti e tre. Finalmente, alleggerimmo la cassa togliendo due terzi del suo contenuto e riuscimmo così, non senza fatica, a sollevarla dalla buca. Quanto avevamo tolto lo nascondemmo tra i cespugli, e lasciammo il cane a far da guardia, con ordini severissimi da parte di Jupiter di non muoversi di lì per nessun motivo e di non aprir bocca fino al nostro ritorno. Dopodiché ci affrettammo verso casa con il forziere, raggiungendo la capanna sani e salvi, ma rotti dalla fatica, all’una del mattino. Esausti come eravamo, non sarebbe stato umanamente possibile, per il momento, fare di più. Riposammo fino alle due, cenammo, e subito dopo ripartimmo alla volta delle colline, muniti di tre robusti sacchi che, per nostra fortuna, si trovavano in casa. Poco prima delle quattro, giungemmo alla buca, ci dividemmo il resto del bottino il più equamente possibile e, senza attardarci a colmare la buca, ci dirigemmo di nuovo verso la capanna dove, per la seconda volta, depositammo il carico d’oro, quando a oriente, al di sopra degli alberi, le prime, pallide strisce di luce annunciavano l’alba.

    Eravamo sfiniti, ma ancora tanto eccitati da non riuscire a riposare. Dopo un sonno agitato di tre o quattro ore, ci levammo, come d’intesa, per esaminare il nostro tesoro.

     

    La cassa era stata riempita fino all’orlo, e noi trascorremmo l’intera giornata e gran parte della notte seguente a fare l’inventario del suo contenuto. Non v’era traccia d’ordine o di un criterio qualsiasi. Tutto era stato ammucchiato alla rinfusa. Dopo avere accuratamente selezionato il tutto, ci trovammo in possesso di una ricchezza ancor più grande di quanto avessimo dapprima supposto. In monete, c’era qualcosa come quattrocentocinquantamila dollari: stima approssimativa, la nostra, basata sulle quotazioni dell’epoca. Neppure una moneta d’argento. Era tutto oro, di antica data e d’ogni tipo: monete francesi, spagnole, tedesche, alcune ghinee inglesi e altri conii, di cui prima d’allora mai avevamo visto l’uguale. C’erano parecchie monete grosse e pesanti, così consunte che non riuscimmo a decifrarne le iscrizioni. Monete americane, niente. Stimare il valore dei gioielli risultò più difficile. C’erano diamanti – alcuni eccezionalmente grossi e bellissimi – centodieci in tutto, e non uno che fosse piccolo; diciotto rubini di una luce purissima; trecentodieci smeraldi, tutti di grande bellezza; e ventun zaffiri, con un opale. Tutte queste pietre erano state tolte dai loro castoni e gettate alla rinfusa nella cassa. Quanto ai castoni, che ripescammo dal mucchio dell’oro, avevano l’aria di essere stati battuti e ribattuti con un martello allo scopo di impedirne l’identificazione. Oltre a tutto questo, c’era un’infinità di ornamenti in oro massiccio; circa duecento pesanti anelli e orecchini; ricche catene, trenta, se ben ricordo; ottantatrè grandi crocifissi, pesantissimi; cinque turiboli d’oro di grande valore; una gigantesca tazza da punch in oro, ornata di pampini splendidamente cesellati e figure di baccanti; due else di spada finemente lavorate a sbalzo, e molti altri oggetti minori che non rammento. Il peso di questi preziosi superava le trecentocinquanta libbre; e in questa stima non ho incluso centonovantasette superbi orologi, tre dei quali valevano, a dir poco, cinquecento dollari ciascuno. Molti erano antichi e, in quanto orologi, inservibili, poiché i loro congegni avevano risentito, quale più quale meno, della corrosione, ma tutti quanti erano riccamente adorni di gemme e avevano casse di gran valore. Quella notte stimammo l’intero contenuto della cassa a un milione e mezzo di dollari; e quando in seguito procedemmo alla vendita dei vari oggetti e delle pietre preziose (taluni li tenemmo per nostro uso), trovammo di aver sottostimato, e di molto, il nostro tesoro.

     

    Quando alla fine l’esame fu concluso, e l’eccitazione del momento si fu un poco calmata, Legrand, che vedeva come lo morissi per l’impazienza di conoscere la soluzione di questo straordinario enigma, prese a spiegarne tutte le circostanze fin nei minimi particolari.

     

    «Ricorderete», mi disse, «la sera in cui vi porsi il sommario schizzo che avevo fatto dello scarabaeus. E ricorderete anche che mi irritai con voi perché insistevate a dire che il mio disegno assomigliava a un teschio. Sulle prime, sentendo quella vostra affermazione, pensai che scherzaste; ma poi mi vennero in mente le singolari chiazze sul dorso dell’insetto, e ammisi che la vostra osservazione non era del tutto infondata. Tuttavia, la vostra ironica battuta sulle mie doti di disegnatore mi irritò (mi si giudica un artista di qualche merito), e pertanto, quando mi restituiste il pezzo di pergamena, stavo per accartocciarlo e gettarlo rabbiosamente nel fuoco».

     

    «Il pezzo di carta, volete dire», feci io.

     

    «No; sembrava carta, in effetti, e dapprima anch’io la scambiai per tale, ma quando vi disegnai sopra, mi accorsi subito, che si trattava di un pezzo di sottilissima pergamena. Ricorderete che era molto sporca. Be’, proprio mentre stavo per accartocciarla, gli occhi mi caddero sullo schizzo che avevate appena guardato, e potete immaginare il mio stupore quando scorsi la figura di un teschio là dove pensavo di aver disegnato lo scarabeo. Al momento ero troppo sbalordito per riuscire a pensare lucidamente. Sapevo che nei dettagli il mio disegno era troppo diverso da quello, sebbene nei contorni vi fosse una certa generica rassomiglianza. Presi allora una candela e, sedendomi all’estremità opposta della stanza, mi misi a osservare più attentamente la pergamena. La voltai, e sul retro vidi il mio schizzo, così come l’avevo disegnato. La mia prima reazione fu di autentica sorpresa: per quella singolarissima somiglianza dei contorni; per la singolare coincidenza rappresentata dal fatto che, a mia insaputa, sull’altra faccia della pergamena fosse disegnato un teschio, proprio sotto il mio scarabaeus, e che questo teschio, non solo nei contorni, ma nelle dimensioni, assomigliasse a tal punto al mio disegno. L’ho detto, per qualche tempo la singolarità della coincidenza mi lasciò completamente sbalordito. E l’effetto usuale di tali coincidenze. La mente cerca di stabilire un rapporto, una sequenza di causa ed effetto e, non riuscendovi, è colpita da una sorta di paralisi temporanea. Ma quando mi riebbi da tale stato di stupefazione, affiorò nella mia mente una convinzione che mi colpì anche più della coincidenza. Cominciai a ricordare chiaramente, distintamente che quando avevo schizzato il mio scarabaeus, non vi era alcun disegno sulla pergamena. Ne ero assolutamente certo, poiché mi rammentavo di averla voltata e di avere esaminato prima un lato, poi l’altro, alla ricerca dello spazio più pulito. Se il teschio ci fosse stato, non avrei mancato di notarlo. Ecco davvero un mistero che non riuscivo a spiegarmi; ma anche allora, in quel primo momento, parve baluginare, se pur vagamente, nei più remoti e segreti recessi del mio intelletto una parvenza, un lucciolío, di quella verità di cui l’avventura dell’altra notte ha dato così lampante conferma. Subito mi alzai in piedi e, messa al sicuro la pergamena, rimandai ogni ulteriore riflessione a quando mi fossi trovato solo.

     

     

     

    «Quando ve ne foste andato, e Jupiter si fu profondamente addormentato, mi dedicai a un più metodico esame del problema. Considerai in primo luogo il modo in cui quella pergamena era venuta in mio possesso. il luogo dove avevamo scoperto lo scarabaeus si trovava sulla costa della terraferma, a un miglio circa a oriente dell’isola, e poco discosto dal limite dell’alta marea. Quando lo presi in mano l’insetto mi diede un tal morso da costringermi a lasciarlo cadere. Jupiter, con la prudenza che gli è consueta, prima di afferrare lo scarabeo che era volato verso di lui, si guardò attorno in cerca di una foglia o qualcosa del genere, con cui catturarlo. Fu in quel momento che i suoi occhi, e anche i miei, caddero sul pezzo di pergamena, che io allora scambiai per carta. Giaceva mezzo sepolto nella sabbia, ne sporgeva un angolo soltanto. Vicino al punto dove lo trovammo, notai i resti di uno scafo; di quella che, pensai era stata una scialuppa di salvataggio. Il relitto aveva l’aria di esser li da chissà quanto tempo perché a mala pena si riusciva a scoprire una qualche somiglianza col fasciame di una barca.

     

    «Bene, Jupiter raccolse la pergamena, vi avvolse lo scarabeo, e me lo consegnò. Subito dopo ci avviammo verso casa, e lungo la strada incontrai il tenente G… Gli mostrai l’insetto, e lui mi pregò di lasciarglielo portare al forte. Avuto il mio consenso, se lo infilò immediatamente nella tasca del panciotto, senza quella pergamena in cui era stato avvolto e che, mentre esaminava l’insetto, avevo continuato a tenere in mano. Forse temeva che io cambiassi idea e pensò bene di mettere subito al sicuro la preda; come sapete, ha una vera passione per tutto ciò che ha attinenza con le scienze naturali. Intanto, senza farei caso, debbo essermi messo in tasca la pergamena.

     

    «Ricorderete che, quando mi accostai al tavolo con l’intenzione di tracciare uno schizzo dello scarabeo, non trovai carta dove ero solito tenerne. Guardai nel cassetto, ma anche lì non ce n’era. Mi frugai in tasca, sperando di trovare una vecchia lettera, ed ecco che la mano cadde sulla pergamena. Vi riferisco in tutti i particolari il modo in cui essa venne in mio possesso, giacché tali circostanze mi rimasero profondamente impresse.

     

    «Senza dubbio mi giudicherete fantasioso, ma il fatto è che avevo già stabilito un certo rapporto. Avevo saldato due anelli di una lunga catena. C’era una barca arenata su una spiaggia, e, non lontano dalla barca c’era una pergamena – pergamena, non carta – con sopra disegnato un teschio. Naturalmente mi chiederete: “e dove sta il rapporto?”. Risponderò che il teschio, o testa di morto, è notoriamente l’emblema del pirata. In combattimento i pirati issano sempre la bandiera con il teschio.

     

    «Ho detto che quello era un pezzo di pergamena, non di carta. La pergamena è resistente, quasi indistruttibile. È raro che cose di poca importanza vengano affidate alla pergamena; infatti non si presta quanto la carta alle ordinarie esigenze del disegno o della scrittura. Questa considerazione mi indusse a pensare che quella testa di morto avesse un suo significato, una sua importanza. Né mi sfuggì la forma della pergamena. Sebbene uno degli angoli fosse andato perduto per non so quale ragione, era evidente che la forma originaria era oblunga. Insomma, era esattamente il tipo di foglio quale si poteva scegliere per un memorandum, per appuntare qualcosa da ricordare a lungo e conservare con cura”.

     

    «Ma», lo interruppi io, «voi dite che quando disegnaste lo scarabeo, il teschio non era sulla pergamena. Come potete allora stabilire un rapporto tra la barca e il teschio se quest’ultimo, stando a quanto voi stesso ammettete, deve essere stato disegnato (Dio solo sa come e da chi) in un periodo successivo al vostro disegno dello scarabaeus?».

     

    «Ah; qui sta il mistero; sebbene, a questo punto, non mi fosse poi tanto difficile risolvere il problema. I miei passi erano ben calcolati, e non potevano portarmi che a un unico risultato. Ragionai, diciamo, a questo modo: quando mi ero messo a disegnare lo scarabaeus, sulla pergamena non c’era traccia apparente del teschio. Terminato il disegno, l’avevo dato a voi, e vi avevo osservato attentamente finché non me lo avevate reso. Quindi, il teschio non l’avevate disegnato voi, né era presente altra persona che potesse farlo. Quindi, non era attribuibile a nessun intervento umano, e tuttavia era stato fatto.

     

    Leggi qui la terza parte

    Leggi qui la prima parte

     

    Scrivi un commento