• Libera Mafia in Stato mafioso: l’assenza nella società italiana della percezione del fenomeno mafia è dovuta alla diffusa “mafiosità”

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    di Gian Carlo Zanon


    «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.»

    da Le città invisibili di Italo Calvino


    Provate a fare un esperimento: toccatevi una parte del corpo con un dito e vedrete che istantaneamente il senso del tatto reagirà dando vita a una sensazione. Poi provate a lasciare il dito immobile nel punto in cui avete percepito la sensazione cutanea per alcuni secondi. Noterete che la percezione va via via scomparendo sino alla mancanza della percezione stessa. Non so come si chiama questa “anestesia” percettiva. So che quando una presenza non viene più percepita la causa di questa anestesia, cioè della mancanza di sensazione, è da ricercare in un fenomeno che si può sintetizzare con la parola “abitudine”. L’abitudine è un dato per certi aspetti “naturale” ma per altri aspetti molto pericoloso. Ne sanno qualcosa gli amanti.

    Questo vale anche per la società che se non sollecitata da narrazioni che creano stimoli continui, capaci di creare reazioni psichiche, aderisce passivamente ai fenomeni culturali senza rendersene conto. Se un dato reale e negativo, come il fenomeno mafioso nel senso più ampio del termine, non viene percepito come pericoloso e non lo si rifiuta, si finisce per assumerlo come normalità e ci si identifica con esso.

    «molti italiani, secondo me, – affermava Enrico Berlinguer nella famosa intervista su La questione morale si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più».

    Forse Berlinguer non lo sapeva ma stava parlando del funzionamento della “macchina mafia”.

    Left del 5 marzo 2016, questa settimana in edicola, ha pubblicato una lettera di Vincenzo Musacchio (Giurista, direttore della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise) titolata La mafia e la corruzione è ovunque, inutile nasconderlo.
    La lettera ha dato uno stimolo che mi ha suscitato una reazione: la reazione è ciò che sto scrivendo.


    I mafiosi dice Musacchio non sono solo i grandi boss che troviamo descritti dall’informazione mediatica. La mafia è un metodo. Il metodo mafioso è ormai una metastasi che pervade l’intero sistema Italia. Possiamo definire con l’espressione verbale “mafiosi” tutti coloro che gestiscono i «gangli vitali della società senza usare nessuna violenza ma utilizzando le loro armi più potenti: il denaro, la scalata sociale, il potere».

    Questa mafia è quindi composta, dai colletti bianchi inseriti in tutte le amministrazioni della Stato, nell’imprenditoria, nel giornalismo, nelle Università, negli ordini dei professionisti, nella sanità, e ovviamente nella politica.
    Intorno a questo gotha mafioso ruotano gli interessi privati di milioni di cittadini, distribuiti su un lunghisima scala, in cui vigono le “regole” della collusione, del privilegio, dalla baronia, dalla raccomandazione, dello scambio di favori, e conseguentemente anche la regola dei «meriti negati – e quella dei – titoli completamente ignorati».
    Sembrerà assurdo ma anche chi ha tutti i meriti e i titoli per accedere a una carica deve, obtorto collo, umiliarsi chiedendo al barone di turno di “rimanere nei suoi pensieri”. E queste non sono eccezioni, è la regola.


    Ovunque, anche nelle piccole ed ignote associazioni di cittadini, c’è sempre un boss che, fregandosene altamente della democrazia, decide ciò che è giusto e sbagliato per il “bene dell’associazione” pensando solo al proprio tornaconto personale che a volte si limita solo a posizione di egemonia personale da spartire con i suoi “più simili”. E guai a chi si oppone all’apparato.


    La lettera di Musacchio si chiude con una citazione di Paolo Borsellino «Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo». E questo perché il fenomeno mafioso – per capire meglio consiglio di vedere la serie televisiva I Soprano – si basa soprattutto su un modo pensare delirante che porta a percepire l’altro da sé come un oggetto da sfruttare per proprio tornaconto personale. È un’abitudine, un abito mentale per il quale è più comodo divenire parte del sistema mafioso piuttosto che rifiutarlo e contrastarlo. Un pensiero del “tutti contro tutti” che, legittimato da una cultura millenaria,  nasce dal microcosmo familiare e va a formare il sistema mafioso “istituzionalizzato”. Istituzionalizzato perché l’eccezione della corruzione mafiosa è divenuta, invisibilmente ma oggettivamente, regola, costume, legge. Basta leggere (leggi qui) sul Fatto Quotidiano ciò che è accaduto al nuovo direttore della Reggia di Caserta reo di aver eliminato privilegi, lassismo e mafiosità all’interno dell’istituzione museale facendo sollevare le proteste dei sindacati.

    D’altronde anche i sindacati istituzionali come i cosiddetti servizi segreti di Stato, il sistema lobbistico internazionale e la globalizzazione selvaggia delle corporation non sono forse sistemi mafiosi? E se non lo fossero cosa li differenzierebbe dal crimine organizzato?

    Se trovate una differenza significa significa che avete perduto la vostra sensibilità percettiva.


    7 marzo 2016

    • Ed io che “la mafia” l’ho sempre “respirata”!? Già è come “un circolo virtuoso”, ma… “non si può lavorare sotto i ricatti di un padrone”. Perché!? Perché ne facciamo tutti le spese. Già, “il silenzio è mafia”: “…umiliarsi chiedendo al barone di turno di “rimanere nei suoi pensieri”.

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