• “Leggevo volentieri Apuleio ma non leggevo Cicerone” – Note a l’Evgénij Onégin di Puškin

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    puskin

    Gentilissimo Meis,

     

    Sono giorni che al mattino, camminando sulla diga tra more e canne, penso a Puškin, al suo Onégin e alla sua Tat’jana, e nella speranza che lei possa trovare la pazienza di seguirmi nelle mie passeggiate, prendo coraggio e le invio queste note a margine delle mie letture puškiniane.

    Ho trovato le opere di Puškin qui sull’isola, nella piccola biblioteca civica del paese; l’edizione curata da Lo Gatto (1) con la sua introduzione mi offre le sole nozioni che nel mio piccolo esilio posso acquisire sulla vita e l’opera del poeta. Vi leggo che di lui Dostojevskij disse: «Da noi tutto viene da Puškin», e anche: «Nella storia della letteratura russa come epoca della ricerca di una parola nuova sono considerati gli “anni quaranta”. Puškin li precedette o, comunque, li preannunziò. […] Senza la poesia di Puškin […] la letteratura russa non avrebbe conosciuto tutta la mirabile fioritura poetica che è stata tramandata ai giorni nostri dalla seconda metà del secolo XIX; senza la narrativa di Puškin non sarebbe nata quella di Gogol’ e non importa che più tardi la critica dividesse la poesia russa nelle due scuole puškiniana e gogoliana. […] poeti delle più diverse correnti posteriori, più o meno consciamente, si rifecero a lui nella loro formazione poetica. E la stessa cosa deve dirsi della sua prosa, se un Tolstòj poté affermare di aver tanto appreso da lui. […] assai più essenziale delle singole reminiscenze o delle influenze di questa o quella opera è l’azione che sulla letteratura del secolo XIX esercitò la maniera puškiniana nel suo complesso. […] A noi pare che si debba intendere il processo di liberazione della realtà in quanto tale da quelli che furono i sistemi, dapprima quello pseudo-classico, poi quello romantico, attraverso quello che noi abbiamo detto il lirismo puškiniano. L’esempio più tipico di questa liberazione fu dato dal «romanzo in versi» Evgénij Onégin, la cui classifica indica proprio, ante litteram, questo processo. Solo così a noi pare possibile spiegare lo sviluppo del realismo narrativo e della poesia lirica nello stesso tempo, la contemporanea aderenza a Puskin di scrittori di tendenze diversissime e la possibilità di risolvere i problemi più diversi del rapporto tra la vita e la letteratura che è stata la caratteristica di tutte le maggiori opere della letteratura russa del secolo XIX e della loro comprensibilità e comprensione anche fuori della Russia […].» (Lo Gatto, in op. cit., p. XXXVI)

     

    Ci sono voluti molti anni perché io arrivassi a Evgénij Onégin e che riuscissi a commuovermi ancora per l’opera e il destino di un poeta – emozione più difficile con un pezzo di vita alle spalle. E sono tante mattine in cui mi domando, cosa davvero andasse raccontando Puškin nel suo “romanzo in versi” fatto di disgressioni quanto d’intreccio, che iniziò nel 1823 (I cap.), quando, mandato al confino per la prima volta, portò avanti fino al sesto capitolo nel secondo esilio, e terminò nel 1830 da uomo libero ma bloccato ancora una volta (dal colera per un autunno) lontano da Pietroburgo – prima di andare sposo della donna per via della quale sette anni più tardi sarebbe stato costretto al duello che gli costò la vita.

     

    Puškin, dice Lo Gatto, fece fatica a lasciare il suo Onégin pur avendo posto la parola “fine” al termine dell’ottavo capitolo: «continuò a lavoraci intorno quasi che non gli fosse possibile distaccarsene, dopo avervi riversato tutto il se stesso di prima dell’inizio, averne fatto una specie di suo “diario Lirico” durante la composizione ed aver perfino preveduto quel che egli sarebbe stato dopo quella “fine”, segnata prematuramente come il destino segnò prematuramente la sua fine dopo pochi anni» (op. cit., p. XXIV). Oltre il “fine”, ci sono infatti i Frammenti del viaggio di Onégin e “sappiamo” che Puškin poi distrusse un decimo capitolo, «nel quale l’eroe del romanzo in versi sarebbe stato forse rappresentante proprio di quegli ideali che avevano animato gli insorti del 1825.» (ivi, p. XXIX) Secondo Lo Gatto, il poeta, portato a termine il poema «sentì quasi uno smarrimento» e che avrebbe espresso nella poesia Il lavoro, “nella quale tra l’altro era detto: «Come mai un’incomprensibile tristezza mi agita segretamente?… e sto come un inutile bracciante che, ricevuta la sua paga, è estraneo ad altro lavoro?» (ibidem). Gli ultimi canti dell’Onégin sono davvero lo struggente commiato del poeta alla propria creazione, ai propri personaggi e al lettore immaginario con cui ha dialogato durante i lunghi sette anni della composizione, ma la rima finale contraddice lo “smarrimento” individuato da Lo Gatto:

     

    Chiunque tu possa essere, o mio lettore, amico, nemico, io voglio da te separarmi adesso come amico. Addio, qualunque cosa seguendomi tu abbia cercato nelle strofe trascurate: ricordi irrequieti , riposo dopo la fatica, quadri vivi o parole pungenti, o errori di grammatica, voglia Iddio che in questo libriccino, per la distrazione, per la fantasia, per il cuore, per le critiche dei giornali, tu abbia trovato almeno un granellino. Dopo di che separiamoci, addio!

     

    Addio anche tu, o mio strano compagno di viaggio, e tu, mio fedele ideale e tu, vivo e costante, sebbene piccolo lavoro. Io ho conosciuto con voi tutto ciò che un poeta può invidiare: l’oblio della vita nelle tempeste del mondo, la conversazione dolce degli amici. Sono volati via molti, molti giorni, da quel tempo in cui la giovane Tat’jana e con lei Onégin in un sogno confuso mi apparvero la prima volta e l’orizzonte d’un libero romanzo io, attraverso il magico cristallo, non distinguevo ancora chiaramente.

     

    Ma coloro, ai quali in amichevole convegno lessi le prime strofe… alcuni non ci sono più, altri sono lontani, come disse una volta Sadi. Senza di essi Onégin è stato disegnato interamente e quella, che mi è stato modello della gentile ideale figura di Tat’jana… Oh, molto, molto ci ha tolto il destino! Beato chi la festa della vita lasciò presto, senza bere fino in fondo il boccale pieno di vino, chi non ha letto il suo romanzo fino in fondo e ha saputo staccarsene d’improvviso, come io dal mio Onégin. (VIII; XLIX-LI)

     

    Lui, dice il poeta, dal suo Onégin “ha saputo staccarsene d’improvviso”; e io camminando al mattino mi chiedo se, rapita dalla profondità e bellezza di quest’opera, letta per giunta nella traduzione italiana prosata senza neanche andare soggetta all’incanto del suo suono originale, non mi ritrovi smarrita io.

     

    A riassumere la trama di Onégin ci vuole poco: lui è un giovane, colto, disincantato e annoiato nobile russo che si reca in provincia, nella proprietà dello zio appena morto per assumerne l’eredità. Lì incontra il più giovane poeta Lénskij; diventano amici per “non aver nulla da fare”. Il poeta è innamorato di Ol’ga, figlia di vicini di Onégin, che presenta alla famiglia; all’occasione Onégin incontra Tat’jana, la figlia maggiore:

     

    E così, ella si chiamava Tat’jana. Né per la bellezza della sorella né per la freschezza del suo colorito avrebbe ella attirato gli occhi. Selvaggia, malinconica, taciturna, come una timida cerva boschiva, nella sua stessa famiglia sembrava una fanciulla estranea. Non sapeva essere carezzevole né col padre né con la madre; bambina, nella folla dei bambini non voleva giuocare e saltare, e spesso per tutta una giornata sedeva in silenzio presso la finestra. (II; XXV)

     

    Onégin, sulla via del ritorno, dice a Lénskij:

     

    «Davvero tu sei innamorato della minore?» E che? – «Io sceglierei l’altra, se fossi come te poeta; nei tratti di Ol’ga non c’è vita, proprio come in una madonna di Van Dyck; ella è tonda e rossa di viso, come questa stupida luna, su questo stupido orizzonte». (III; V)

     

    Tat’jana invece, a vedere Onégin, ne resta perdutamente innamorata:

     

    Tat’jana non ama per scherzo e si abbandona senza condizioni all’amore, come un bambino gentile. (III; XXV)

     

    Si innamora al punto di scrivergli la sua dichiarazione – la celebre Lettera di Tat’jana che riporto per intera, perché raramente è stato concesso raggio più limpido sull’animo femminile:

     

    LETTERA DI TAT’JANA AD ONÉGIN

     

    Io vi scrivo… Che più? Che cosa posso dire ancora? Adesso, lo so, è vostro potere di punirmi col disprezzo. Ma voi, per la mia sorte infelice conservando, almeno un briciolo di pietà, voi non mi abbandonerete. Dapprima volevo tacere; credetemi: della mia vergogna voi non avreste saputo mai, se io avessi avuto la speranza di vedervi nella nostra campagna, sia pure di rado, sia pure una volta la settimana, per potere soltanto sentirvi parlare, dirvi una parola, e poi pensare, pensare sempre a una cosa sola, e giorno e notte fino ad un nuovo incontro. Ma dicono che siete un misantropo: in campagna, nel deserto, tutto vi annoia; e noi…. Noi non brilliamo in nulla, sebbene si sia schiettamente contenti di vedervi.

     

    Perché siete venuto a trovarci? Nel deserto del paese dimenticato io non vi avrei mai conosciuto, non avrei conosciuto l’amaro tormento. Calmate col tempo le emozioni dell’anima inesperta (chissà!) avrei trovato un amico al mio cuore, sarei stata una moglie fedele e una madre virtuosa.

     

    Un altro!… No, a nessuno al mondo io darei il mio cuore! Ciò è destinato dall’alto, è volontà del cielo: io son tua; tutta la mia vita è stata un pegno del mio sicuro incontro con te; io so che tu mi sei mandato da Dio, fino alla tomba tu mio custode… tu mi apparivi nei sogni, ancora invisibile, tu mi eri già caro, il tuo sguardo bellissimo era per me un tormento, nell’anima risuonava la tua voce da molto… no, non era un sogno! Non appena entrasti, sull’istante, ti riconobbi, fui colpita, arsi tutta, e nel pensiero dissi: è lui! Non è vero? Io ti ho sentito: non eri tu che parlavi con me nel silenzio quanto aiutavo i poveri, o con la preghiera addolcivi la tristezza dell’anima turbata? E in questo stesso momento non forse tu, o dolce visione, sei balenata nella trasparente oscurità, e ti chini dolcemente sul mio guanciale? Non forse tu con tenerezza ed amore mi hai sussurrato parole di speranza? Chi sei: il mio angelo custode o un perfido seduttore? I miei dubbi risolvi: forse tutto questo è chimera, l’inganno di un’anima inesperta! E il destino è tutt’altro… Ma sia pur così! Da questo momento a te confido il mio destino, davanti a te verso le mie lacrime, imploro la tua difesa… Pensa: io sono qui sola, nessuno mi comprende, la mia mente si indebolisce… e in silenzio debbo perire. Ti aspetto: con uno sguardo le speranze del cuore ravviva o il sogno pesante interrompi, ahimé, con un meritato rimprovero!

     

    Finisco! Ho paura di rileggere… Mi sento morire di vergogna e di paura… Ma mi è garanzia il vostro onore, e arditamente ad esso mi affido… (III, op. cit., p. 868-69)

     

    Ma, ricevuta la lettera di Tat’jana, Onégin s’era vivamente commosso: il linguaggio dei verginali sogni aveva smosso in lui lo stormo dei pensieri; egli si ricordò della gentile Tat’jana e il pallido colorito, e l’abbattuto aspetto; e in un sogno dolce innocente con tutta l’anima s’immerse. Forse, l’antico ardore dei sentimenti s’impadronì di lui per un momento; ma egli non voleva ingannare la fiducia dell’anima innocente. (IV; XI)

     

    Al secondo incontro Onégin quindi respinge la fanciulla, tenendole la “sua predica”.  Tempo dopo, quando Onégin la rivedrà ad un ballo a Pietroburgo, Tat’jana sarà principessa, sposata ad un grasso generale e al centro dell’alta società, non per la sua bellezza ma per mancarle qualunque volgarità:

     

    A lei si facevano più dappresso le signore; a lei sorridevano le vecchiette; gli uomini si inchinavano più profondamente, afferravano gli sguardi dei suoi occhi; le signorine passavano più piano davanti a lei per la sala e più alto di tutti teneva su il naso e le spalle il generale ch’era entrato dietro di lei. Nessuno avrebbe potuto dirla bella; ma da capo a piedi nessuno avrebbe potuto trovare in lei quel che dalla moda autoritaria degli alti circoli londinesi è detto “vulgar”. (VIII; XV)

     

    Graziosa di un fascino senza sforzo, ella sedeva vicino al tavolo con la brillante Nina Voronskàja, questa Cleopatra della Nevà; e probabilmente voi converrete con me che Nina con la sua bellezza marmorea, pur essendo abbagliante, non poteva offuscare la vicina. (VIII; XVI)

     

    E a questo punto sarà Onégin ad innamorarsi e dichiararsi. Ma è tardi, il suo è un innamoramento sterile e tocca quindi a lei fargli una bella predica:

     

    «Onégin, io allora ero più giovane, e, a quanto pare, migliore, e vi amavo; ebbene? Che cosa trovai nel vostro cuore? Quale risposta? Solo severità! Per voi l’amore di un’umile fanciulla non era una novità! Anche adesso – Dio! – mi si gela il sangue se ricordo il freddo sguardo e quella predica… Ma io non vi accuso… in quell’ora terribile voi agiste nobilmente, voi avevate ragione di fronte a me; vi sono grata con tutta l’anima… (VIII; XLIII)

     

    Voi dovete, ve ne prego, lasciarmi; io so che nel vostro cuore c’è superbia e dritto onore, io vi amo (a che scopo fingere?) ma io mi sono data ad un altro, e gli sarò eternamente fedele.» (VIII; XLVII)

     

    “E qui in un momento per lui cattivo”, Puškin bruscamente lascia il suo eroe “per molto… per sempre.” (VIII; XLVIII)

     

    Manca ancora della trama il nocciolo tragico, del poeta Lénskij ucciso in duello da Onégin: dopo aver respinto Tat’jana e averla rimproverata per la sua imprudente lettera d’amore, alla festa che quella stessa sera si tiene in casa delle sorelle, Onégin si mette a fare la corte a Ol’ga, e Lénskij, offeso, lo sfida a duello: Onégin lo uccide ancor prima che riesca a prendere la mira.

     

    Con il che la storia sarebbe riassunta. Ma il “piccolo lavoro” di Puškin – un “romanzo libero”, “poema di venticinque canti”, composto di otto capitoli, più dei Frammenti, più d’un capitolo distrutto – deve consistere in altro ancora per incantarci tanto i pensieri. Quanto allo smarrimento di cui parla Lo Gatto, la singolare coincidenza tra vita e poesia, tra la fine di Puškin e quella del poeta Lénskij, ha certamente un suo peso, pur morendo Puškin a 38 anni dopo due giorni di agonia invece che sul colpo come il suo diciannovenne personaggio. Ma l’eroe della sua “opera capitale” è Onégin, non Lénskij che muore giovane, inutilmente e stupidamente, perché Ol’ga struggendosi per la sua morte,

     

    non ha pianto a lungo. Ahimé! La giovane fidanzata non è stata fedele alla sua tristezza. Un’altra ha richiamato la sua attenzione, un altro è riuscito ad addormentare la sua sofferenza con la lusinga d’amore. (VII; VIII – IX – X)

     

    La sua ombra di martire ha forse portato via con sé un mistero sacro, e per noi è andata perduta una voce vivificatrice, e al di là del limite della tomba non arriverà a lei l’inno dei tempi, la benedizione delle stirpi. (VI; XXVII)

     

    O forse anche un destino comune aspettava il poeta. Gli anni della giovinezza sarebbero passati, l’ardore dell’anima si sarebbe gelato. In molte cose egli sarebbe mutato, avrebbe abbandonato le Muse, si sarebbe sposato; in campagna felice e cornuto avrebbe portato una veste da camera imbottita; avrebbe conosciuta la vita nella sua realtà, avrebbe avuto la podagra a quarant’anni, avrebbe mangiato, bevuto, si sarebbe annoiato, sarebbe ingrassato, si sarebbe ammalato. E alla fine sarebbe morto nel proprio letto in mezzo ai bambini, alle donne piangenti e agli speziali. (VI; XXXVIII – XXXIX)

     

    Ma comunque sia, o mio lettore, ahimé, il giovane amante, il poeta, il sognatore pensoso, era stato ucciso dalla mano dell’amico! (VI; XL)

     

    No, non è Lénskij l’eroe di Puškin: è Onégin, colui che, “conosciuta  la vita nella sua realtà”, non diventa poeta ma l’assassino del poeta, lo “stranocompagno di viaggio” che l’autore dice di “amare con tutto il cuore” (VI; XLIII) e di cui non ha tempo di raccontare tutto, precisando piuttosto che,

     

    quello in cui egli era un vero genio, quel che sapeva più solidamente di tutte le scienze, ed era stato per lui fin dall’adolescenza e fatica e tormento e delizia, quel che occupava l’intero giorno la sua malinconico pigrizia, – era la scienza della tenera passione, che fu cantata da Nasone, per cui questi, infelice martire, finì la sua vita brillante e turbinosa nella Moldavia, nel fondo delle steppe, lontano dalla sua Italia. (I; VIII)

     

     

    Onégin non sta bene:

     

    Una malattia, la cui causa sarebbe da un pezzo tempo di ricercare, simile allo spleen inglese, in una parola, la chandrà russa si era impadronita di lui a poco a poco; di uccidersi, grazie a Dio, non aveva alcun desiderio, ma s’era raffreddato per la vita… nulla lo commuoveva, egli non notava niente. (I; XXXVIII)

     

    La chandrà l’aspettava in agguato e gli correva dietro, come un ombra o una moglie fedele.” (I; LIV)

     

    Il suo eroe è ammalato e ha tutta la simpatia di Puškin; cresciuti nel medesimo ambiente, hanno vissuto le stesse esperienze e Onégin, da uomo libero, con lui divide la stessa attesa della sorte:

     

    Mi piacevano i suoi tratti, l’involontaria dedizione ai sogni, la sua stranezza inimitabile e la sua intelligenza tagliente e fredda. Io ero esacerbato, egli cupo; avevamo conosciuto entrambi il giuoco delle passioni: per tutti e due la vita era opprimente; in tutti e due s’era spento l’ardore del cuore; tutti e due attendeva l’ira della cieca fortuna e degli uomini, all’alba stessa dei nostri giorni. (I; XLVI)

     

    Onégin non è poeta, per non riuscire ad esserlo:

     

    Apostata dei godimenti tempestosi, Onégin si chiuse in casa, sbadigliando prese la penna, voleva scrivere – ma il lavoro tenace gli dava nausea; niente uscì dalla sua penna, e così egli non finì nella corporazione litigiosa di quei tali, che io non giudico perché sono anch’io dei loro. (I; XLIII)

     

    Confidando nel tono ironico con cui rende l’ingenuità totale dell’ardore di passione del giovane “dallo sguardo eternamente ispirato” (II; XV), Puškin non sembra avere timore che il lettore possa trarre il parallelo tra lui è Lénskij, ma tiene piuttosto a sottolineare che lui e Onégin non siano identici, che costui sia una sua creazione:

     

    … Sono sempre lieto di notare la differenza tra Onégin e me, perché il lettore amante dello scherno o un qualche editore di ingegnosa calunnia, confrontando qui i miei tratti, non ripeta poi empiamente che ho scarabocchiato i mio ritratto, come Byron, poeta dell’orgoglio, come se fosse a noi impossibile di scrivere poemi su altro che su noi stessi! (I; LVI)

     

    Altra cosa che Puškin sin dal primo capitolo mette in chiaro, è che il “libero romanzo” che si accinge a scrivere, non è un poema d’amore per una donna in carne ed ossa:

     

    “Osserverò in proposito: tutti i poeti sono amici dell’amore sognatore: qualche volta care cose ho sognato e la mia anima ha serbato la loro immagine segreta; poi la Muse le ha animate […]. Adesso da voi, o amici, non di rado sento la domanda: «Per chi sospira la tua lira? A chi, nella folla delle gelose fanciulle, hai consacrato il tuo canto? (I; LVII)

     

    Lo sguardo di chi, agitando l’ispirazione, di una carezza tenera ha compensato il tuo pensoso canto? Chi il tuo verso ha celebrato?» Amici miei, nessuna, ve lo giuro! Dell’amore la folle inquietudine io sconsolatamente ho provato. Beato chi con essa ha unito l’ardore dei ritmi; egli così ha raddoppiato della poesia il sacro delirio, seguendole tracce del Petrarca, ha calmato i tormenti del cuore ed insieme ha afferrata la gloria; ma io, amando, ero stupido e muto. (I, LVIII)

     

    Passò l’amore, apparve la Musa, e si rischiarò l’oscura mente. Libero, di nuovo cerco l’unione dei magici suoni, dei sentimenti e dei pensieri; scrivo ed il cuore non ha angoscia; la penna, obliandosi, non disegna, accanto ai versi non finiti, né piedini né testoline femminili; la cenere spenta non s’infiammerà. Io sono sempre triste, ma le lacrime non ci son più e presto, presto la traccia della tempesta nell’anima mia si calmerà del tutto; allora comincerò a scrivere un poema di venticinque canti.” (I, LIX)

     

    Ciò detto alla fine del primo capitolo, nel 1823, Puškin si impegnerà a realizzare il suo poema nei lunghi sette anni di confino. E leggendo questo canto, io mi rendo conto di non avere mai letto più bella promessa di poeta e di poesia – ovvero, dato la promessa mantenuta, che mai io abbia letto più bella certezza di poesia. E se fosse questa certezza che si va compiendo seguendo il fluire dei canti, che al “fine” rende difficile separarsi dall’opera, per avvertire il lettore che lasciando il romanzo, egli lascia ben più di una storia? Lasciando l’Onégin, si lascia il Poeta che – sempre triste – ci ha reso partecipe del suo vivere creando; è come se giunti alla fine, assieme al suo poema, Puškin ci confidasse il pegno di memoria, non solo per Tat’jana e Onégin, ma anche per il filo del proprio tempo interiore – il suono del suo pensare e sentire – fluito nella solitudine della scrittura e che insolubilmente dalla loro storia egli ha intessuto nelle rime, affidandolo ad esse:


    […] sarebbe triste per me uscire dal mondo senza lasciare una percettibile traccia; vivo, scrivo non per le lodi, ma pure mi sembra, desidererei glorificare il mio triste destino, perché di me, come di un fedele amico, ricordasse almeno un suono. (II; XXXIX)

     

    Tristezza del lettore non avere modo di rassicurare il poeta con il piccolo fiore del suo grazie, che i suoi suoni hanno trovato la via dei nostri cuori.

      

    Questa mattina sul mio solito sentiero polveroso, mentre tenevo d’occhio il volo del falco spiluccando more in compagnia degli uccellini, all’improvviso mi ha  sfiorato il ricordo de I Demoni di Dostoevskij; forse perché egli disse che “da loro” tutto viene da Puskin oppure perché da qualche giorno, orfana dell’Onégin, continuo a vagare tra le pagine delle opere puškiniane facendo nuove scoperte, come questa della “poesia lirica” Il demone del 1823, anno in cui appunto, egli scrisse anche il primo capitolo dell’Onégin:

     

    In quei giorni, in cui mi erano nuove tutte le impressioni dell’esistenza – e gli sguardi delle fanciulle e il fruscio del querceto, e nella notte il canto dell’usignolo, – quando i sentimenti elevati, la libertà, la gloria e l’amore e le arte ispirate così fortemente agitavano il sangue, le ore delle speranze e dei godimenti velando con improvvisa nostalgia, allora non so quale genio malvagio cominciò a visitarmi in segreto. Tristi erano i nostri incontri: il suo sorriso, lo sguardo meraviglioso, i suoi caustici discorsi versavano nell’anima un freddo veleno. Con inesauribile calunnia egli tentava la provvidenza; chiamava fantasia il bello; disprezzava l’ispirazione; non credeva nell’amore, nella libertà; guardava alla vita beffardamente – e nulla voleva benedire in tutta la natura. (op. cit. p. 527)

     

    Azzardo se “il demone per eccellenza”, Nikolaj Stavrogin, ora quasi mi risulti una macchinazione di colui che era afflitto dalla malattia “la cui causa sarebbe da un pezzo tempo di ricercare”? Dostoevskij ai Demoni premise il passaggio del Nuovo Testamento, dei porci impossessati dai diavoli fuorusciti dagli uomini; e per cui, trattandosi di “Male innato” e pressato di esporre il suo mutante, a lui forse la malattia di Onégin neanche risultava? Rimane pur strano che al lettore postero che conosce I Demoni, la frase che Puškin premise all’Onégin – “Pètrie de vanité il avait encore plus de cette espèce d’argueil qui fait avouer avec la même indifférence les bonnes comme le mauvaises actions, suite d’un sentiment de supériorité, peut-être imaginaire” – evochi l’ambigua confessione di Stavrogin, dell’altrettanto ambigua violenza sulla fanciulla poi suicida che intendeva far stampare e diffondere per mezzo di volantini (scopo forse veritiero del trasferimento della famoso macchina tipografica nella cittadina di provincia dove si svolgevano “quei fatti”).

     

    Dove vadano a parare certi seduttori, Puskin lo sapeva bene quanto Dostoevskij. (2)  Ma Onégin, “in amore considerandosi un invalido”, non confessa mai “con la stessa indifferenza” né le sue cattive né le sue buone azioni: “libero dall’irrequieto potere delle passioni”, egli “ne parlava con un involontario sospiro di compianto” e concretamente, di queste passioni di Onégin, non ne veniamo a conoscere alcuna: è sempre Puskin in veste di narratore, a parlare delle proprie passioni per “i piedini” delle belle mondane e accennare alle proprie avventure, con smorfiose, gelose e moglie di mariti cornuti. Soltanto dipingendo la “beata esistenza” di Onégin, l’autore di passaggio annota che questa vita – tra letture, sonno, passeggiate, vino, solitudine e silenzio – comprendeva “qualche volta di una fanciulla bionda dagli occhi neri il bacio giovane e fresco, un cavallo ardente docile al morso.” (IV; XXXVII – XXXIX)

     

    Tat’jana invece, il sangue raggelato dallo sguardo e dalla predica di Onégin – dopo lo sgarbo di Onégin a Lénskij, la notte precedente il duello,

     

    fa un sogno strano: sogna, come se camminasse per un prato coperto di neve, avvolta nella tenebra triste: fra i cumuli di neve davanti a lei rumoreggia, turbina con le sue onde il bollente, grigio torrente, che l’inverno non ha incatenato; due piccole pertiche incollate dal ghiaccio, ponticello trabalzante e minaccioso, sono poste attraverso il torrente; e davanti al vortice rumoreggiante presa dalla perplessità ella si ferma. (V; XI)

     

    Come contro una rincrescevole separazione, Tat’jana mormora contro il ruscello; non vede nessuno che possa tenderle la mano dall’altra parte; ma un tratto un cumulo di neve si muove e chi ne viene fuori? – Un grande orso col pelo arruffato; Tat’jana – ah! Ma esso urla e le tende la zampa con gli acuti artigli; facendosi coraggio, con la mano tremante ella si appoggiò e con passi timorosi attraversò il ruscello; è passata – e che? l’orso la segue. (V; XII)

     

    Affretta allora il passo e giunge in un bosco, dove

     

    “ora un lungo ramo le si attacca improvviso al collo, ora le strappa con la forza dagli orecchi gli orecchini d’oro, ora nella neve fragile, strappato via dal grazioso piedino, sprofonda la scarpetta bagnata; ora ella lascia cadere il fazzoletto e non ha tempo di raccoglierlo; ha paura, sente l’orso dietro di sé, e ha perfino paura di sollevare l’orlo della veste; corre, e l’orso sempre di corsa dietro e già ella non ha più la forza di correre.” (V; XIV)

     

    A questo punto Tat’jana cade priva di sensi e l’orso la porta in una capanna e le dice: “Qui sta il mio compare; ti potrai riscaldare un po’ da lui!” Rinvenuta, dentro la capanna vede “dei mostri tutto in giro”, dal mezzo cane cornuto a un gambero a cavallo di un ragno e tra loro Onégin che, accortasi la comitiva di Tat’jana fa scomparire tutta la banda che urla “e mio!” con un suo “è mio”. E allora Onégin

     

    Attira adagio Tat’jana nell’angolo e la depone su una panchina vacillante e china la testa sulla spalla di le; ad un tratto entra Ol’ga, dietro di lei Lénskij; la luce brilla; Onégin agita la mano e gira gli occhi selvaggiamente, e insulta gli ospiti non invitati; Tat’jana giace più morta che viva.” (V; XX)

     

    La disputa si fa sempre più rumorosa; a un tratto Evgénij afferra un lungo coltello, e in un attimo Lénskij vien buttato a terra; le ombre terribilmente si addensarono: risuonò un grido insopportabile… la capanna vacillo. E Tanja terrorizzata si svegliò… (V; XXI)

     

    E ancora una volta rimaniamo perplessi, per sembrarci i tratti diabolico-fantastici conferiti a Onégin nel sogno di Tat’jana appartenere piuttosto allo Stavrogin dostoevskiano che non all’eroe puškiniano: come se Dostoevskij ne I Demoni con quel suo personaggio avesse trasformato in realtà e verità umana ciò che in Puškin apparteneva alla precisa sfera del sogno di Tat’jana fatto nell’altrettanto precisa circostanza di essere stata respinta da Onégin. Bisognerebbe essere capaci di interpretare i sogni per sapere quanta verità su Onégin c’è nel sogno di Tat’jana e quanto di essa sia fantasticata, ovvero – secondo la teoria dello psichiatra Massimo Fagioli(3)  – quanto in questo sogno sia intuizione e quanto sia negazione(4). Un’indicazione che l’intima natura di Onégin non debba necessariamente corrispondere a quella del potenziale mefistofelico stupratore-vampiro come a Tat’jana nel sogno risulta, può venirci dalle stesse precisazioni del carattere della fanciulla che Puškin prepone al racconto del sogno:

     

    Tat’jana credeva alle leggende della semplice antichità popolare e ai sogni e alla ventura delle carte e alle profezie della luna. Gli indizi la mettevano  in agitazione; misteriosamente tutti gli oggetti le preannunciavano qualche cosa, i presentimenti le opprimevano il petto. (V; V)

     

    La fanciulla, dotata di notevole intuito (in sogno prevede l’uccisione di Lénskij per mano di Onégin), è  anche molto e suggestionabile e inoltre

    Ella trovava nello stesso terrore una segreta delizia: così ci ha creati la natura, incline alla contraddizione.” (V; VII)

     

    Anche per questo “terrore che procura segreta delizia” ci vorrebbe lo psichiatra, a dirmi se nel caso del sogno di Tat’jana l’isteria potrebbe aver giocato un ruolo; fatto sta che quando ella alla fine allontanerà Onégin, gli confesserà un suo “agire imprudente”:

     

    Imprudentemente forse, io ho agito: con le lacrime mi ha pregato, scongiurato mia madre; per la povera Tanja tutte le sorti erano eguali… E mi son maritata.” (VIII; XLVII).

     

    Fidandoci della traduzione, raccogliamo l’inizio del sogno di Tat’jana, il “sogna come se camminasse per un prato coperto di neve” che poi diventa cumuli di neve tra cui scorre il ruscello bollente e contro il quale ella “mormora” “come contro una rincrescevole separazione”, e ci chiediamo se tutto ciò che di “fantastico” nel suo sogno accade, non accada proprio perché lei si inoltra nella neve, per non accettare la “rincrescevole separazione” che il ruscello caldo le prospetta forse per non sapere far fronte alla delusione di Onégin con la “separazione pulita”, di un dolore senza confusione per la freddezza altrui che porta a infettarsi di essa.

     

    Nelle giovanissime (e non solo), c’è l’ingannarsi per uomini sbagliati. Puškin dice che ciò sia dovuto al fatto che “quanto meno amiamo una donna, tanto più le riusciamo attraenti, e tanto più sicuramente la roviniamo tre le nostre reti seduttrici” (IV; VII); e per cui “la povera farfalla luccica e batte le ali multicolori, imprigionata dallo scolaro birichino, così il leprotto freme tra il seminato autunnale, vedendo all’improvviso da lontano il cacciatore nascosto nei cespugli.” (III; XL) Innegabile l’ingannarsi delle fanciulle, innegabile è anche che di loro c’è chi vada a caccia – i protagonisti dei fatti di cronaca e dei tanti thriller che riempiono le nostre librerie. Puškin, per certa letteratura del suo tempo, parlò di vizio trionfante:

     

    Ma adesso tutti gli spiriti sono annebbiati, la morale ci fa venir sonno, il vizio è amabile anche in romanzo, e già vi trionfa. Le assurdità della musa britannica turbano il sonno dell’adolescente; son diventati ora suoi idoli o il pensieroso Vampiro o Melmoth, il vagabondo tetro, o  l’ebreo errante, o il Corsaro, o il misterioso Sbogar. Lord Byron, con una riuscita fantasia ha rivestito di triste romanticismo anche il disperato egoismo. (III, XII)

     

    Tat’jana scopre questi libri a casa di Onégin, lui partito dopo la morte di Lénskij:

     

    Il cantore di Giuarro e di Don Giovanni [Byron] e con lui due o tre romanzi, nei quali si riflette il secolo, e l’uomo moderno è rappresentato con sufficiente verità, con la sua anima immorale, secca ed egoista, smisuratamente dato alla fantasia e con l’intelligenza esacerbata che ribolle in azioni vuote. (VII; XXII)

     

    E leggendo le glosse di Onégin a margine di quei libri,

     

    comincia a poco a poco la mia Tat’jana a comprendere adesso più chiaramente – grazie a Dio – colui, per il quale dall’imperioso destino è condannata a sospirare: uno stravagante triste e pericoloso, una creatura dell’inferno o del cielo, angelo o demone sdegnoso, che cosa è egli? Forse un’imitazione, un fantasma meschino, oppure un moscovita col mantello di Harold, interpretazione di bizzarrie altrui o un vocabolario completo di parole alla moda?… Che non sia egli altro che una parodia? (VII; XXIV)

     

    Eppure Onégin non riesce a risultarci un “demone sdegnoso”. E per quanto suggestionati dalle letture dei loro rispettivi romanzi, ciò che tra Tat’jana e Onégin accade, ci sembra poco ad avere a che fare con certa letteratura: è una storia diversa, forse proprio per essere apparsa “Tat’jana e con lei Onégin” a Puskin “in un sogno confuso” quando egli ancora non chiaramente distingueva l’orizzonte d’un libero romanzo “attraverso il magico cristallo”… della sua arte poetica: Tat’jana, fanciulla peculiare che “sapeva essere carezzevole né col padre né con la madre”, si innamora di un uomo preciso per intuire in lui l’immagine che intimamente le corrisponde (“ancora invisibile, tu mi eri già caro, il tuo sguardo bellissimo era per me un tormento, nell’anima risuonava la tua voce da molto… no, non era un sogno!”). E questa Tat’jana prende la penna e de-scrive la sua immagine all’interessato che, per quanto dimentico, sa che di un sogno non si tratta, per sapere di esserne portatore.(5)

     

    Se già di per sé in Puškin è sovvertente la rivelazione che una donna possa avere il desiderio per serbare in sé l’immagine di uomo che le farà rifiutare chiunque ad essa non corrisponda (“un altro!… No, a nessuno al mondo io darei il mio cuore!”) e perseguire questa immagine nella certezza di incontrarla realmente in un uomo (“il pegno del mio sicuro incontro con te”), ha del stupefacente la perspicace consapevolezza di Tat’jana, che rivelando a Onégin l’immagine che ha di lui, andrà incontro al suo disprezzo (“Io vi scrivo… Che più? Che cosa posso dire ancora? Adesso, lo so, è vostro potere di punirmi col disprezzo”). Il che accade allora, proprio perché va a rinfacciargli una immagine che lei deve intuire avere lui di sé smarrito: la “perdita dell’immagine interiore” quale causa delle malattie psichiche, come Massimo Fagioli l’ha scoperta e formulata nei suoi scritti teorici per avere egli indagato a fondo l’origine delle malattie psichiche: la malattia di Onégin che reagisce raggelando il sangue a Tat’jana e la malattia della sempre “triste” Tat’jana che – sindrome di Giulietta? – a sua volta reagisce alla delusione con il sogno del ruscello caldo nella neve che scavalca per poi andare a finire… sposa fedele del suo grasso generale, stuprando la propria immagine interiore (“io allora ero più giovane, e, a quanto pare, migliore”).

     

    Tat’jana alla fine si sottomette alla volontà della madre e rinuncia al suo non-sogno di Onégin. Ma resta che con la Lettera di Tat’jana a Onegin Puškin ci ha regalato la perla di una giovane ribelle portatrice del desiderio femminile che sovverte l’immagine della donna-madonna, “stupida” vergine passivo strumento dell’arbitrio maschile.(6)  E come ha fatto allora Puškin a concepire la sua Tat’jana? La risposta potrebbe trovarsi proprio nell’ultimo capitolo dell’Onégin, dove Puškin traccia il suo cammino da poeta:

     

    In quei giorni, in cui nei giardini del Liceo fiorivo placidamente, leggevo volentieri Apuleio ma non leggevo Cicerone; in quei giorni, nelle valli misteriose, in primavera, con i gridi dei cigni, vicino alle acque, che splendevano nel silenzio, la Musa cominciò ad apparirmi. La mia cella studentesca s’illuminò  a un tratto: la Musa aprì il festino delle fantasie giovanili, e cantò le allegrie infantili e la gloria dei nostri tempi antichi e i sogni palpitanti del cuore. (VIII; I)

     

    Ed io, imponendomi come legge il solo arbitrio delle passioni, dividendo i miei sentimenti con la folla, portai la musa folleggiante al chiasso dei banchetti e delle tempestose discussioni, terrore delle pattuglie notturne. (VIII; III)

     

    Ma mi staccai dalla loro riunione e corsi via lontano… essa dietro di me. (VIII; IV)

     

    E, dimenticati della lontana capitale lo splendore e i festini chiassosi, in fondo alla triste Moldavia essa visitò le umili tende delle sterpi nomadi e in mezzo ad esse si fece selvaggia, e dimenticò la favella degli dei per miseri e strani linguaggi, per i canti della steppa a lei cara.. A un tratto tutto si mutò intorno; ed ecco essa apparve nel mio giardino come una signorina provinciale con un pensiero triste negli occhi ed un libro francese in mano. (VIII; V)

     

    Brillante Lo Gatto che parla di “formazione della fisionomia” in riferimento alla poetica di Puškin! (op. cit., p. XIX) Questa fisionomia interiore – che il poeta dice la sua “Musa” o anche “fedele ideale” – gli venne quindi dalle pagine dell’Apuleio; la tenne viva lontano dalla fatua mondanità classicheggiante e romanticheggiante, nutrendola dei “strani linguaggi” dei popoli della steppa, intoccati dalla cultura greco-romana e cristiana per poi farla vivere in Tat’jana –  un’immagine di una donna originalissima dal nome che “ricorda le stanze delle serve”: una selvaggia priva di volgarità, di profonda intelligenza dell’intuito e molto dotata anche con la penna!(7)  Puškin è riuscito a concepire questa immagine attingendo al proprio tesoro intimo, da estromesso dal sogno decabrista condiviso nella durissima solitudine del suo esilio e svolgendo per resistenza interiore quel “processo di liberazione della realtà” che dice Lo Gatto, e che noi intendiamo come liberazione dalla realtà culturale contingente e opprimente, che di “europeo” aveva molto e di “russo” ancora poco.

     

    E con l’immagine di Tat’jana nel cuore, Puškin nei lunghi anni di confino non solo scrisse L’Onégin, ma anche gran parte delle opere che raccoglie il prezioso volume, che ora, scadendo il mio isolamento, è tempo che io vada a riconsegnare alla biblioteca: vi ho assaporate le more mature del sole vivo della mente, del sangue e del cuore di un grande poeta; vi ho trovato più bellezza e conoscenza di verità umana, di quanto non ne abbia messo assieme con tante letture. Con il suo romanzo in versi, Puškin, del segreto della poesia, mi ha confidato più di molti libri dotti: libero dall’amore, quando torna il “fedele ideale”, il poeta cerca “l’unione dei magici suoni, dei sentimenti e dei pensieri” e senza angoscia scrive per “oblio della vita nelle tempeste del mondo”. E scoperto tra le sue opere anche il suo dramma breve Mozart e Salieri, la triste morte di Puškin non mi risulta più né fatale né enigmatica:

     

    Mozart a Salieri:                      

                                   Egli è un genio, come te e me. E il genio e il crimine sono due cose incompatibili. Non è così?

     

    Salieri (dopo averlo avvelenato):         

                                   Ti addormenterai per lungo tempo, Mozart! Ma se lui avesse ragione, ed io non fossi un genio? Genio e crimine sono due cose incompatibili. Non è vero: e Bounarroti? O è fiaba della folla ottusa, insensata, e non fu un assassino il creatore del Vaticano? (op. cit. p. 1053-1054)

     

    Sapendo Puskin per certo che genio e crimine sono due cose incompatibili, non poteva uccidere il suo avversario in duello, ma nelle circostanze “dell’opinione pubblica” calunniatrice che imponeva che “le opinioni del marito per una moglie virtuosa debbono essere sempre rispettabili” (IV; XXI), egli si vide costretto a sfidarlo. (8)

     

    Prima di chiudere il libro rubo ancora un po’ di viatico per il mio viaggio e mi metto in tasca queste due rime di una canzone popolare che Puškin cita ne La figlia del capitano:

     

    Se troverai una più bella di me, mi scorderai;

    Se troverai una più brutta di me, mi ricorderai (op. cit. p. 256)

     

    Puškin sicuramente, sempre si è ricordato della più bella venutagli dalle pagine di Apuleio. E vivendo io in quest’epoca movimentata, in cui l’origine della malattia degli Onégin e della tristezza delle Tat’jane è stata indagata a fondo, ma i pazienti s’attardano a guarire, quanto vorrei avere conosciuto prima queste rime: mi avrebbero risparmiato tante le pagine sprecate a chi di me non, o non più, ha voluto sapere.

     

    E se lei, gentilissimo Meis, mi ha seguito sin qui per i miei sentieri, grata per la sua compagnia mi congedo, porgendole i miei più sentiti saluti.

    Sinceramente

    Greta Bruni

     ———————————–

    NOTE

     

     [1] Aleksàndr S. Puškin, Opere, a cura di Ettore Lo Gatto, U. Mursia & C., Milano, 1967

     

    [2] Circa la faccenda delle fanciulle rapite si veda, Il fidanzato (1825) e circa il contrario, ovvero l’impegno d’onore e d’amore, il suo Pëtr Andréič ne La figlia del capitano (1836).

     

    [3] Per gli scritti teorici di Massimo Fagioli si veda la bibliografia completa delle sue opere sul sito della casa editrice , www.lasinodoroedizioni.it.

    [4] «Cita (si riferisce all’articolo di Maurizio Ferraris Il potere dell’immaginazione pubblicato su Repubblica il 13 luglio 2013 N.d.R.) nomi altisonanti: Gothr, Kant, e, interessante, Malebranche che ha definito l’immaginazione «la pazza di casa». Ma poi, deludente, cita la negazione di Freud che non aveva l’uso delle parole. Die Verneinung, il titolo del lavoro del 1925, non è la negazione, parola che parla della deformazione delle immagini oniriche che “avvolgono d’inganni la mente”. Per Freud è bugia cosciente “Non è mia madre”.»

    Massimo Fagioli, Parole. articolo pubblicato sulla rivista Left n.31- 2013.

     

    [5] Onégin nella sua “predica” dice espressamente: “ se potessi ritrovare il mio ideale d’una volta, certo voi sola sceglierei come compagna dei miei tristi giorni, pegno di tutto ciò che è bello, io sarei felice… quanto possibile!” (IV; XIII)

     

    [6] Onégin notò certo la diversità di Tat’jana dalla sorella facilona nei cui tratti “non c’è vita, proprio come in una madonna di Van Dyck” che è “tonda è rossa di viso, come questa stupida luna e come questo stupido orizzonte” – un’affermazione che a ben guardare, per l’equivocato parallelo tra “madonna” e “stupida luna, stupido orizzonte”, ha del blasfemo; il che ci ricorda che Puškin si buscò il secondo confino per essere accusato di “ateismo”.

     

    [7] Forse la fiera consapevolezza della “piccola differenza” che nelle sue vene scorreva sangue africano, per essere lui stato discendente da parte di madre dell’abissino Abram Hannibal la cui storia narra nel suo primo romanzo Il Negro di Pietro il Grande (rimasto incompiuto), può aver indirizzato Puškin sin da giovane a guardare oltre gli esclusivi orizzonti culturali “europei”. Puškin infatti è autore anche della poesia lirica Imitazioni del Corano.

     

    [8] Onégin pur sinceramente ravveduto per lo sgarbo fatto a Lénskij flirtando con Olga (VI; X) diventa l’assassino di Lénskij, perché nella vicenda si era immischiato “il vecchio duellista” – “cattivo, pettegolo, chiacchierone”-,  che con le sue “ridicole parole” trascina “lo sghignazzo degli sciocchi”: l’opinione pubblica che fa girare il mondo (VI; XI). Resistere alle calunnie è per certo l’impresa più ardua del mondo per esserne caduto vittima lo stesso Puškin.

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