• Le origini “organiche” della poesia*

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     di Gian Carlo Zanon

    “Lo stimolo della luce provoca, nella realtà biologica, la reazione che è la capacità di vedere. Nell’uomo c’è, simultaneamente, un movimento: la fantasia di sparizione, che è capacità di immaginare. Essa  fonda la memoria senza immagine del “sentire” endouterino ed è fusione tra biologia e pensiero umano.”

    Massimo Fagioli, left, n.4 , 5 novembre 2010

    Parte prima

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    Premesse

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    «Se lei, Contessa, vede ancora la vita dentro i limiti del naturale e del possibile, l’avverto che lei qua non comprenderà mai nulla, a noi basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé».

     Luigi Pirandello, I giganti della montagna

    Questo articolo nasce da una esigenza di ricerca ‘scientifica’ sull’origine della poesia. Ricerca sul farsi della poesia, del suo andare verso l’altro da sé, del suo accoglimento da parte dell’altro da sé. Si vorrebbe partire da assunti ‘condivisibili’ per poi addentrarsi in ipotesi di ricerca, forse azzardate, che, più che voler fissare verità rivelate, cercano risposte … anche indefinite.

    Cercare di legare di nuovo poesia e scienza, dopo quasi tremila anni in cui sono rimaste separate, è molto rischioso e c’è il rischio di rompersi il collo in un maldestro tentativo di sanare anche la più piccola crepa della voragine che ancora esiste tra i pensieri irrazionali e vivi della poesia e il pensiero scientifico/ teo-filosofico ingabbiato dalla ragione.

    Entrando nell’ambito della ricerca sulle interazioni tra arte e scienza si scopre immediatamente che  in alcuni periodi storici, come il Rinascimento, il filosofo, il letterato, il poeta, lo scienziato, l’artista, spesso convivevano in una sola persona. È il caso di Leonardo ma anche di Giordano  Bruno che aveva scoperto ‘scientificamente, utilizzando il metodo deduttivo, non verificabile, l’esistenza di «infiniti mondi». Esistenza confermata, dopo quattrocento anni poi, con il metodo scientifico inaugurato da Galilei. Bruno era scienziato, filosofo, letterato, poeta, e sapeva ‘vedere’ il macrocosmo, ovvero gli «infiniti mondi», e il microcosmo, cioè sapeva scrutare nel cuore degli esseri umani: «Voi sète quel ch’abbandonò se stesso/la sua sembianza desiando il vano».

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    Questa caratteristica di ‘molteplicità dell’essere’ rinascimentale, ricorda Archiloco e il suo primo eimì d’egò (io sono) che inaugurò la poesia lirica nel VI secolo a.C.: «E io sono un armigero del dio delle battaglie/ e il dolce dono delle Muse posseggo». Questa  capacità di essere, allo stesso tempo,  poeta e scienziato, ricorda anche il nascere della scienza, che intraprende la sua avventura come “scienza della natura”, mediando, come fece Eraclito,  il proprio linguaggio e i propri ritmi letterari dai poeti;

    «A chi scende/ in fiumi medesimi/altre e altre acque affluiscono …» E. fr. 91

    «Tu non puoi/ due volte discendere/ in fiume medesimo/ mortale esistenza/ due volte ottenere/ il medesimo stato. Ma per rapido ardore di scambio/ si scinde e si aggrega/ non prima né dopo/ ma in tempo medesimo/ si unisce, si disfa/ compare e scompare». E. fr. 12

     

    Come nel caso di Eraclito, i filosofi della natura, non solo utilizzarono un linguaggio poetico ‘visionario’ ma anche le forme letterarie proprie della lirica.

    Saffoealceo

    Ma il “problema” è complesso: da una parte i presocratici tentano di uscire dal mito utilizzando un linguaggio purificato dal pathos, cioè il logos, dall’altra però appaiono angosciati per la perdita di quel linguaggio poetico appartenente al mito, che sapeva esprimere l’essenza del reale. Il linguaggio della mitopiesi era il solo in grado di rappresentare l’esistente visibile fondendolo con l’invisibile realtà umana. Ma la ricerca dei presocratici provò con Talete, con Anassimandro, con Eraclito, a raggiungere, attraverso il logos, il cuore della verità, ovvero la realtà invisibile della natura organica.

    Proseguendo velocemente, per sommi capi, possiamo dire che solo in seguito – con il logos di Parmenide, prima, e poi con Socrate e Platone –  gli scienziati della natura, affrancandosi dall’animismo presente nel linguaggio mitico, diverranno ‘filosofi’ nel senso in cui si intende ancor oggi. In quel contesto storico, i filosofi, svuotando l’esistente dai contenuti ‘divini’, che rappresentavano le forze dinamiche e il movimento della natura umana e della fysis, la natura, non potranno più definirsi scienziati, perché, per essi, è il logos/arché ( ἀρχή) posto all’inizio di tutto, che crea dal nulla la “realtà vera”.

    Con Platone il logos dei presocratici, nato per combattere i dissoi logoi, ovvero i discorsi contradditori del mito, lentamente ma inesorabilmente, cade nelle mani del nemico: il logos. Ciò significa che il pensiero verbale dei presocratici, che si era sganciato dal mito ormai snaturato, si astrae dalla realtà interna delle cose e degli esseri umani, impoverendo di contenuto, e quindi di senso, l’esistente.

    Il pensiero razionale platonico nega, annulla e disperde culturalmente, quel nucleo invisibile che il poeta ‘vede’ sovrapponendo le proprie immagini interne alla realtà per poi rappresentarla poeticamente nelle varie forme artistiche. È in quel periodo storico, che va più o meno dal sesto al quarto secolo a.C., che si consuma il distacco insanabile tra poesia e filosofia con pochissime eccezioni che confermano la regola, vedi Lucrezio e il suo De rerum natura.

    Già nel politeismo, le divinità telluriche, strappate dalla profondità della natura e dalla realtà umana, vengono mitigate, alienate all’esterno, innalzate sino all’Olimpo metafisico. In seguito, con l’avvento del cristianesimo, ci penseranno retori e predicatori a spiegare alle genti che la filosofia, vale a dire scienza e sapienza, è sapere di dio infuso nei suoi sacerdoti. E così la filosofia diviene “ancella della teologia”. La mente/verbo divino della divinità cristiana, con il logos/arché , tutto crea, tutto sa, di tutto informa, per voce dei suoi sacerdoti/filosofi. I sacerdoti/filosofi, perdendo il corpo e il contatto con la realtà empirica, prendono la strada della religione monoteistica e dell’astrazione e li si potrà incontrare, alle porte dell’illuminismo, mentre ‘curano’ i malati con aforismi aristotelici.

    E la poesia? Bella domanda. Cosa rimane dell’idea/visione dell’umano e della natura ‘piena di dei’ che, prima dell’incesto tra filosofia e religione, si esprimeva in poesia? Qualcosa rimane, ma ciò che rimane è invisibile e quindi diabolico perché il daímon, che suggeriva l’agire a Socrate, nel frattempo si è trasformato nel demonio ribelle al dio dei monoteisti da combattere con roghi e genocidi.

    Questo non è il luogo e lo spazio per fare la storia della poesia anche perché il titolo dell’articolo parla delle “origini organiche della poesia”, mostrandoci altri sentieri da percorrere. Qui interessa comprendere la genesi del divenire poetico che trova la sua prima espressione, il suo primo ‘sintomo’, nello sguardo profondo e nel sentire del corpo del poeta.

    Possiamo, frettolosamente, dire che i poeti, dal 300 d.C., per quasi mille anni, abiteranno i luoghi della ribellione, del disordine, e dell’irrazionale, nella sua accezione negativa, che conserva ancor oggi; i poeti saranno compagni di sventura di maghi, attori, sciamani, guaritori; ma, come i loro consanguinei di pensiero, non saranno mai schiavi della ragione e non abbandoneranno mai quel vago e indeterminato sentire, legato alle sensazioni, ma non verificabile scientificamente.

    Questi dannati del sentire e del dire poetico, li ritroveremo dopo centinaia di anni nelle corti d’Irlanda, della Linguadoca, e poi nei castelli di Federico II, magari vestiti da giullari come Ciulo d’Alcamo; li troviamo anche ad Assisi dove Francesco ritrova una piccola – molto piccola – porzione di vocazione animistica nel Cantico delle creature. In ogni caso tutti questi poeti vivono il loro lirismo al margine delle società e nelle periferie della lingua ufficiale, il Latino, divenuto lingua morta dal punto di vista poetico, perché incapace di affondare nella realtà inconscia e raccontare il rapporto con l’altro da sé. Noemi Ghetti, nel suo lavoro L’ombra di Cavalcanti e Dante, afferma che la lingua italiana nasce come “rivolta dei poeti siciliani al latino ecclesiastico”, e quindi come rifiuto del ‘pensiero’ religioso sulla realtà umana inconscia.

    Vedere, verificare le origini della poesia è una impresa ardua. Anche perché guardare all’interno della poesia, e del suo farsi materia percepibile, utilizzando paradigmi scientifici, potrebbe divenire un fare che reifica l’oggetto della ricerca inaridendolo. Vivisezionare la creazione poetica con i ferri chirurgici della filosofia come se si praticasse una autopsia, o scrutarla microscopio della ragione, potrebbe annientare, o far svaporare pensieri viventi.

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    Che fare? Se il pensiero e il linguaggio della ragione non riesce ad entrare nelle profondità della creazione poetica si dovrà trovare un altro linguaggio per raggiungere lo scopo.

    Il titolo, Le origini organiche della poesia, potrà sembrare quantomeno singolare; la parola organico non appartiene alla semiotica del poeta, quindi potrebbe sembrare una forzatura sintattica, eppure nella lirica, da Sapphō in poi, si parla spesso di sensazioni che afferiscono al corpo e quindi a ciò che è il “sentire organico”.

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     Fenomenologia della sensazione

    Sapphō: “Simile in tutto agli dèi/ mi appare l’uomo che ti siede dinanzi/e ti ascolta così da vicino, mentre/ parli con lieve sussurro e ridi amabile:/ questa visione mi sconvolge il cuore in petto./ Basta che ti getti uno sguardo e mi si spezza la voce,/ la lingua s’inceppa, subito un fuoco sottile corre sotto la pelle,/ gli occhi non vedono più, le orecchie rombano,/ un freddo sudore mi scorre, un tremore tutta mi afferra,/ sono più verde dell’erba,/e poco manca che muoia…”

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    Emily Dickinson: «Se leggo un libro che mi gela tutta, così che nessun fuoco possa riscaldarmi, so che è poesia. È l’unico modo che ho di conoscerla».

    Due donne: la prima liricamente parla di sé, del suo sentire fisicamente gli affetti; la seconda, qui, è solamente una lettrice con una estrema sensibilità, che ci dice ciò che la poesia genera nel suo corpo, “mi gela tutta”, ed afferma che questo sintomo concreto è l’unico modo per sapere cos’è poesia e cosa non lo è.

    Come sperimentare scientificamente tutto ciò? È impossibile. E allora se non è verificabile non è vero? Un positivista, un razionalista, un materialista, forse, risponderebbero che sì, non è verificabile, quindi non esiste. Certamente risponderebbe così un individuo che ha perduto la fantasia interna², vale a dire la possibilità di scrivere poesie, vere, e/o di “sentirle”, con il corpo, come succedeva alla Dickinson.

    Eppure “si sa” che la poesia per il suo pathos e la sua capacità di sintesi crea improvvisi mutamenti neurovegetativi. Anche il romanzo può emozionare fino alle lacrime  però lo fa facendo percorrere al lettore un lento sentiero, la poesia no; la poesia è una porta che si spalanca all’improvviso, un vero e proprio fulmine fisico e mentale … simile alla pulsione?

    Spesso anche al poeta le immagini/fonemi della poesia appaiono all’improvviso come terre emerse dal proprio pensiero irrazionale, dalla propria semantica delle origini, quella dell’essere umano che non ha perduto la fantasia interna.

    “E io a lui: “I’mi son un che, quando

    Amor mi spira, noto, e a quel modo

    ch’e’ ditta dentro vo significando.”

    Dante (Purg. XXIV, vv. 49-57)

    Questa “fantasia interna”, “ch’e’ ditta dentro” ,  è la matrice della  poesia. Sono immagini/idee/fonemi che, come dicevamo, emergono dalle ‘viscere’ del poeta e, per mezzo di scrittura e lettura. Una fantasia interna che poi andrà ad abitare, come ospite inatteso, un lettore che magari vive in un’altra epoca, che parla un’altra lingua, che vive in altri luoghi. E qui c’è il discorso affascinante dell’universalità del linguaggio poetico capace di valicare culture, tempi e spazi infiniti, per causare in un altro corpo la vibrazione dell’origine … organica.

    E allora, cosa ci può essere di uguale se non la nascita tra individui così lontani nel tempo, nella cultura e nello spazio? La dizione “questa poesia mi va a toccare corde profonde” è quasi un luogo comune e potrà sembrare banale ma le lacrime che scorrono sulle gote di una moltitudine di lettori di poesie sono la prova organica del potere della poesia. Inoltre la sensazione provata dal lettore non è solo un fatto mentale astratto ma va a creare, non solo sinapsi fisiche, ma a modificare l’aspetto del viso e degli occhi e a volte la stessa postura del corpo, ma anche e soprattutto la sua immagine interna, ovvero la sua identità umana.

    Ora, cos’è questa “entità” in continua trasformazione che sta al confine tra il fisico e lo psichico capace di creare poesia? Qui sopra, usando le parole dello psichiatra Massimo Fagioli, il farsi della poesia è stato identificato con il concetto di pulsione fantasia; il suo divenire immediato memoria fantasia e poi, nel tempo percezione delirante del poeta/percezione fantasia.

    Per Pascoli il mezzo per giungere alla verità di tutte le cose, che si esprime nella poesia, è irrazionale; lui lo chiamava il fanciullo; ma viene anche definito sembianza e senso interno, Giordano Bruno;  fenomeno dello spirito, Hegel; l’aorgico, Hölderlin; l’incontro/scontro tra Apollineo e Dionisiaco, Nietzsche; nascita necessaria, Pirandello. E vi sono molti altri modi utilizzati per definire più o meno esattamente quel nucleo indefinito della fantasia inconscia che si palesa nella poesia. Molti modi per definire ciò che, tutti, avvertono ed immaginano come corrente d’acqua carsica che nei poeti non si è disseccata e che, come la rottura delle acque delle partorienti, scaturisce improvvisa a dire, a volte in modo oscuro, della realtà interna che ha attraversato.

    Si diceva, “molti modi di definire l’origine della poesia”; ora andiamo a vedere cosa dice lo psichiatra che dal 1971, con la sua tetralogia sulla Teoria della nascita ha scardinato almeno cent’anni, e cinquemila anni, di un non pensiero sulla psiche umana.

     Tracce mnesiche e l’irrazionale nella creazione poetica

    (Qui è meglio avvertire il lettore che sarebbe il caso di leggere Istinto di morte e conoscenza di Massimo Fagioli per potersi orizzontare meglio in questo mare magnum)

    Mi fu dato dagli dei -/quando ero bambina -/Ci danno la maggior parte dei regali – sapete -/Quando siamo nuovi – e piccoli/ lo tenni chiuso in mano -/non lo posai mai -/non osavo mangiare – o dormire -/per paura che sparisse/Se sentivo la parola “ricchi” -/ correndo verso scuola -/da labbra agli angoli delle vie -/ tenevo a bada un sorriso./Ricchi! Ricca semmai ero io  -/che portavo il nome d’oro -/e l’oro possedevo- in lingotti solidi -/la differenza – mi rese audace-

    Emily Dickinson

    “Impara a conoscere le cose non tanto per quel che appaiono, ma per le idee e per i sogni che provocano”

    Fernando Pessoa

     

    Senza entrare troppo in ciò che è specificatamente psichiatrico, e provando in tutti i modi di non alterare significato e senso dell’opera scientifica dello psichiatra Massimo Fagioli, Istinto di morte e conoscenza 1), si cercherà di utilizzare la sua teoria per tentare di conoscere le dinamiche psichiche che danno vita all’arte in generale e alla poesia in particolare.

    Nel suo lavoro, dato alle stampe nel 1971, Fagioli teorizza una fantasia interna che si origina nell’istante della nascita, per mezzo della fantasia di sparizione/pulsione fantasia verso la natura non umana. Lo psichiatra per spiegare la dinamica che porterà il nascituro a esercitare specifiche modalità di rapporto con la realtà naturale e con la realtà interna degli esseri umani, parte da quando il feto ha con il liquido amniotico «una relazione d’oggetto». Massimo Fagioli:

    «Ma in questo caso dobbiamo ammettere che , anche nella situazione intrauterina, il feto ha una relazione d’oggetto: con l’acqua del liquido amniotico. (…) in quanto (il liquido amniotico) dava calore e omeostasi.»

    Questa relazione della cute del feto con il liquido amniotico si trasformerà alla nascita in una immagine psichica:

    M.F. «La fantasia di sparizione, nel suo significato di annullamento di sé e dell’oggetto, per la realizzazione precedente del sé libidico intrauterino e per la carica libidica connessa che funziona come energia; si trasforma, alla nascita, in una realizzazione interiore di una immagine: la traccia mnesica dell’ambiente intrauterino»

    Questa realizzazione psichica del neonato alla nascita dell’immagine della «traccia mnesica» è  “memoria” cutanea che è la sorgente interna che crea la fantasia di sparizione/pulsione fantasia:

    M.F. «Avviene cioè che l’istinto di morte, per la esistenza di tale situazione libidica, costituisce la matrice dello sviluppo della vita psichica, della possibilità di fantasia e poi della possibilità di pensiero verbale e di parola.».

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    Traccia mnesica e fantasia interna che, alla nascita, diverranno capacità di immaginare e «possibilità di pensiero verbale e di parola» che, se non verranno perdute nei marosi del rapporto interumano, diverranno la materia prima per la creazione artistica:

    M.F. «Alla nascita, l’istinto di morte come fantasia di non esistenza del nuovo sé nato e in rapporto con la luce, conduce alla fantasia di esistenza dell’oggetto intrauterino come immagine di esso. Come memoria o traccia mnesica. Inconscio mare calmo».

    Il concetto fagioliano di inconscio mare calmo sarà in seguito sviluppato ed approfondito nella dizione capacità di immaginare.

    Dunque, alla nascita compare –  come reazione alla perturbante, per il neonato, realtà naturale, ovvero luce, aria, freddo  –   la fantasia di sparizione, che recupera la “traccia mnesica” prenatale:

    M.F. «L’annullamento dell’oggetto inanimato e come tale “aggressivo” e della propria relazione con esso conduce il bambino a un vedere interno, alla concezione interiore di una traccia mnesica.»

    Inoltre le tracce mnesiche del periodo prenatale durante il quale l’omeostasi dava benessere al nascituro, si trasformano in speranza/certezza dell’esistenza del seno, cioè di un essere umano che lo salverà dalla morte fisica e non gli impedirà di realizzare la proria realtà interna.

    La memoria fantasia dell’esperienza vissuta, delle sensazioni cutanee prenatali, crea, alla nascita, il pensiero: la realtà organica si trasforma in realtà psichica vale a dire in capacità di immaginare. L’immagine generata dalla capacità di immaginare diverrà matrice di quella che sarà poi la poetica di ogni individuo, vale a dire “visione soggettiva della realtà” nel senso più ampio.

    Più questa primaria capacità di immaginare si svilupperà nel rapporto interumano più la visione della realtà sarà profonda e ricettrice/donatrice di senso. La capacità di immaginare, se non verrà delusa ma si realizzerà nelle proprie infinite possibilità, nel rapporto con l’altro da sé, manterrà la primaria fusione mente corpo, e potrà divenire fonte di poesia. Al contrario le delusioni del rapporto con l’altro da sé provocherà una carenza psichica”,  vale a dire la perdita, totale o parziale, della capacità di immaginare. Carenza di fantasia interna che scinde il corpo dalla mente e porta il pensiero verso l’alienazione religiosa, capace solo di creare divinità inesistenti, e alla ragione e  tout court che non fa arte, perché non è legata all’utile, né ne comprende il senso.

    Certamente questi concetti scientifici non sono facili da spiegare succintamente, da parte di chi scrive – che non è neppure uno psichiatra –  e comprendere da parte di chi legge. Forse, però, per continuare questa ricerca sulle origine organiche della poesia, si devono tenere a mente poche cose fondamentali: la traccia mnesica diviene contemporaneamente memoria e vedere interno perché lo sguardo ‘veggente’ dell’artista fuso alla capacità di immaginare, nel momento della percezione, non percepisce meramente e superficialmente la realtà per quella che è in senso oggettivo, ma la vede/immagina e la interpreta e le dà un senso  attraversandola con propria soggettività poetica. Si potrebbe anche dire che la poetica dell’artista è la sua immagine interna attraverso la quale egli osserva il mondo.

    La capacità di immaginare/traccia mnesica, con lo sviluppo dell’essere umano, è possibilità di creare un’opera artistica dopo aver visto nella realtà il suo vero contenuto, con la percezione delirante del poeta/percezione fantasia.

    In questo modo, la rappresentazione artistica non sarà la copia dell’esistente, con buona pace della mimesis aristotelica, ma sarà ciò che l’artista, grazie al suo vedere interno , avrà ‘visto’ nell’invisibile della realtà osservata.

    È la traccia ‘incisa’, dall’omeostasi intrauterina, sulla cute del feto, prima della nascita, che, dopo la nascita, ‘permane’ nel bambino come traccia mnesica inconscia, che gli permette di ‘sentire’ e di ‘vedere’ l’invisibile ed anche di rappresentarlo, poi, artisticamente.

    Alma-Tadema-Il-poeta-favorito-1888

    Parte seconda

    Contenimento e perdita della “capacità di immaginare”

    «Sono cresciuto sul mare e la povertà mi è stata fastosa, poi ho perduto il mare, tutti i lussi mi sono sembrati grigi, la miseria intollerabile. Da allora aspetto. Aspetto le navi del ritorno, la casa delle acque, il giorno limpido. (…)

    Camus , L’été

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     Come veniva detto nel capitolo precedente, la capacità di immaginare primariamente, alla nascita, è speranza/certezza che esista un essere umano che allontani la morte fisica e che sia in grado di salvaguardare nel neonato la sua capacità di immaginare; nel senso che non gliela deve distruggere. Purtroppo le madri, spesso, sono troppo ‘povere’ di fantasia per non ledere nel bambino questa unità primaria: speranza/certezza e capacità di immaginare.

    La poesia lirica è gravida di accenni alla speranza, all’angoscia di perderla, al suo proteggerla dentro di sé, alla delusione che porta alla perdita della capacità di immaginare e del ‘sentire’.

    Ed è questa unità frantumata che molti poeti vorrebbero ricomporre. Nella poesia simbolista, – il verbo greco symballo, significa rimettere insieme due parti staccatesi – il poeta, attraverso l’espressione lirica, ricerca la fusione ontologica perduta.

    Emily Dickinson fr 23: «Avevo una ghinea d’oro -/La persi nella sabbia -/E nonostante la somma fosse modesta/E il paese fosse ricco-/Tuttavia, aveva un tale valore/Al mio occhio frugale -/Che quando non la ritrovai -/Mi sedetti e mi lamentai.(…) »

    Si potrebbe parlare di ricongiungere suono e senso, ma anche di ricomposizione artistica tra ricordo cosciente e memoria inconscia nata dalla sensazione acquisita contemporaneamente alla percezione sensitiva. Il simbolo unisce due parti: oggetto percepito e soggettività del poeta; ma anche: capacità di immaginare e vedere interno, garantendo la presenza di entrambi; in questo modo il simbolo è creazione inconscia, ed unisce, istantaneamente, attraverso quella percezione ‘strana”, che lo psichiatra Massimo Fagioli ha anche definito percezione delirante del poeta, due realtà: quella esterna, contenente/significante e quella interna, contenuto/significato, o meglio senso.

    I poeti simbolisti attraverso voces e scriptura  hanno cercato la tenue traccia di un linguaggio dimenticato capace di calmare l’angoscia per qualcosa di perduto che essi ‘sentono’ come una minaccia: ne hanno sensazione, ma non riescono a vedere, capire, cosa significhi la perdita della speranza dell’umano negli esseri umani. E la scrittura per essi diviene lo stalkerche li deve portare nel cuore delle profondità umane, che per la cultura in generale e per alcuni poeti è un “cuore di tenebra”.

    Baudelaire, Splenn:

    «… quando la terra è trasformata in una umida prigione dove, come un pipistrello, la Speranza sbatte contro i muri con la sua timida ala picchiando la testa sui soffitti marcescenti»

    La perdita della speranza è causata dalla delusione nel rapporto con gli esseri umani e del conseguente smarrimento della propria immagine interna, la quale è stata alienata nell’altro da sé che, quindi, la incarna.

    Rimbaud, Les riparties de Nina :

    «Col mio petto sul tuo petto,/ noi andremo, vuoi?/(…)Tu verrai, verrai; io ti amo!/Sarà bello, vedrai./Tu verrai, non è vero? e  poi …/Lei. – Ed il mio ufficio?»

    «Ed il mio ufficio? ». In questa ultima strofa, apparentemente banale, si sente come un tonfo: ma che c’entra? L’ufficio, le cose di tutti i giorni, la ragione. Il rapporto con la sola realtà cosciente emergono dalle labbra della donna a cui è stato ceduto il cuore che viene gelato. In questo modo viene descritta l’improvvisa delusione che lacera il senso del rapporto fra uomo e donna e crea un’ennesima ferita. Apparente piccola. Ma “mille piccole punture di vespa possono causare la morte”.

    Interessante è notare come, in alcuni poeti, questa caduta ontologica si rifletta negativamente sull’immagine femminile che viene negata nella sua realtà e divenga così la  femme fatal  amata e odiata; femmina e demonio come in questa visione angosciante di Baudelaire:

    Je te donne ces vers: «… O tu, che come un’ombra dall’effimera orma, calpesti con piede leggero e sguardo sereno gli stupidi mortali che t’hanno giudicata amara, statua dagli occhi metallici, grande angelo dalla bronzea fronte.»

    Si potrebbe azzardare un’interpretazione: forse i canti dei poeti qui trattati  sono l’espressione di una vitalità che però non è sostenuta da una identità umana capace di resistere alle delusioni. Ed è molto difficile, dopo la pubertà, uscire indenni dal rapporto con l’altro da sé se si è perduta, nei primi mesi di vita, la fusione originaria dell’Io.

    Rimbaud-ernest-pignon-ernest

    Perduta questa unità primigenia, rappresentata da un’immagine femminile, ai poeti non rimangono che i surrogati delle sensazioni, alcool e droga i quali, solo apparentemente, possano accompagnare  nella discesa nell’inconscio/inferno, come prova a fare Rimbaud. Questi paradisi artificiali, in realtà, servono solo per sedare, momentaneamente, la disperazione portando però alla desertificazione psichica: Petrarca prenderà l’abito talare; Baudelaire tornerà distrutto dalla madre “tanto amata”; Rimbaud diverrà mercante d’armi, di schiavi  e di morte.

    Ma, nei poeti, non c’è solo angoscia e perdita dell’unità primaria, c’è anche una possibilità di uscire indenni dai marosi dei primi rapporti interumani, conservando dentro di sé, quella “traccia mnesica/capacità di immaginare” di cui parla Massimo Fagioli. Contenere in sé la matrice della poesia, cioè quell’unità ontologica primaria, permette di esprimere l’essenza delle cose con segni che costruiscono parole per svelare l’invisibile.

    Giuliana Angeli³,Parole: «Parole/create dal niente/trasfigurate dal silenzio/della mia mente/eco del sentire/più sommesso/che allarga i cerchi vecchi/della magia dell’etere/assorbendo/un’essenza di vita nuova/che ricrei dal niente/le parole dette/il gesto fatto/i sogni pensati nello spazio/che non vuoi ridimensionare/perché vi culli/la speranza/toccata, penata/accarezzata/perché di quella forma/hai creato/per la tua salvezza/una essenza di vita/infiocchettata per la festa».

    Nella poesia di questa straordinaria donna e artista, poco sconosciuta al grande pubblico, c’è, in sintesi, forse grazie alla sua straordinaria identità umana, tutto ciò che si è cercato di dire in pagine intere di questo percorso ermeneutico, che vorrebbe svelare le origini della poesia. Questo canto di donna ci dice che il nucleo della poesia è «la speranza/toccata, penata/accarezzata» ed è il contenimento in sé della primaria capacità di immaginare che crea i presupposti della forma poetica «perché di quella forma/hai creato/per la tua salvezza/una essenza di vita/infiocchettata per la festa».

    Giuliana Angeli, non è più fra noi, non ci può dire cosa pensava mentre scriveva questa poesia; al lettore non rimane altro che far scorrere lentamente il pensiero sulle strofe e ‘vedere’ come le parole di questa poesia svelino la sua genesi: «eco del sentire/ più sommesso (…) assorbendo/ un’essenza di vita nuova/che ricrei dal niente/le parole dette/il gesto fatto/i sogni pensati nello spazio/che non vuoi ridimensionare».

     La poetessa ripete due volte il concetto «creare dal niente », ma poi, ‘contraddicendosi’, dice che il suo canto trova origine ne: «le parole dette/il gesto fatto/i sogni pensati nello spazio/che non vuoi ridimensionare/perché vi culli/la speranza …» Ed è da questo vissuto, più ‘sentito’ che percepito, che il poeta attinge, per poi creare il proprio solitario canto.

    Se è vero che nella norma, come dicono gli psichiatri, la percezione non è mai un fenomeno puro, per i poeti la visione del reale, che in prima istanza è oggettiva, senza qualità né aggettivi, viene trasformata ancor di più dalla percezione fantasia.

    Azzardando un’ipotesi di ricerca, si potrebbe dire che uno spazio ristretto, una solitudine, creano «Parole/create dal niente/trasfigurate dal silenzio/della mia mente». Da questo silenzio della mente spesso chiuso in un panorama materialmente ristretto, una stanza, Emily Dickinson, o un tiaso, Saffo, o celato da una siepe, Leopardi, emerge la grande poesia.

    Emily Dickinson: «L’andare da un mondo che conosciamo/a uno di muta meraviglia/è  come/l’ansia di un bimbo/a cui visuale è una collina,/oltre la collina è magia/e ogni cosa sconosciuta (…)»

    Inoltre  queste ‘solitudini’, materiali o mentali, spesso proteggono la creatività interiore dell’artista e divengono strumento per strappare al mutismo delle parole il senso invisibile del vivere umano celato sotto maschere sociali.

    Emily Dickinson: «Ciascuno mi saluta, passando,/ed io, le mie piume infantili/sollevo, in dolente risposta/ai loro tamburi sbadati».

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    Sicuramente la poetessa americana era un essere umano speciale, una ‘veggente’, direbbe Rimbaud, con una intensa capacità di immaginare e di trascrivere verbalmente le immagini inconsce non oniriche che si formavano nella sua mente alla vista di persone apparentemente normali e piacevoli. La sua onestà intellettuale, che non volle mai ridimensionare, intesa come fedeltà assoluta tra ciò che “sentiva/vedeva” e le sue composizioni poetiche, costringeva il suo sguardo a decifrare e poi la sua mano a trascrivere le apparenze oggettive. «Ciò che mai vorrei essere/è una persona finta, contraffatta-/qualunque stato di nequizia celi/la mia natura-/Mi sento meglio nella verità/
    É la salvezza, il cielo.»
    Possiamo dire che in lei, nella sua poesia, non vi era scissione tra pensiero inconscio e scrittura perché aveva mantenuto in sé la capacità di immaginare che fa la percezione delirante del poeta il quale ‘vede’ e racconta ciò che gli altri non vedono.

    È il ‘mistero’ del passaggio da un’immagine preverbale al verso scritto, ovvero ciò che deve succedere per fare si che una percezione sensoriale, e la simultanea sensazione, si trasformino in memoria inconscia e successivamente in poesia.

    Perché si vive un’esperienza materiale … e poi, tutto muta, il rumore attraversato da una immagine si fa suono, e la luce che avvolgeva la materia diviene iconografia verbale, rivelatrice di senso. Forse, tutto ciò, fa parte di quel segreto che non dice perché i poeti hanno nelle mani il cuore dei propri simili.

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    “Capacità di immaginare” o “cuore di tenebra”

    «… lui, aveva varcato la soglia, mentre a me era stato permesso di ritrarre il mio piede esitante ».

    Joseph Conrad, Heart of Darkness

    Forse Arthur Rimbaud aveva vagamente intuito questa modalità di far arte con il concetto di ‘poeta veggente’ però egli credeva che per arrivare al nucleo della visione si dovessero usare i modi della sregolatezza che finirono per fargli perdere, a soli diciotto anni, la capacità di immaginare che egli, fino ad allora, aveva mantenuto vivida nonostante la sua burrascosa esistenza.

    Il simbolismo del poeta di Charleville, era una modalità di ricerca della speranza perduta che lo immalinconiva e lo faceva continuare a cercare oltre il visibile.

    Tutto questo Rimbaud lo aveva capito molto bene, in una lettera a Démeny del 15 maggio 1871 egli scrive: «Mais inspecter l’invisible et entendre l’inouï étant autre chose que de reprendre l’aspect des chose mortes.» Anche se ne parlava usando altri termini, Rimbaud, che si definiva un déchiffreur, del reale, diceva che il poeta non deve riprendere e rappresentare il simulacro delle cose morte, vale a dire la percezione cosciente, ma indagare l’invisibile, cioè usare il proprio ‘vedere interno’.

    Molti poeti, come Rimbaud, portano con sé ‘tracce mnesiche’ di ciò che hanno vissuto che si sono trasformate in memoria inconscia; essi non descrivono la realtà ma, inconsapevolmente, colgono e trasmettono al lettore sensazioni vaghe e indefinite capaci di evocare l’intima essenza del reale.

    Per far questo essi non descrivono la realtà per quella che è ma cercano le parole che evochino dal profondo dell’essere memorie inconsce.

    Rimbaud, Le bateau ivre: « … Ma davvero ho pianto troppo! Le albe sono strazianti./ Ogni luna è atroce, ogni sole amaro: (…) Se io desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera/nera e fredda in cui, nel crepuscolo profumato,/un bambino malinconico, in ginocchio, lascia andare/una barchetta leggera come una farfalla di maggio.»

    La pozzanghera è ciò che gli è rimasto “dell’inconscio mare calmo”; la barchetta/farfalla è la sua immagine interna, divenuta poesia, che cerca un essere umano capace di intenderla e restituirgli l’immagine perduta.

    Poi, dopo il crollo della Comune parigina, e la violenza subita, il colpo di grazia, che annichilisce ogni speranza, viene descritto da Rimbaud, con un linguaggio che sembra evochi la dissociazione corpo/mente, l’impossibilità di recuperare le “tracce mnesiche” della propria nascita.

    Cœur Supplicié: «Il mio cuore triste sbava a poppa,/il mio cuore coperto di vile tabacco;/sputano su di lui schizzi di zuppa,/il mio cuore triste sbava a poppa,/fra i lazzi volgari della truppa (…) Itifallici e soldateschi/I loro frizzi l’hanno depravato!/Al timone si vedono disegni/ Itifallici e soldateschi./O flutti abracadabranteschi/ Prendete il mio cuore e lavatelo.»

    Rimbaud ha perduto la propria immagine interna , il suo cuore è stato portato al supplizio, e con lui la sua capacità di immaginare che era divenuta percezione fantasia… ma questo stato mentale non è natura umana, è malattia.

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     I poeti hanno raccontato la memoria inconscia

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    «Eppure spetta a noi, sotto le tempeste degli dei,/o poeti, stare a capo scoperto/ afferrare la folgore dei Zeus,/stringerla con la propria mano e offrire al popolo,/assorto nel canto, il dono divino.»

     Hölderlin frammento, da Come quando nel giorno di festa,

    Nella citazione in alto, Hölderlin, affermava il dovere etico dei poeti di dare la conoscenza del senso dell’esistenza agli esseri umani. E per 2500 anni circa è stato così, la speranza di una vita vera, fatta da sogni da realizzare, è stata tenuta in vita dai poeti che vedevano e raccontavano di un mondo invisibile, irrazionale legato al sentire di un corpo che si era salvato dalla scissione con la mente e non era stato annullato nell’alienazione religiosa. La filosofia staccatasi dalla realtà e salita nell’empireo metafisico della ragione astratta non poteva più rispondere alle istanze e alle domande ultime sull’essere e sul senso dell’esistenza.

    In questi ultimi decenni,  generalizzando un po’, gli epigoni della filosofia della natura sono diventati scienziati che salvano milioni di esseri umani dalle malattie fisiche ma non hanno ancora capito ciò che si nasconde nella stirpe umana  che non si muove solo per la sopravvivenza della specie come gli animali. Filosofi e scienziati, imparentati dalla ragione, sono ancora lontani dal dare un senso alla realtà umana invisibile; l’invisibile ed il senso dell’esistenza lo hanno abbandonato nelle mani della religione.

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    Eppure i poeti hanno raccontato, forse in modo un po’ criptico, di donne e uomini, della loro interiorità e “immagine interna” che è il senso ultimo dell’esistenza. Innumerevoli poeti hanno descritto quel mondo sconosciuto fatto di affetti, di desiderio, di istanze e realizzazioni umane che sono fondanti per l’identità dell’individuo. Giordano Bruno, affermava l’esistenza di un “senso interno” all’uomo, nel suo De Magia scriveva: « … oltre alle qualità sensibili, ce ne sono altre meno avvertibili, le quali agiscono oltre il corpo e i sensi, e giungono a toccare facoltà dell’anima più profonde, inducendovi affetti e passioni determinate.» Anche qui, non dimenticando il contesto storico e conoscendo la sua opera, si può dire che il Nolano non parla certo di nulla di metafisico. Anche se scrive «oltre il corpo» possiamo dire che se le cose di cui parla sono «meno avvertibili»  non sono però “non avvertibili” fisicamente e quindi non son cose dell’anima in senso religioso; e se non son cose dell’anima sono psichiche e chi non ha la scissione tra corpo e mente avverte queste qualità fisicamente. Non c’è bisogno di ulteriori spiegazioni, basta a pensare al brivido che ci corre lungo la schiena quando ci emozioniamo.

    Concluso questo tentativo di ricerca sulle origini della poesia, ci si separa dagli illustri autori che sono stati inseriti in questo percorso ermeneutico, che ha attraversato la storia del pensiero poetico e la sua rappresentazione nei segni della scrittura, chiedendo scusa se, non volendo, alcuni dei loro pensieri sono stati male interpretati e non perfettamente incastonati in questo lavoro. Le parole usate, con timore, hanno provato a cercare il senso e i contenuti invisibili della poesia e la loro ‘genesi organica’. Parole usate con timore perché come scriveva Hölderlin:“… le parole sono aria del mattino. Divengono sogni. Se uno non li pesa e non li comprende, cadono come errore nel cuore, e uccidono”.

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    *Articolo pubblicato, per la prima volta il 20 ottobre,  2010 su L’uomo in rivolta ( riveduto e corretto il 20 febbraio 2012)

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    Note :

    1) Massimo Fagioli, Istinto di morte e conoscenza, l’Asino d’oro edizioni. Edizione aprile 2010

    2) Le espressioni linguistiche:   fantasia interna,immagine interna, identità umana, immagine inconscia non onirica, percezione fantasia, pulsione fantasia, memoria fantasia, capacità di immaginare, memoria fantasia dell’esperienza vissuta, appartengono alla letteratura psichiatrica e alla poetica di Massimo Fagioli e sono apparse nei suoi libri, su vari giornali e riviste tra cui Left e Il sogno della farfalla.

    3) Giuliana Donati in Angeli, 1924 – 2009 è stata partigiana e impegnata politicamente per molti anni. Pittrice e scrittrice di rilievo, giornalista, ha lavorato come intervistatrice per la Doxa e per il servizio opinioni della RAI-TV. È stata collaboratrice di giornali e riviste, tra le quali il “Mondo Libero” edito a Dearbon (Michigan – USA). Ha pubblicato varie raccolte di poesie e il Centro Studi con l’UNESCO pubblicò le sue migliori poesie nel Quaderno d’Oro, nel 1961. Nel 1961 ha ricevuto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, il “Premio Cultura” e, per la seconda volta, nel 1968. Nel 1982, il Presidente Pertini, la nominò “Cavaliere al Merito” della Repubblica Italiana.

    I suoi quadri si trovano in collezioni pubbliche e private, esposti in tutto il mondo, New York, Washington, San Francisco, Buenos Aires, Parigi, Ginevra, Biarritz, Praga, Lima, Cracovia, Malta, Londra, Berlino, Miami, Sidney, e in tutte le maggiori città d’Italia.

    • un articolo illuminante difficile nel contenuto in alcuni punti. Purtroppo solo ora sto apprezzando l’opera del Prof Massimo Fagioli, Colmerò la lacuna come potrò….sono in Internet da poco. La genesi del divenire poetico è una scoperta bellissima così presentata. mi permetterà di leggere la Poesia con occhi e interesse diversi….. Ritornerò a leggere i suoi articoli Dr. Zanon e, grata di questo, la saluto cordialmente.

      • La ringrazio per i suoi complimenti … ma diamoci del tu … ti ringrazio per i tuoi complimenti Anna, e cercherò, e cercheremo, di essere sempre all’altezza di lettori come te. Grazie GCZ

    • grazie Gian Carlo, passo subito al tu e alla domanda, dopo aver riguardato i passi che mi interessano di più: se l’essere umano che allontana la morte fisica ed è in grado di salvaguardare nel neonato la capacità d’immaginare…che non deve distruggere…è la mamma, come può, farlo fisicamente è ovvio, distruggere in senso figurativo,quella famosa “fantasia interna” motrice della poesia, in suo figlio ?
      Ho ipotizzato una non accettazione…cioè il classico rifiuto di una gravidanza subita più che voluta, un suo trauma esistenziale non risolto quindi inconsapevole, il figlio frutto di una unione più che di amore o????. Grazie anticipate per la risposta se ci sarà, spero di non essere scontata, continuerò la ricerca..è appassionante e tu esaustivo.

      • Grazie per la fiducia Anna … proverò a rispondere,
        È chiaro che in prima istanza è la madre che deve salvaguardare e quindi, come dici tu, non distruggere nel bambino la fantasia interna ‘dono della nascita’ che potrà divenire in seguito possibilità di essere artista.
        Ed è quindi chiaro che solo se il bambino è il frutto di una propria realizzazione umana la donna lo potrà amare. Questo naturalmente a grandi linee. Perché è sufficiente che una persona che non è la madre, ad esempio una nonna, riesca con la propria umanità, a non deludere la certezza del neonato sull’esistenza dell’umano e il bambino ce la potrà fare. È anche chiaro che il primo anello della catena umana è fatto dal rapporto madre bambino, se quel rapporto fallisce, ci si ammala … perché la realtà umana è essere per il rapporto.
        Se un bambino nasce nel mezzo di una ‘crisi esistenziale’ oppure di una psicosi, oppure non desiderato è molto più difficile che ce la possa fare. Anche se non è detto.
        Non è un caso che solo una piccola minoranza di esseri umani diventa artista, musicista , poeta ecc.. Questo perché storicamente le donne difficilmente mettono un bambino come propria realizzazione identitaria. E non facciamoci ingannare dalle apparenze. Spesso, troppo spesso, si fa un bambino perché serve: a riempire vuoti interiori, a crearsi un surrogato di identità e un ruolo (la madre). A volte anche per cercare di incatenare un uomo accanto a sé. Ma tu che sei donna queste cose le sai meglio di me.
        Ho cercato di darti delle risposte, con la mia conoscenza, spero di averti risposto almeno un po’ .
        Buonanotte
        GCZ

    • Grazie infinite per l’attenzione…e la risposta immediata, condivido l’analisi , la ricerca è la conseguenza della curiosità per l’essenza dell’essere e dell’amore per la lettura. Il Prof. Fagioli è una bella mente, da lui sono partita e tu cogli le sue sfumature aiutando a capire la scientificità dell’argomento e i termini del linguaggio.
      Mi è piaciuto molto anche il tuo articolo su Camus…lo leggerò…come autore e seguirò anche te come scrittore e anche come giornalista.
      Ancora grazie, buon lavoro e buona estate.
      AF

    • “SEMBRA …LA VITA CHE FU|”

      Sembra che la mano trema
      nel sentire la vita che
      l’attraversa ed invece vibra
      come un raggio di luce.

      Sette ottobre duemiladodici.
      Scrivere è un’arma a doppio taglio
      perchè vuol dire incidere
      nella materia viva
      corpo caldo che sembra marmo freddo.

      Sembra marmo freddo la coscienza
      lucida che incide sulla pelle
      segni immutabili
      tatuaggi che difficilmente
      si cancellano.

      Ciò che resta è una macchia
      segno non più riconoscibile,
      ma non è vuota, forse
      tentativo di fare
      il vuoto.

      Ciò che resta è un volto
      non più riconoscibile come
      se fosse maschera funeraria
      simbolo di morte e della
      vita che fu|?

      Non lo sapremo mai perchè
      la vita è qui ed ora|
      Sembra …eppure è|

      Commento: scusate la trasgressione ma mi sono posto la domanda che cosè la poesia ed ho provato a fare la domanda a massimo fagioli …così la mia ricerca personale-soggettiva è arrivata sin qui|
      La poesia suestesa è una mia poesia ed è stata pubblicata da un mensile di annunci economici.
      Ciao alla prossima ricerca|

    • …tutto questo lavoro è per ricreare, anche insieme agli altri (l’Analisi Collettiva e tutti gli incontri pubblici, i libri, le riviste…) la propria immagine interna come proprio soggettivo sentire (…ammesso che non sia andata perduta per sempre!)!? …e mi vengono in mente le parole dI Massimo Fagioli, in quel del 1996 a Napoli: ” …voi mi avete detto che io ho disegnato un uomo che si guarda in uno spazio dove non si è mai potuto guardare “…così!

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