• Le mille e una notte di Scheherazade – Il genio e il mercante (seconda parte)

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    Edouard-Richter-Sheherazade

     

    Leggi qui i racconti precedenti delle  Mille e una Notte

     

    STORIA DEL SECONDO VECCHIO E DEI DUE CANI

    — Gran principe dei Genii noi siamo tre fratelli, questi due cani, ed io. Nostro padre lasciò morendo a ciascuno di noi mille zecchini. Con questa somma abbracciammo tutti e tre la stessa professione, e ci facemmo mercanti. Poco tempo dopo aver aperto bottega, mio fratello maggiore, uno di questi due cani, risolvette di viaggiare e di andar negoziando in paese straniero. Partì e rimase assente un anno. Al termine di questo tempo un povero, che mi parve cercar l’elemosina si presentò alla mia bottega, io gli dissi:

    Dio vi assista!

    E Dio vi assista ancor voi – egli mi rispose – è dunque possibile che non mi riconosciate più? Allora fissandolo con attenzione lo riconobbi.

    Ah! mio fratello – esclamai abbracciandolo – come avrei potuto riconoscervi in questo stato? Lo feci entrare in casa, gli domandai contezza dei suoi successi nel viaggio.

    Non mi fate questa domanda – mi disse – mirandomi vedete tutto. Esaminai i miei registri di compra e vendita, e trovando che aveva raddoppiato il mio capitale, cioè che io era ricco di duemila zecchini, gliene donai la metà.

     

    «Con questo, fratel mio, gli dissi, potrete dimenticare la perdita fatta.» Egli accettò i mille zecchini con gioia, ristabilì i suoi affari, e vivemmo insieme, come eravamo vissuti prima.

     

    Qualche tempo dopo, il mio secondo fratello, ch’è l’altro di questi due cani, partì egli pure ritornando dopo aver sciupato quanto possedeva. Lo feci rivestire, e come aveva cresciuto il mio capitale di altri mille zecchini, glieli donai. Rimise bottega, e continuò ad esercitare la sua professione.

     

    Un giorno i miei due fratelli vennero a propormi di fare un viaggio e di andare a trafficare con essi. Rigettai da principio il loro progetto. Ma essi ritornarono tante volte ad importunarmi, che dopo avere per cinque anni resistito costantemente alle loro sollecitazioni, alfine mi arresi…

     

    Quando bisognò fare i preparativi del viaggio e comperare le mercanzie di cui avevamo bisogno, si trovò ch’essi avevano mangiato tutto. Io non mossi loro il minimo rimprovero: e come il mio capitale era di seimila zecchini, ne divisi con essi la metà, dicendo loro: – Fratelli, bisogna rischiare questi tremila zecchini e nascondere gli altri in qualche luogo sicuro. Io diedi nuovamente mille zecchini a ciascuno di loro, ne tenni per me altrettanti, e nascosi le altre migliaia in un angolo della mia casa. Comprammo delle mercanzie del paese per trasportarle e negoziarle nel nostro.

     

    Mentre eravamo pronti ad imbarcarci per il ritorno, incontrai sul lido del mare una donna meschinamente vestita. Essa mi si avvicinò, mi baciò la mano e mi pregò di prenderla in moglie e d’imbarcarla con me.

     

    Io mi lasciai vincere. Le feci fare degli abiti convenevoli, e dopo averla sposata l’imbarcai con me e sciogliemmo le vele.

     

    Durante la nostra navigazione, trovai sì belle qualità nella donna che aveva presa, ch’io l’amava ogni giorno di più. Intanto i miei fratelli, che non avevano fatti i loro affari così bene come me, ed erano gelosi della mia prosperità, mi portavano invidia.

     

    Il loro furore giunse fino a farli cospirare contro la mia vita.

     

    Una notte, nel tempo che la mia sposa ed io dormivamo, ci gettarono nel mare.

     

    Mia moglie era Fata, e per conseguenza Genio: dunque ella non si annegò. Per me è certo che senza il suo soccorso sarei morto: non appena caddi nell’acqua essa mi rilevò, e mi trasportò in un’isola.

    Le mille e una notte

    Quando fu giorno la Fata mi disse:

    Vedete, marito mio, che salvandovi la vita, non vi ho mal compensato del bene che mi avete fatto. Sappiate che io son Fata. Voi m’avete trattata generosamente, ed io son lieta di aver trovata l’occasione di mostrarvi la mia riconoscenza. Ma sono tanto irritata contro i vostri fratelli, che non sarò mai soddisfatta se non avrò tolto loro la vita.

     

    Io ascoltai con ammirazione il discorso della Fata, e la ringraziai della generosità che mi aveva usata.

     

    Signora – le dissi – per ciò che riguarda i miei fratelli vi prego di perdonarli. Pensate che sono miei fratelli, e che bisogna render bene per male. Con queste parole acquietai la Fata: e quando le ebbi pronunziate, essa mi trasportò in un istante dall’Isola dove eravamo, sul tetto della mia casa, che era a terrazzo, e un momento dopo disparve.

     

    Io scesi, aprii le porte, e dissotterrai i tremila zecchini che aveva nascosti. Quindi andato alla piazza ove era la mia bottega l’aprii, e ricevetti da’ mercanti miei vicini molti complimenti sul mio ritorno.

     

    Quando vi entrai vidi questi due cani neri che vennero ad incontrarmi con aria sommessa. Io non sapevo che significasse tutto ciò. Ma la Fata che subito mi apparve, me lo spiegò.

     

    Sposo – mi disse – non siate sorpreso di veder questi due cani presso di voi; essi sono i vostri due fratelli.Io fremetti a queste parole, e le domandai per qual potenza si trovavano in quello stato.

     

    Son io che li ho cangiati, o per dir meglio fu una delle mie sorelle, alle quali ne diedi la commissione, e che nello stesso tempo ha calato a fondo il loro vascello.

     

    Voi perdeste le mercanzie che vi avevate, ma io vi compenserò altrimenti. Riguardo ai vostri fratelli io li ho condannati a star dieci anni sotto questa forma.

     

    Finalmente, dopo avermi insegnato ove potrei avere sue notizie, disparve.

     

    Adesso che i dieci anni sono compiuti io sono in cammino per andarla a cercare: e come passando di qui ho incontrato il mercante ed il buon vecchio che conduceva la cerva, mi sono arrestato con essi.

     

    Ecco la mia storia, o principe dei Genii: non vi sembra delle più straordinarie?

     

    Ne convengo – rispose il Genio – e rimetto perciò al mercante il secondo terzo del delitto di cui si è reso colpevole verso di me.

     

    Tosto che il secondo vecchio ebbe terminata la sua storia, il terzo prese la parola, e fece al Genio la stessa domanda dei due primi: cioè a dire di rimettere al mercante l’altro terzo del suo delitto, allorquando l’istoria che aveva da raccontargli sorpassasse in avvenimenti singolari, le due che aveva intese

     

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     STORIA DEL TERZO VECCHIO E DELLA PRINCIPESSA SCIRINA

     

    Io sono figliuolo unico d’un ricco mercante di Surate. Poco tempo dopo la sua morte, dissipai la miglior parte dei molti beni ch’egli mi aveva lasciati, e terminava di consumarne il resto cogli amici, allorché si trovò per caso alla mia mensa un forestiero che passava per Surate, per andare all’isola di Serendib. La conversazione cadde sui viaggi. Se si potesse – soggiunsi sorridendo – andare da un capo all’altro della terra senza fare cattivi incontri per istrada, domani ancora io uscirei di Surate.

     

    A queste parole lo straniero mi disse:

     

    Malek, se avete voglia di viaggiare, v’insegnerò, quando vogliate, un modo di andare impunemente di regno in regno.

     

    Dopo il pranzo, mi prese in disparte per dirmi che l’indomani mattina si recherebbe da me.

     

    Venuto infatti a ritrovarmi, mi disse:

     

    Voglio mantenervi la parola: mandate da un vostro schiavo a chiamare un falegname, e fate sì che tornino ambedue carichi di tavole.

     

    Giunti che furono il falegname e lo schiavo, lo straniero disse al primo di fare una cassa lunga sei piedi e larga quattro. Il forestiere, dal canto suo non stette in ozio, fece parecchi pezzi della macchina, come viti e molle, lavorando ambedue tutto il giorno; dopo di che il falegname fu licenziato, e lo straniero passò il giorno seguente a distribuire le molle ed a perfezionare il lavoro.

     

    Finalmente il terzo giorno trovandosi terminata la cassa, fu coperta con un tappeto di Persia, e portata in campagna, dove recatomi col forestiero questi mi disse:

     

    Rimandate i vostri schiavi e restiamo qui soli. Ordinai ai miei schiavi di tornare a casa, e solo restai con quello straniero. Mi affannava per sapere cosa farebbe di quella macchina, allorché vi entrò dentro, e impari tempo la cassa si alzò da terra volando per l’aria con incredibile celerità; e sicché in un momento fu lungi da me, per poi un istante dopo tornare a discendere ai miei piedi.

     

    Voi vedete, — mi disse il forestiero uscendo dalla macchina — una vettura assai comoda; vi faccio dono di questa cassa; ve ne servirete se vi pigli la voglia, quando che sia, di percorrere i paesi stranieri. Ringraziai lo straniero e gli diedi una borsa di zecchini.

     

    Insegnatemi — gli domandai poi — come si fa a mettere in moto la cassa?

     

    È cosa che imparerete presto, — mi rispose. Così detto mi fece entrare nella macchina con lui, poi toccata una vite fummo tosto sollevati in aria: allora mostrandomi in che modo si avesse a condursi per dirigersi sicuramente:

     

    Girando questa vite — mi diceva — andrete a destra, e girando quest’altra, andrete a sinistra: torcendo questa molla, salirete; toccando quella là, discenderete.

     

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    Volli farne il saggio io medesimo. Girai le viti, e toccai le molle; ed infatti la cassa, obbediente alla mia mano, andava secondo che mi piaceva e mi precitava a mio piacere o rallentava il movimento. Fatte alquante giravolte per l’aria, spiccammo il volo verso casa, e andammo a scendere nel mio giardino. Fummo a casa prima dei miei schiavi; feci chiuder la cassa nel mio appartamento, ed il forestiere se ne andò. Continuai a divertirmi co’ miei amici sino a tanto che ebbi terminato di mangiare il mio patrimonio; incominciai anche a prendere in prestito, sì che insensibilmente mi trovai carico di debiti. Vedendomi vicino a soffrire dispiaceri ed affronti, ricorsi alla mia cassa; la trascinai di notte tempo dal mio appartamento in una corte, mi vi chiusi dentro con dei viveri ed il poco denaro che mi rimaneva. Toccai la molla che faceva ascendere la macchina: poi girando una vite, mi allontanai da Surate e dai miei creditori. Feci, durante la notte, andare la cassa più velocemente possibile. Allo spuntar del giorno, guardai per un buco, ma non vidi che montagne, che precipizi, e una campagna arida.

     

    Continuai a percorrere l’aria tutto il giorno e l’indomani mi trovai sopra un bosco foltissimo, presso al quale era un’assai bella città. Mi fermai per considerare la città, non meno che un palazzo magnifico che presentavasi ai miei occhi, quando vidi un contadino nella campagna che lavorava la terra. Discesi nel bosco, e lasciatavi la cassa, mi avanzai verso l’agricoltore, al quale domandai come si chiamasse quella città.

     

    Giovane — quegli mi rispose — si vede bene che siete forestiero poiché non sapete che questa città si chiama Gazna. Quivi fa il suo soggiorno il buono e valoroso re Bahaman.

     

    E chi alberga — gli chiesi — in quel palazzo?

     

    Il re di Gazna — rispose l’ha fatto fabbricar per tenervi rinchiusa la principessa Scirina sua figliuola, dal suo oroscopo minacciata d’esser ingannata da un uomo.

     

    Ringraziai il contadino di avermi istruito di tutte queste cose, e volsi i passi verso la città. Com’era presso ad entrarvi, udii un gran rumore, e presto io vidi comparire parecchi cavalieri magnificamente vestiti, tutti montati sopra bellissimi cavalli, riccamente bardati. In mezzo a quella superba cavalcata c’era un uomo grande che teneva in testa una corona d’oro, i cui abiti erano sparsi di diamanti; giudicai che fosse il re di Gazna e seppi infatti nella città che non mi ero ingannato.

     

    Fatto il giro della città, mi risovvenni della mia cassa; uscito da Gazna, non acquietai l’animo sin che non fui giunto dove si trovava.

     

    Allora ripigliai la mia tranquillità; mangiai con molto appetito quel che mi restava di provvigioni e siccome capitò presto a notte, determinai di passarla in quel bosco. Non mi riuscì di addormentarmi: ciò che il contadino mi aveva narrato della principessa Scirina mi stava senza posa fitto nel pensiero.

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    A forza di pensare a Scirina, che io mi dipingeva più bella di quante mai donne avessi vedute, mi venne voglia di tentare la fortuna.

     

    Bisogna — dissi tra me — che mi trasporti sul tetto del palazzo della Principessa, e procuri d’introdur mi nel suo appartamento; chi sa che non abbia la ventura di piacerle?

     

    Formai dunque la temeraria risoluzione e la posi sul momento ad effetto. Sollevatomi in aria, condussi la mia cassa verso il palazzo. Passai senza essere scorto sopra la testa dei soldati, e discesi sul tetto. Uscito dalla cassa, sdrucciolai dentro per una finestra, entrando in appartamento adorno di ricche suppellettili, dove sopra un sofà di broccato riposava la principessa Scirina, che mi parve di abbagliante bellezza

     

    Me le accostai per contemplarla: mi posi poi ginocchioni a lei dinanzi, baciandole una di quelle bellissime mani.

     

    Si destò sul momento, e scorgendo un uomo in  atteggiamento d’intimorirla, diede un grido che presto attrasse presso di lei l’aia, la quale dormiva in una stanza vicina.

     

    Mahpeiker — le disse la Principessa — accorrete in mio aiuto; ecco un uomo; come poté egli introdursi nel mio appartamento? O piuttosto, non siete voi complice del suo misfatto?

     

    Chi, io? — ripigliò la governante — Ah! Questo sospetto mi oltraggia: mi stupisco più di voi di vedere qui questo giovane temerario; d’altra parte, quando pure avessi voluto favorire la sua audacia, come avrei potuto ingannare la Guardia vigilante che sta intorno al castello? Sapete che vi sono venti porte di acciaio da aprire prima di giunger qui; che sopra ogni serratura sta impresso il regio sigillo, e che il re vostro padre ne tiene le chiavi: non comprendo in qual maniera questo giovane abbia superate tante difficoltà.

     

    Intanto che l’aia parlava in tal guisa, io pensava a quello che avessi a dire. Mi venne in mente di persuaderla d’essere il profeta Maometto.

     

    Bella Principessa — dissi dunque a Scirina — non stupitevi, e neppure voi, Mahpeiker, se mi vedete comparire qui. Io sono il profeta Maometto, e non ho potuto, senza pietà vedervi condannata a passare i bei giorni vostri in un carcere, e vengo a darvi la mia fede per mettervi al sicuro della predizione di cui si spaventa Bahaman vostro padre. Mettete ormai, come lui, lo spirito in calma sul vostro destino ch’essere non saprebbe se non pieno di gloria e di felicità, poiché sarete sposa a Maometto. Tosto che sia sparsa nel mondo la nuova del vostro maritaggio, tutti i Re temeranno il suocero del gran Profeta, e tutte le principesse v’invidieranno sì gran sorte.

     

    Mahpeiker e la principessa prestarono fede alla mia favola.

     

    Passata la miglior parte della notte colla principessa di Gazna, uscii prima di giorno dal suo appartamento, non senza prometterle di tornare l’indomani. Corsi al più presto alla macchina, e postomici dentro, mi sollevai altissimo per non esser veduto dai soldati.

     

    Andato a discendere nel bosco, vi lasciai la cassa e presi la via della città, ove comprai delle vettovaglie per otto giorni, degli abiti magnifici, un bel turbante di tela delle Indie a righe d’oro, con una ricca cintura; né dimenticai le essenze ed i profumi migliori, impiegando in queste spese tutto il mio denaro.

     

    Rimasi tutto il giorno nel bosco ad abbigliarmi e profumarmi. Appena giunta la notte, entrai nella cassa e volai sul tetto del palazzo di Scirina, introducendomi nel suo appartamento come la notte precedente. La Principessa dimostrò come mi attendesse con molta impazienza.

     

    O gran Profeta! — mi disse — incominciavo ad inquietarmi, e temeva che aveste già dimenticata la vostra sposa. Ma ditemi, perché avete l’aspetto così giovanile? Io m’immaginava che il profeta Maometto fosse un vegliardo venerabile.

     

    Né v’ingannate — le dissi — ed è l’idea che aversi deve di me; e se vi comparissi dinanzi qual apparisco talvolta ai fedeli ai quali mi compiaccio di fare un simile onore, mi vedreste una lunga barba bianca: ma mi è parso che voi amereste una figura meno antica, e per questo presi la forma d’un giovane.

     

    Uscii nuovamente dal Castello sulla fine della notte, e vi tornai l’indomani sempre conducendomi così destramente, che Scirina e Mahpeiker non sospettarono nemmeno che vi potesse essere nel fatto nessun inganno.

     

    Al termine di alcuni giorni, il re di Gazna recossi, seguito dai suoi ufficiali, al Palazzo della Principessa sua figliuola, e trovandone le porte ben chiuse, ed il suo sigillo sulle serrature, disse ai suoi Visir che lo accompagnavano:

     

    Tutto cammina per il meglio. Sinché le porte del palazzo rimarranno in questa condizione, poco temo la disgrazia ond’è minacciata mia figlia.

     

    Salì solo all’appartamento di Scirina, che, al vederlo, non poté non turbarsi, ed egli avvistosene, volle saperne la cagione; curiosità che accrebbe il turbamento della principessa, la quale vedendosi finalmente obbligata, ad appagarlo, gli narrò tutto quanto era corso. Si può immaginarsi qual fu lo stupore del re Bahaman, allorché seppe di essere, all’insaputa sua, suocero di Maometto.

     

    Ah! quale assurdità — esclamò egli — ah figlia, quanto siete credula! O cielo! ben veggo presentemente come sia inutile voler evitare le disgrazie che tu ci riservi; l’oroscopo di Scirina è compiuto, un traditore l’ha sedotta!

     

    Così dicendo, uscì agitatissimo dall’appartamento della Principessa, e visitò da cima a fondo tutto il palazzo. Ma ebbe un bel cercare per ogni dove; che non iscoprì traccia veruna del seduttore.

     

    Per dove — chiedeva egli — può essere entrato l’audace in questo castello? Davvero ch’io nol so comprendere.

     

    Bahaman, attendendo la notte, si diede nel frattempo a fare nuove interrogazioni alla Principessa, domandandole prima di tutto se avesse mangiato con lei.

     

    No, o signore — gli disse la figliuola — indarno gli ho offerto vivande e liquori; non ne ha voluto, e dacché viene qui, non l’ho veduto mai prender cibo di sorta.

     

    Frattanto capitò la notte. Sedutosi Bahaman sur un sofà, fece accendere i lumi che furongli posti davanti sopra una tavola di marmo, mentre egli sguainò la spada, per servirsene al caso, lavando nel sangue l’affronto fatto all’onor suo. Un lampo che ferì gli occhi del Re lo fece rimbalzare, onde si avvicinò alla finestra per la quale gli raccontò Scirina ch’io doveva entrare e vedendo il cielo tutto di fuoco, gli si turbò l’immaginazione.

     

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    Nella disposizione in cui trovavasi l’animo del Re, io poteva presentarmi impunemente dinanzi a quel principe, ed anzi, lungi dal dimostrarsi furibondo allorché io apparvi alla finestra, si trovò tutto compreso da rispetto e timore; per modo che, lasciatasi cader di mano la sciabola e, cadendomi ai piedi, me li baciò, e mi disse:

     

    O gran Profeta! Chi sono e che ho io meritato per meritar l’onore d’esservi suocero?

     

    O gran re — gli dissi rialzandolo — voi tra tutti i principi musulmani siete il più attaccato alla mia religione: per conseguenza chi più dev’essermi gradito! Era scritto sulla tavola fatale che vostra figlia sarebbe sedotta da un uomo, il che i vostri indovini hanno benissimo scoperto mediante i lumi dell’astrologia: ma io pregai l’altissimo Allah di risparmiarvene il dispiacere mortale, e togliere simile disgrazia alla predestinazione degli uomini; il che egli si compiacque di fare per amor mio, a condizione che Scirina diventasse una delle mie mogli.

     

    Credette il debole Principe tutto ciò che gli dissi, e beato d’imparentarsi col gran Profeta mi si gettò una seconda volta ai piedi, per attestarmi il sentimento che aveva della mia bontà. Lo rialzai di nuovo, lo abbracciai, e lo assicurai della mia protezione, intanto ch’egli non sapeva trovar termini a suo grado abbastanza forti per ringraziarmene. Dopo di che, credendo che fosse creanza il lasciarmi solo con sua figlia, si ritirò in altra stanza.

     

    Rimasi con Scirina alquante ore: ma al finir della notte, me ne tornai al bosco.

     

    Nel medesimo giorno avvenne un incidente che terminò di raffermare il Re nell’opinione sua. Mentre egli tornava col suo seguito alla città li sorprese nella pianura un temporale, durante il quale mille lampi gli coprirono gli occhi.

     

    Accadde per caso che il cavallo di un cortigiano, incredulo a ciò che riguardava il preteso Profeta, adombrasse; s’impennò e gettò per terra il padrone che si ruppe una gamba.

     

    O miserabile! — esclamò il Re, vedendo cadere il cortigiano — ecco il frutto della ostinazione nel non volermi credere che il Profeta ti punisce.

     

    Portarono il ferito a casa sua, e non fu Bahaman sì tosto nel suo palazzo che fece pubblicare un bando per Gazna, col quale diceva esser suo volere che tutti gli abitanti celebrassero con grandi feste il matrimonio di Scirina, con Maometto.

     

    Si fecero pubbliche allegrezze, ed udivasi da per tutto gridare:

     

    Viva Bahaman suocero del Profeta! Tosto capitata la notte, volai al bosco, e presto fui dalla Principessa.

     

    Bella Scirina — le dissi entrando nel suo appartamento — voi non sapete ciò che oggi è accaduto nella spianata. Un cortigiano il quale dubitava che voi aveste sposato Maometto, espiò il suo dubbio; suscitai una tempesta della quale il suo cavallo si spaventò; ed il cortigiano caduto, si spezzò una gamba.

     

    Passato quindi alcune ore colla Principessa, me ne partii. Il giorno dopo il Re riunì i suoi Visir e i suoi cortigiani:

     

    Andiamo tutti insieme — disse loro — a chieder perdono a Maometto pel disgraziato che negò di credermi, ed ebbe il castigo della sua incredulità.

     

    In pari tempo, montati a cavallo, recaronsi al Palazzo della Principessa, ed egli, seguito dai suoi, salì all’appartamento di sua figlia, a cui disse:

     

    Scirina, veniamo a pregarvi d’intercedere presso il Profeta per un uomo che si è attirato il suo sdegno.

     

    So cosa è, o signore, — gli rispose la Principessa

     

    — Maometto me ne ha parlato.

     

    Tutti i ministri e gli altri rimasero convinti che quella era moglie del Profeta, e prosternandosi a lei dinanzi, umilmente la supplicarono a pregarmi in favore del cortigiano ferito: il che essa loro promise.

     

    Nel frattempo mangiai tutto ciò che aveva di vettovaglie, e siccome non mi restava più denaro, così il Profeta Maometto incominciava a non saper più dove batter la testa. Immaginai allora un espediente: — Principessa — dissi una notte a Scirina — abbiamo dimenticato di osservare nel nostro matrimonio una formalità: Voi non mi deste dote, e questa ommissione mi fa pena. Basterà che mi diate alcuno dei vostri gioielli, sola dote ch’io vi domandi.

     

    Scirina voleva caricarmi di tutte le sue gemme, ma io mi contentai di prendere due grossi diamanti, che il giorno appresso vendetti a un gioielliere.

     

    Era già quasi un mese che passando pel Profeta menava una vita piacevolissima, allorché capitò nella città di Gazna un Ambasciatore che veniva da parte di un Re vicino a chiedere Scirina in matrimonio.

     

    Mi duole — rispose Bahaman — di non poter accordare al re vostro signore mia figlia, avendola data in sposa al Profeta Maometto!

     

    L’Ambasciatore, da tale risposta del Re, argomentò che fosse divenuto pazzo.

     

    Prese congedo, e ritornò al suo Signore, che alla prima credette che quello avesse perduto il senno; poi imputando il rifiuto a disprezzo, fu punto, e chiamate al quante truppe, formò un grosso esercito, col quale entrò nel regno di Gazna.

     

    Questo Re chiamavasi  Cacem, ed era più forte di Bahaman; il quale dall’altra parte si preparò così lentamente a ricevere il nemico, che non gli poté impedire di fare grandi progressi.

     

    Intanto il Re di Gazna, informato del numero e del valore dei soldati di Cacem, incominciò a tremare, e radunato il suo consiglio, il cortigiano fattosi male cadendo da cavallo, parlò in questi termini:

     

    Io stupisco che il Re dimostri in questa occasione tanta inquietudine. Qual danno, tutti i Principi del mondo insieme uniti, possono mai cagionare al suocero di Maometto?

     

    Avete ragione; al gran Profeta appunto io devo rivolgermi. Ciò detto andò a trovare Scirina, a cui disse:

     

    Figlia, appena domani spunterà la luce del giorno, Cacem ci deve assalire, e temo non isforzi i nostri trinceramenti; vengo dunque a pregar Maometto di volerci aiutare.

     

    Signore — rispose la principessa — non sarà troppo difficile interessare alle nostre parti il Profeta: egli disperderà ben presto le truppe nemiche, ed a spese di Cacem impareranno a rispettarvi tutti i Re del mondo!

     

    Intanto — riprese il Re — la notte si avanza, ed il Profeta non compare: ci avrebbe egli abbandonati?

     

    No, padre mio — ripigliò Scirina — non crediate che egli ci possa mancare nel bisogno. Ei vede dal cielo, dov’è l’esercito che ci assedia, e forse sta già mettendovi il disordine ed il terrore.Era infatti ciò che Maometto aveva voglia di fare. Osservate, nel corso del giorno, di lontano, le schiere di Cacem, ne avevo notata la disposizione, e preso soprattutto di mira il quartiere del Re.

     

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    Raccolti quindi molti ciottoli grandi e piccoli, ne riempii la cassa, e sollevandomi verso mezzanotte nell’aria, m’inoltrai verso le tende di Cacem, tra le quali distinsi quella in cui il Re riposava.

     

    Tutti i soldati che si trovavano attorno alla tenda dormivano il che mi concesse di scendere, senza che alcuno mi scorgesse, sino ad una finestra, d’onde vidi il Re coricato su un sofà.

     

    Uscii mezzo dalla mia cassa, e scagliando a Cacem un gran sasso, lo colpii in fronte ferendolo gravemente.

     

    Egli sentendosi colpire mandò un alto strido, che subito destò le guardie e gli ufficiali, i quali accorsi dal Principe, lo trovarono coperto di sangue e quasi senza sentimenti.

     

    Intanto io mi sollevai sino alle nubi, lasciando cade re una grandine di pietre sulla tenda reale e nelle vicinanze.

     

    Allora il terrore s’impadronì dell’esercito; i nemici di Bahaman, colti da terrore, si diedero alla fuga con tal furia, che abbandonarono equipaggi, tende, e ogni cosa gridando:

    Siam perduti! Maometto ci stermina tutti quanti. Il Re di Gazna restò assai sorpreso allo spuntar del giorno, quando si avvide che il nemico si ritirava. Si diede dunque a perseguitarlo coi suoi migliori soldati, e fatta strage dei fuggitivi, raggiunse Cacem, la cui ferita gl’impediva di correre prestissimo.

     

    Perché — si fece a dirgli — sei venuto contro ogni ragione e diritto nei miei stati? Quale motivo ti ho dato di farmi guerra?

     

    Bahaman — gli rispose il Re vinto — io mi immaginava che tu mi avessi negata la figlia per dispetto, e io ho voluto vendicarmi! Non potevo credere che il Profeta ti fosse genero: ma ora però non ne dubito, perché egli solo fu quello che mi ferì.

     

    Bahaman cessò di perseguitare i nemici, e tornò a Gazna, con Cacem, il quale morì della sua ferita.

     

    In tutte le moschee si fecero preghiere per ringraziare il cielo di aver confusi i nemici dello Stato, e quando fu notte, il Re si recò al palazzo della Principessa.

     

    Figlia — le disse — vengo a render grazie al Profeta di quanto gli debbo.

     

    Presto ebbe il contento che bramava, ché subito entrai per la solita finestra nell’appartamento di Scirina.

     

    Gettandosi subitamente a’ miei piedi, il Re baciò la terra dicendo:

     

    O gran profeta! non vi sono termini, per esprimervi tutto ciò che provo.

     

    Sollevai Bahaman e lo baciai in fronte dicendogli:

     

    Principe, voi poteste pensare che io vi negassi l’aiuto mio nell’impaccio nel quale per mio amore voi vi trovate: ho punito l’orgoglioso Cacem, che voleva rendersi padrone dei vostri Stati, e rapire Scirina, per metterla tra le schiave del suo Serraglio.

     

    Nuovamente assicurato il Re di Gazna che io prendeva sotto la mia protezione il suo regno se n’andò per lasciarmi Scirina in libertà.

     

    La qual Principessa non meno sensibile del Re suo padre all’importante servigio da me reso allo Stato, me ne dimostrò non minore riconoscenza, facendomi mille carezze. Poco mancò che quella volta non dimenticassi le mie parti: già stava per apparire il giorno allorché tornai alla mia cassa.

     

    Due giorni dopo, sepolto Cacem, il Re di Gazna, ordinò che si facessero per la città grandi allegrezze, tanto per la disfatta delle truppe nemiche quanto per celebrare solennemente il matrimonio della principessa Scirina con Maometto.

     

    M’immaginai di dover segnare con qualche prodigio la festa che si faceva in onor mio, e a tale effetto, comprata della pece, con dei semi di cotone ed un piccolo acciarino, passai la giornata nel bosco a preparare un fuoco d’artificio, bagnando il seme di cotone nella pece, e la notte, mentre il popolo si divertiva nelle strade, mi trasferii sopra la città, inalzatomi più alto che mi fosse possibile, accesi la pece, che colla grana fece un bellissimo effetto: poi ritornai nel mio bosco.

     

    Fatto dopo poco giorno, andai alla città per avere il piacere di udir cosa si direbbe di me. Mille discorsi stravaganti si facevano dal popolo sul tratto ch’io gli aveva giuocato. Tutti quei discorsi mi divertirono infinitamente: ma ohimè! mentre mi prendeva quel piacere la mia cassa, la mia cara cassa, l’istrumento de’ miei prodigi, vidi che ardeva nel bosco!

     

    Probabilmente durante la mia assenza s’appiccò alla macchina una scintilla, della quale non mi era avveduto, la consumò, sì che al ritorno la trovai tutta in cenere.

     

    Echeggiò il bosco delle mie grida e de’ miei lamenti e invano mi strappava i capelli e mi lacerava le vesti….

     

    Intanto il male era senza rimedio; bisognava prendere una risoluzione, né me ne restava che una sola: quella cioè di andare a cercar fortuna altrove. Così il Profeta Maometto, si allontanò dalla città di Gazna.

     

    Incontrai tre giorni dopo una grossa carovana di mercanti del Cairo che tornavano in patria; mi mischiai con essi, e recatomi al gran Cairo, mi posi a esercitare la mercatura. Girai molti paesi e visitai non poche città, sempre ricordandomi del mio felice passato. Finalmente invecchiato, capitai fin qua, imbattendomi nell’infelice a cui tu, o gran principe dei Geni, volevi toglier la vita.

     

    Il Genio, non appena n’ebbe udito la fine, accordò l’ultimo terzo della grazia del mercante, e poscia disparve.

     

    Il mercante non mancò di rendere ai suoi tre liberatori le grazie che loro doveva, e se ne tornò presso la sua sposa e i suoi figli, e passò tranquillamente con loro il resto dei suoi giorni.

    Continua …

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