• Las golondrinas de Tartessos (3) Racconto di Gian Carlo Zanon

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    Capitolo VI

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     L’immagine di Rocio si era presentata prepotentemente ai suoi occhi … ma non era una percezione, era ciò che rimaneva del pensiero notturno. Cercò di illuminare con il ricordo ciò che permaneva del sogno e lentamente alcune figure attraversate da un suono si accamparono nella sua mente: era in una grande sala, avvolta dal suono di un carillon; Rocio immobile ruotava su una piattaforma di legno rotonda e parlava con una voce metallica. Lui faceva le faceva un cenno di saluto ma lo sguardo della donna lo attraversava perdendosi alle sue spalle. Il sogno non finiva qui. Sapeva che c’era dell’altro ma le immagine non comparivano, rimaneva solo il suono di una voce di donna che lo chiamava a sé con il diminutivo che gli avevano appioppato in famiglia da bambino.

    Si guardò intorno, stava al sole ed era sudato nonostante la brezza marina. Tornò come un automa verso la panchina che ora era occupata da due ragazzi biondo cenere arrossati dal sole. Chiedendo scusa riprese la busta con la bottiglia di manzanilla che aveva lasciato lì e barcollando come un ubriaco si mise a camminare trascinando i piedi.

    Soffocava e il battito cardiaco continuava ad aumentare. Pensò ad un attacco di panico. Ne aveva letto in un articolo che Piero, il suo amico che faceva lo psichiatra, gli aveva consigliato prima dell’estate: «Leggilo è interessante, finalmente un articolo serio in questo mare di merda della psichiatria basagliana che continua a negare la malattia mentale». L’aveva letto, non ci aveva capito granché, si ricordava però che parlava di angoscia come ‘allarme dell’io’ e dell’attacco di panico come possibilità di entrare in una crisi risolutiva … si ricordava anche di un concetto più volte ripetuto nell’articolo, «com’era … a si ‘pulsione di annullamento’».  Cosa significasse esattamente ‘pulsione di annullamento’ non lo aveva capito molto bene ed era strano che solo adesso ricordasse quell’articolo ed era anche strano che quei pensieri gli avessero calmato il malessere fisico. «È come se avessi preso un ansiolitico», pensò, mentendo … non ne aveva mai presi.

    Ma era ancora sudato, vide il portone aperto di una piccola chiesa e vi entrò. Si sedette su una panca con tanto di inginocchiatoio. Il rumore della strada si era appannato. Immerso in quei suoni ovattati e nella semi oscurità della chiesa ripensò al suo incontro con Rocio.

     Capitolo VII

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    Era arrivato al Museo del Megalitico ansimante, non sapeva bene perché aveva voluto a tutti i costi rivedere quella donna.

    Ora seduto nel fresco della navata pensò che forse era stata una spinta coattiva che lo aveva costretto ad andare alla ricerca insensata di quella donna. Ma qualche ora prima lo aveva fatto, punto.

    Quando, dopo aver pagato il biglietto, entrò nelle sale del museo, sentì una voce di donna, la riconobbe subito come quella di Rocio. «È destino» pensò, «È stato un caso» pensava ora.

    Seguì il suono articolato al femminile e la vide: stava nell’ultima sala e spiegava in inglese a quattro turisti qualcosa che aveva a che vedere con l’architettura delle costruzioni a tolos scoperte di recente in Andalusia vicino alla città di Almeria. Stava in piedi su un gradino di una scala e la sua figura, emergendo sugli altri si delineava nettamente nel contrasto con la parete bianca della parete alle sue spalle. Lui le fece un cenno di saluto, ma lei non lo vide.

    «Forse lo ha fatto apposta» pensò ora, dopo che il ricordo del sogno lo aveva reso sapiente.

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    Mentre aspettava di essere notato squillò il telefonino. Agitandosi si allontanò e senza neppure guardare a chi appartenesse la chiamata spense il telefonino. Stava per riaccenderlo pensando che potesse essere Lei, ma la voce di Rocio suonò alle sue spalle: «Porque hai tornato? No, hoy estoy fatal, scusa il mio italiano, perché sei tornato al museo? » Lui sempre più a disagio per la telefonata a cui non aveva risposto, per il sudore che gli copriva la fronte, per la situazione che aveva immaginato diversa balbettò qualcosa come: «Volevo chiederti ancora un paio di cose a proposito dei caratteri che stanno su quel coso … sai quello che mi hai fatto vedere l’altro ieri». «Il pulitore di flechas? » chiese la donna con quell’italiano che non voleva entrare nei ranghi. «Si il pulitore di frecce» rispose sillabando accuratamente «frec-ce». La donna si tolse dagli occhi i capelli biondi: «Con tutto questo mudar de leguaje non so più neppure parlare la mia lingua, el castigliano». Poi gli sguardi si incontrarono e un silenzio pieno cadde tra loro come a suggellare una complicità. Rocio uscì per prima da quel silenzio che stava divenendo fatale. «Perché non mi offri qualcosa dal bere. Tengo sed. Possiamo andare nel mismo bar de l’otro giorno». «Non ce n’è un altro qua vicino?» chiese Lui senza staccare gli occhi dal suo viso. «Claro que sì» ed uscirono dal museo.

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    Erano passate solo pochissime ore dall’incontro con Rocio. Guardò l’orologio, e il tempo che sembrava esploso in mille pezzi senza lasciare traccia si fuse di nuovo con i dati della realtà di quelle poche ore dove era successo tutto: «Dunque sono uscito dall’albergo più o meno alle e quattro – pensò – e ricordo che sono ritornato alle cinque e mezza. Per rendermi conto della sua sparizione e a mandare a fan culo quello stronzo di Javier, ci avrò messo cinque, dieci minuti, ora sono le sei e mezza». Erano passate quindi due ore da quando si erano seduti in quella vineria all’angolo di Calle Sierpe a due passi dal Museo…

    «Cosa volevi sapere entonse? » Le chiese Rocio, come se non stesse succedendo niente.

    Ora Lui non si ricordava più esattamente cosa aveva detto e cosa si erano detti, il ricordo sballottato dalle emozioni si era infranto e lui affannosamente andava raccogliendone i pezzi.

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    La memoria gli raccontava sensazioni più che veri ricordi: gli sembrava che lei a un certo punto, forse per intiepidire un po’ quel rapporto che, secondo Lui, si stava inspessendo, avesse parlato ancora di Tartessos, ma di ciò che gli aveva narrato di quella Atlantide perduta rimanevano solo alcuni frammenti sparsi.

    «La verità di Tartessos è nascosta dentro la storia di uomini e donne abitanti quei luoghi entrati nel mito; i navigatori fenici partiti da Tiro tennero nascosta l’ubicazione della città nella quale compravano oro a poco prezzo, con racconti di mostri e prodigi che accadevano oltre le colonne che Ercole o Merkal avevano eretto alle porte che dividono mari e tribù».

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    Si, ora ricordava anche che la donna aveva anche parlato di un possibile eterarcato dove il maschio della specie muoveva il suo corpo e compiva i suoi atti con la mente attraversata da un’immagine femminile che sedeva al suo fianco e che i colonizzatori fenici non furono così violenti da imporre forzatamente la propria cultura alle popolazioni autoctone ma al contrario si lasciarono contaminare dai suoni espressi da donne e uomini che incontravano nei loro approdi. Disse anche che secondo lei la scrittura i fenici l’appresero dagli antichi abitanti di queste zone. Ne parlava Graves nella sua opera ‘La dea Bianca’, e …

    «Vieni sono in ritardo ma ti porto qui dietro in una libreria dove puedes tomar il libro di Ana Maria Vásquez Hoys, ‘Las golondrinas de Tartessos’ che racconta tutta esta chulissima historia.»

    Dopo dieci minuti egli aveva acquistato il libro, e aveva dovuto salutare una frettolosa Rocio, che era poi corsa via lasciandolo intontito in mezzo alla strada. Ma si era ripreso subito, e battendosi con il pensiero una mano sulla spalla si era detto mentendo: «Va beh, io ci ho provato! ». L’onore machista era salvo.

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    Ora seduto nella chiesa arrossata dal sole del tramonto che aveva invaso le lunghe finestre pensava a quando Lei poteva averli visti insieme: nel bar? In libreria?

    Ricordava che poi aveva comprato come alibi una bottiglia di manzanilla, che ora aveva ancora con sé ed era tornato in albergo di corsa sperando di trovare Lei ancora addormentata … e invece.

    Capitolo VIII

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    Lei stava seduta nel patio quando lo vide aprire la porta a vetri del hotel. Lui le passò a due metri senza accorgersi di lei accorgendosi che Lui portava gli occhiali scuri da sole. «Forse era per questo che non mi ha vista? » pensò. Notò anche che teneva fra le mani un libro e una busta di plastica con qualcosa dentro. Non lo chiamò, ne si alzò per seguirlo, così per gioco, poi ne avrebbero riso insieme. Anche se al suo passaggio sentì uno strano malessere.

    Si stava quasi alzando per raggiungerlo in camera da dove, visto la partenza della sera per Huelva, aveva già tolto la sua valigia affidandola alla reception, quando lo vide scendere trafelato, ripassare in mezzo ai tavoli del patio dove lei stava ancora seduta e avvicinarsi verso Javier acquattato davanti alla televisione dove 20 individui in mutandoni  rincorrevano senza posa un pallone. Si alzò dalla poltroncina un po’ preoccupata quando udì che diceva al ragazzo «Scusa Javier, ha visto, la mia… mia moglie … sono salito su, ma lei non c’è … e manca anche la sua valigia. È passata di qui? Ti ha detto qualcosa? L’hai vista passare? Uscire? Rientrare? »

    Mentre Lui pronunciava le ultime parole lei stava alle sue spalle a non più di tre metri. Intanto Javier guardava un po’ Lei un po’ Lui pensando ad uno scherzo, ma si fece serio quando d’impeto egli aprì la porta e si precipitò come un forsennato nella strada.

    Lei rimase paralizzata e anche il ragazzo della reception non sapeva che fare, che dire. Dopo qualche interminabile secondo Lei disse: «No pasa nada, tranquilo Javier, no hay problema».

    Poi, dopo aver riflettuto per un attimo disse sempre in spagnolo: «Se non c’è problema, questa notte rimaniamo ancora qui» e Javier riportò la valigia nella stanza.

    La porta era spalancata e il portiere la trovò seduta sul letto con un libro aperto sulle ginocchia guardando nel vuoto: nella pagina del frontespizio c’era appiccicato un post-it giallo scritto da Rocio: c’era il suo indirizzo e c’erano i telefoni e gli indirizzi di tre e-mail e c’era anche scritto:«Sto esposata, grazia di tutto, Rocio».

    Javier, aveva sentito odore di litigio. Non osò chiedere nulla e sgattaiolò via con un «Señora, si necesita algo …».

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    Lei si sentiva male e sola, immensamente sola. Girovagò per la stanza, guardò dalla finestra senza vedere nulla e fece un immenso sforzo per non farsi assorbire da pensieri parassiti che già assediavano la mente.

     Capitolo IX

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    E pensare che era stata così felice in quella maledetta città fino a che avevano incontrato quella stronza. Ora capiva quelle strane ‘assenze’ di lui che non c’era più da … due giorni, appunto. Anche quando stavano a pranzo o di notte nel letto insieme, lei sentiva qualcosa che non andava a cui non sapeva dare un nome. Gli aveva anche chiesto, piegando il proprio narcisismo: «Ma dove sei mi amor, a cosa stai pensando di così importante». Lui riprendendosi aveva detto. «A si, scusa, stavo pensando ancora alla corrida. Mi deve aver traumatizzato. Tutto ‘sto sangue».

    «La corrida un cazzo –  pensò  –  Ma guarda ‘sto stronzo» … era troppo incazzata per piangere sul ‘perduto amor’. Scese e uscì nella città: Javier la vide attraversare l’atrio come una Carmen infuriata e pensò che non avrebbe voluto per nulla al mondo essere nei panni del malcapitato.

    La strada ancora affollata di turisti la calmò. Si sedette al tavolo di un bar frequentato solo da indigeni e ordinò una horchata de chufa con fartons al cioccolato…fanculo Lui e fanculo anche la dieta.

    Poi, inspiegabilmente le venne da ridere. E rise, rise, rise fino alle lacrime che finivano di inzuppare il fartons. I pensieri andarono ai giorni passati insieme alla ricerca di qualcosa che le permettesse di separarsi da ciò che era successo  e, forse, anche da Lui. Magari senza odio. Senza odio? E perché senza odio?

    Certo che quel viaggio era stato così diverso dai soliti dove venivano rincorsi orari e si faceva suonare anche l’odiata sveglia dei telefonini per continui impegni presi: «Scusa sai ma siamo in Perù. Non è che ci si viene ogni giorno sulle Ande». E allora sveglia alle quattro per andare a vedere i condor che salivano dal Canyon del Colca al levar del sole.

    Qui era tutto diverso: al mattino stavano a letto fino a tardissimo e udivano città sconosciute crescere come il pane al lievito; dai suoni, che dai vicoli operosi si arrampicavano sui muri insinuandosi nelle imposte chiuse,  immaginavano uomini e donne al loro lavoro di ogni giorno.

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    Capitava, a volte, che il pensiero notturno, ancora appoggiato alle ciglia, veniva alla mente a qualcuno dei due, e quando succedeva si guardavano per qualche secondo non riconoscendosi perché, quello che inseguiva il ricordo del sogno, come ogni sognatore che ritrova i lembi onirici, era andato per un momento ove l’altro non poteva entrare …ma bastava poco perché i loro volti tornassero a ritrovarsi negli occhi dell’altro. Ma quando l’assenza si metteva tra loro, poi, rimaneva una muta domanda a librarsi nell’aria, per un tempo.

    E allora cercavano il silenzio dalle parole per parlare il loro linguaggio, che era fatto di niente che fosse visibile, e di tutto ciò che non si vede.

    Ognuno di loro amava di più cose dissimili eppure l’eco di una pelle più cavernosa lo udivano entrambi e questo li univa sempre al di là di ogni tesi di vita, e questo può comprenderlo chi ci capisce di sogni.

     

    Capitolo X

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    Erano le sette quando si decise ad uscire dalla chiesa anche per non udire le solite beghine che avevano iniziato una litania che, ad un non addetto ai lavori come Lui, sembrava un specie di rosario senza sgranamento dell’oggetto sacro.

    Si incamminò lentamente verso l’albergo, ci voleva arrivare il più tardi possibile: il pensiero di non trovarla era insopportabile. Quando giunse al barrio De Santa Maria, vide i festoni della feria e il palco mezzo smontato. Gli vennero alla mente le immagini della festa degli scaricatori del porto di Cadiz, dove avevano assistito ai festeggiamenti del Santo Patrono.

    Quella sera seduti sul muretto che sovrastava la piazza gremita avevano visto il cantador de flamenco aggirarsi per la calle addobbata con festoni già unti dal fumo dei chorizos che arrostivano sulle braci. Gli scaricatori della corporazione avevano apprestato il palco e il tablao per lo spettacolo che ogni anno allestivano in Plaza San Francisco de los pobres, loro patrono e protettore dei containers , vicino alla chiesa tardo barocca dove una composizione di azulejos rappresentava un Gesù Cristo, improbabile, che allietava i viandanti con un abbigliamento tipo Dolce e Gabbana: corona di spine scintillante su aureola raggiante; espressione tra il triste e il disgustato; occhi stralunati che guardavano in cielo e che sembrava volessero dire «a pa’, ma ch’ ho fatto per meritarmi questo? »; abito lungo plissé, azzurro, con stelle e astri ricamati dappertutto, … insomma una figura decisamente kitsch.

    Comunque sempre meglio di quei poveri cristi in croce che, prima della crocefissione del Cimabue, che aveva ridato umanità alla morte, stavano sopra quello strumento di tortura estasiati ed ieratici come stessero in poltrona, che sembrava volessero dire: «Ragazzi qui si sta da dio».

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    Dicevamo del cantante: un tipo improbabile, grasso, capelli lunghi unti, camicia sbottonata, anelli e altri monili d’oro che gli adornavano il collo, i polsi e le gengive … insomma un’altra figura decisamente kitsch se non fosse stato un puro jitano; fino a pochi secondi prima del cante  aveva allenato le corde vocali con sigarette senza filtro e boccali di birra gelata, e non c’era da scommettere un duro su un tipo del genere; eppure, quando si sedette sulla sedia del tablao,  che ancora conservava l’eco del taconeo  flamenco, divenne un grande che poteva competere anche con el Cameron de la Isla o El Cigala. Purtroppo il musicista al toque non sapeva neppure chi fosse Paco de Lucia e probabilmente quella chitarra, che strapazzava tra le dita, soffriva di depressione da ritmo.

    Mentre Lui si avvicinava all’albergo perso nei suoi ricordi, Lei si era alzata dal bar dove si era rimpinzata di delizie locali e ed era entrata quasi per caso nella pinacoteca di una chiesa aperta al pubblico dove erano esposti dei quadri del periodo barocco.

    Dopo aver girovagato distrattamente, senza quasi vedere nulla di ciò che era esposto, si fermò dinnanzi a un quadro con colori cupi.

    L’immagine che vide nella piccola pinacoteca della chiesa di San Juan de Dios racchiudeva in sé tutta la tragedia dell’alienazione religiosa: un vecchio frate, curvo su se stesso, fissava con occhi immobili e spenti, il fondo scuro della sua cella illuminata dalla fiamma irrequieta di una candela: la luce faceva balenare negli occhi dell’uomo una scintilla che apparteneva solo ad essa.

    Lei pensò che il vecchio ‘vedeva’ in quell’oscurità solo ciò che lui collocava con gli occhi di una mente cieca. Ciò che si affacciava alla mente del religioso non era percezione dei sensi  ma una figura che apparteneva al suo delirio creato per domare l’angoscia del vuoto interiore. Il contenuto di quel vuoto o almeno ciò che rimaneva di esso era lì, nel fondo scuro e vuoto della cella, e aveva la forma invisibile del suo dio. Egli guardava il dio dell’Assenza.

    La propria identità umana ormai svuotata di senso, si rifletteva nello sguardo opaco e si aggrappava a quell’immagine inesistente come fosse l’ultima ancora che  lo salvava dal mare tempestoso degli affetti deturpati che lo avrebbe portato alla pazzia.

    Lei pensò osservando da vicino il quadro, che forse, il vecchio frate, non potendo più domare l’angoscia, avrebbe calzato poi quel cilicio irto di chiodi, che il pittore aveva dipinto lì sul pavimento della cella. Quello strumento creato da una mente malata, che mortificava le carni, gli avrebbe dato il dolore fisico di un po’ di pace.

    Dopo qualche minuto si scostò dal quadro ed uscì dalla chiesa. Intanto i pensieri erano stati messi a maturare come vino da bere, con calma.

    Erano le sette e quarantacinque quando Lei e Lui si incontrarono sulla porta dell’hotel Argantonio. Questa volta, finalmente, Lui la vide.

    Capitolo XI

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    Lei lo guardò con aria interrogativa, Lui, non sapendo che dire goffamente le indicò la busta con la bottiglia. Un’occhiata di Lei lo gelò e rimase nella via come un palo piantato nell’Antartico, mentre lei entrava nell’hotel. Rimase lì qualche minuto e se non fosse stato per due clienti dell’albergo che uscendo dalla porta lo avevano costretto a spostarsi sarebbe rimasto paralizzato per ore con la mente confusa che non riusciva a mettere in ordine i pensieri.

    Poi faticosamente salì quelle scale fatidiche ed entrò, come un bue che varca le porte del macello, nella stanza.

    Lei non c’era, sentì lo sciacquone del bagno, sul letto ancora disfatto il libro aperto mostrava il post-it giallo. Lo lesse e si sentì perduto. Sentì la presenza di lei alle sue spalle, e con un sorriso stampato, tipo quello che aveva visto sulle foto che mostravano Berlusconi, si girò e disse: «Ma guarda questa … ma che film si è fatta, certo che le persone si inventano certe cose …» e intanto aveva appallottolato il post-it e lo aveva gettato nel suolo.

    Lei lo guardò come si guarda un malato cronico, del quale ci si può solo prendersi cura:

    «Senti Giovanni – non lo chiamava mai per nome – forse tu te ne sei dimenticato ma alle otto, e quindi tra venti minuti dovevamo prendere la corriera per Huelva . Ti ho anche telefonato ma tu mi hai attaccato il telefono e …». Lui la interruppe: «Ma io sono tornato alle cinque, cinque e qualche cosa, e tu non c’eri, e non c’era neppure la tua valigia, e sono stato in giro fino ad ora a cercarti, ma dove eri finita …».

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    Le mura dell’Hotel Argantonio di Cadiz ancora serbano il ricordo del suono amplificato della voce di Lei che, trasformatasi in una specie di soprano, scaricava tutto il suo disprezzo su quell’uomo che andava via via perdendo la propria immagine: «Sei proprio un stronzo, io stavo lì nel patio quando sei tornato. Tu mi sei passato a tre metri due volte e non mi hai visto. Che cazzo mi hai fatto? Mi hai fatto sparire brutto pezzo di merda? Ancora parli, stronzooo. E poi non raccontare cazzate su quella troia di Rocio che ti scrive “sono sposata” e poi ti indica anche la misura delle sue mutande. Era lei vero che ti voleva? Tu sei un santarello vero? Ma credi che sono scema , credi che non mi sia accorta di come sbavavi al museo. Altro che utensili paleolitici e segni arcaici … ma è inutile, parlare con te è come succhiare un sasso, hai lo stesso sapore. –  E finì abbassando la voce – Sei proprio un pezzo di merda».

    Poi spossata si sedette sulla poltroncina ancora invasa dal disordine di Lui, rimanendo in silenzio per una ventina di minuti. Con le mani nei capelli guardava il pavimento e pensava.

    Anche Lui guardava il pavimento ma i pensieri stavano ancora girando cercando un ordine logico.

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    Dopo dieci minuti però riuscì a mettere insieme i ricordi di quel pomeriggio, incastrando pezzi di immagini in una sequenza coerente. Capì ad esempio lo sguardo di Javier che aveva giudicato sarcastico ed invece, poveraccio, era solo perplesso per la situazione … insolita. Capì anche che Rocio probabilmente aveva scritto e poi infilato il post-it mentre lui guardava nell’altra stanza della libreria alcuni libri tanto per darsi un contegno. E capì anche che quando era rientrato in albergo dopo la sua ‘avventura amorosa’ lei era lì che lo aspettava, e che non sapeva nulla: non aveva visto Lui e Rocio né al bar né al museo. Solo dopo letto quel maledetto post-it, di cui Lui ignorava l’esistenza, Lei aveva capito dove era andato, con chi si era incontrato.

    Quando Lui era tornato Lei era lì. Tutto sommato non era successo nulla con Rocio, ma Lui l’aveva fatta sparire. L’aveva fatta sparire prima di tornare all’albergo dissolvendola nei suoi pensieri acidi.

    La voce calma di Lei lo tolse dai pensieri: «Senti Giovanni adesso intanto dobbiamo dormire qui. Fatti dare una stanza da Javier e porta via la tua roba. Ormai autobus per Huelva non ce ne sono più; poi domani è domenica e io voglio stare al mare a prendere il sole che mi hai fatto perdere oggi per le tue …stranezze – poi improvvisamente reagì agli occhi di lui, che si erano persi per guardare il suo volto un po’rasserenato, alzando di nuovo la voce  — oh svegliati!  Mi stai a sentire! »  Lui la ascoltava, e la sentiva anche ed era così felice di essere strapazzato da lei, così felice. «Allora – pensava – non è tutto perduto, si può ricominciare . Certo ho fatto un po’ lo stronzo ma ora pian piano ci riprenderemo».

    Lei lesse i suoi pensieri. Stava per rimettersi ad urlare, ma si fermò, sconsolata.

    «Senti Giovanni, stammi a sentire, lunedì si parte per Huelva, abbiamo fatto questa viaggio per vedere questa … cosa, e voglio vederla e … poi si vedrà, va bene? ».

    Lui disse sì con il capo, si alzò lentamente, raccolse le sue cose mettendole alla rinfusa nella valigia e nello zaino, si fermò sulla porta e mormorò «Ok, allora ci vediamo domani mattina». Lei, che per tutto il tempo era rimasta seduta sulla poltroncina guardando il pavimento, alzò gli occhi su di Lui e disse con calma: «Lunedì Giovanni, ci vediamo lunedì mattina qua sotto. Lunedì mattina alle nove. Ok?» Lui farfugliò un «Va bene, come vuoi tu» ed uscì dalla porta rappresentando un cane bastonato.

    Capitolo XII

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    Scesi dall’autobus in una piazza di Huelva, Lei gli disse cha aveva deciso di andare in qualche luogo di mare vicino alla città, ma abbastanza lontana dal suo inquinamento. Dopo aver guardato per qualche minuto la cartina decise per El Rompido. Aveva fretta, erano le tre del pomeriggio, e decise per un taxi.

    Sul taxi lui continuava a stare in silenzio aspettando un segno di Lei per riallacciare il rapporto che sentiva ancora interrotto e pericolosamente fragile. In quelle ultime ore si erano scambiati frasi, molto gentili e ragionevoli  che servivano però solo alle ‘comunicazioni di servizio’.

    Ora sentiva l’odore di lei e cercava di incontrare il suo sguardo che era stato sapientemente occultato sotto potenti lenti scure che teoricamente dovevano proteggere gli occhi dal sole.

    Aveva pensato molto in quei giorni. Si era detto che sicuramente era meglio di quell’uomo che era impazzito per alcune ore. Si era detto che c’era stata una crisi e che aveva perduto qualcosa di sé; non capiva cos’era esattamente successo quando pazzamente fatto sparire Mara. Ora stava rimettendo insieme i pezzi del suo io che quel pomeriggio si erano sparpagliati in mille frammenti. Forse era anche necessario ritornare al gruppo di psicoterapia da dove credeva di esserne uscito guarito.

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    Lei trovò un albergo vicino al mare, in mezzo ad una pineta. Erano i primi di settembre e trovò subito una camera libera.

    «Senti Giovanni, – ormai lo chiamava sempre così – lasciamo qua le valigie nell’atrio. Voglio andare subito sulla spiaggia. Ci facciamo una passeggiata. Magari parliamo un po’. Parliamo un po’ di noi. Ti va?». Lui la seguì come aveva fatto in quelle quarantotto- cinquantasei ore.

    Mara in quei giorni aveva pensato al loro rapporto cercando di rintracciare nella mente le immagini dell’amore ma la ferita non si rimarginava e Lui ora era come un impotente che non sa toccare una donna. Eppure, si disse, fino a pochi giorni prima quando stavano insieme davano agli altri l’immagine di un rapporto pericoloso a vedersi, tanto pericoloso che in certe situazioni sociali  diventavano come un enclave circondata da territori ostili.

    Aveva pensato anche molto ai motivi del loro viaggio. «Perché Tartessos? » si era chiesta. Perché sempre alla ricerca dell’Atlantide, delle città scomparse. Quale era la ragione? Che senso aveva tutto ciò?

    Io … si io l’autore di questo racconto, come una divinità olimpica li guardavo dall’alto dibattersi nella storia, e alle domande che sorgevano nella mente di Lei non sapevo dare una risposta. Si lo so che uno scrittore serio deve creare una domanda solo se sa la risposta. Ma io non la sapevo. Forse non ero uno scrittore serio, o non ero uno scrittore, oppure non ero serio. 

    Come le Moire guidavo le loro esistenze fatte da suoni articolati che si agglutinavano e si scioglievano: ero Atropo che dava filo della loro vita, ero Cloto che con quel filo li avvolgeva … e Lachesi colei che prima o poi quel filo lo avrebbe tagliato scrivendo la parola fine sull’ultima pagina scritta.

    Alle domande non sapevo rispondere ma certamente questo impulso tutto umano che chiede sempre di indagare le civiltà sconosciute e scomparse, qualunque cosa sia, illusione, passione, nostalgia, è un ‘sentire’ invisibile, è un pungolo acuminato che fa sì che una sottaciuta ma continua ricerca di qualcosa, che apparentemente è un luogo-spazio, ma che in realtà è tempo umano, è una delle tante strade per ritrovare i passi perduti nella ripetizione insensata di tanti inutili giorni.

    Qualunque cosa rappresenti questa passione, l’isola di Utopia, la Città del Sole, Atlantide scomparsa,  Tartessos dalle porte argentate, Micene dalle potenti mura, ciò che in realtà si brama è un luogo dove far riemergere i suoni del tempo dispersi dai rumori di una vita non vissuta, non pienamente vissuta.

    Questo vago sentire spinge a un movimento di ricerca che ci permette di percepire e rifiutare i “falsi movimenti” di un’esistenza così caoticamente ordinata dove vitalità e idee annegano in una oscura pozzanghera che a volte appare come un limite insuperabile… a volte. Al di là delle colonne d’Ercole c’è sempre Tartessos e le sue rondini e i segni che raccontano del divenire umano.

    Ma questa è filosofia spicciola e Lei vorrebbe risposte…

    Ora camminavano in silenzio lasciando le orme dei piedi sulla sabbia. Quando Lei si fermò l’aria era ancora calda e centinaia di  rondini, disegnando con le loro traiettorie segni invisibili, si accalcavano contro un sole calante che aveva spogliato la spiaggia dai bagnanti. E si sedette, e guardava il sole che annegava nel mare ad oriente quando riuscì a parlargli. «Io ora torno in albergo, prendo la valigia, chiamo un taxi, e mi faccio portare all’aeroporto più vicino. Ti ho aspettato un pomeriggio intero. E poi ti ho aspettato ancora due giorni, ma niente tu sei rimasto lì ad aspettare, non si sa bene cosa». Lui cercò di parlare ma lei gli mise una mano davanti alla bocca: «Per favore risparmiami dai tuoi logici discorsi. Cosa volevi dire? Che sono stata io a dire che non volevo vederti e parlarti? E allora? Ma possibile … ma è mai possibile, cazzo». Pronunciò le ultime parole con stizza alzandosi e scuotendo la sabbia dalla gonna. Lui era rimasto seduto, gli occhi erano lucidi, Lei li vide, si chinò e lo abbracciò alle spalle, poi si staccò e con una mano gli accarezzò il capo sfuggendo alla mano di lui che voleva afferragliela.

    E si allontanò, e Lui la osservò finche sparì nascosta dalla lontananza e dall’aria che la notte stava annerendo.

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    Quando, una settimana, dopo aprì la porta del suo appartamento, l’angoscia, per quel silenzio innaturale, lo prese allo stomaco. Era notte fonda, accese le luci, un libro sconosciuto steso sul letto lo fece sobbalzare. Era tenuto aperto, da una molletta da bucato, in una delle prime pagine. Lui lesse le prime tre righe del testo che erano sottolineate con un evidenziatore giallo:

    “È sempre d’estate che il signore del fondo riesce a vincere le resistenze della pigra contadina che oppone soltanto un primo, breve, bizzoso, rifiuto.”

    Chiuse il libro lesse il titolo, ‘Bambino donna e  trasformazione dell’uomo’.

    “Non è sparita” pensò, e si disse che l’indomani l’avrebbe cercata. Ma poi prese il telefono e chiamò.

    FINE

     

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