• L’Argentina di fronte ad una nuova crisi

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    la “Presidenta” dell’Argentina Cristina Fernandez Kirchner

    L’Argentina non cambia

     

    di Mirko Peddis

    Niente più dollari. Le nuove leggi di Cristina Kirchner obbligano il Paese a rivolgersi alla produzione locale, rinunciando alle merci che non può comprare in pesos. Tra ospedali senza attrezzature mediche e un mercato immobiliare paralizzato, riappaiono i manifestanti del 2001

     

    Solo un anno fa, la presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner veniva rieletta nel tripudio popolare. Oggi il consenso per il suo governo è sceso dal 70 per cento a meno del 40, e negli ultimi mesi una lunga serie di manifestazioni si sono scagliate contro le sue politiche. Dalla capitale alle province, un’onda lunga di malcontento è stata incanalata dalle reti sociali e si è trasformata in cacerolazo, l’ormai tipica protesta argentina, quella fatta sbattendo i mestoli su pentole e padelle. Una tradizione nata con la crisi del 2001, quando la folla in rivolta fece cadere l’allora presidente Fernando de la Rua. A raccogliere il testimone fu Duhalde, presto travolto dall’inflazione e dall’avvento di una nuova era, l’era Kirchner. Dal 2003 a oggi, quattro anni di presidenza per Nestor e cinque per Cristina. Ma oggi  la “presidenta” è costretta ad affrontare un altro momento difficile e lo fa inasprendo le misure che puntano a frenare l’uscita di capitali in dollari dal Paese. Il primo passo è stato quello di limitare drasticamente le importazioni, il secondo di bloccare quasi totalmente l’acquisto di moneta straniera, principalmente statunitense ed europea. Oggi solo chi pianifica un viaggio o è titolare di un credito ipotecario può accedere a piccole quantità di dollari. E contemporaneamente, prodotti stranieri finora disponibili in qualsiasi negozio di Buenos Aires cominciano a scarseggiare, e non sempre esiste un sostitutivo locale.

     

    Maria ha un figlio affetto da sindrome di Down al quale sin dalla nascita è stato applicato un bendaggio gastrico che va cambiato periodicamente. L’ultima volta, però, il chirurgo ha dovuto sospendere l’intervento perché l’ospedale non ha potuto importare l’apposita attrezzatura, e quella prodotta in Argentina non ha ancora passato i test di funzionalità necessari al suo utilizzo. Anche la famiglia di Silvia vive una situazione complicata: sua suocera, che è stata operata per un tumore al cervello tre anni fa, non sa se il suo cancro è tornato. Quando l’hanno portata in ospedale per il controllo, infatti, non hanno potuto fare la tomografia computerizzata perché il liquido di contrasto non ha funzionato. Anche in questo caso l’ospedale aveva dovuto smettere di importare il prodotto a causa delle misure governative, e il medicinale made in Argentina si è rivelato del tutto inaffidabile. Il blocco alle importazioni e al cambio del dollaro sta colpendo un po’ tutti, anche le piccole imprese. Hector Moreno, che gestisce un negozio di abbigliamento sulla centralissima calle Florida di Buenos Aires, ha raccontato a un quotidiano locale che le  misure della presidenta gli hanno fatto perdere circa il 25 per cento delle vendite, mentre il signor Schwartzer, padrone di una piccola fabbrica di laminati plastici in mano alla sua famiglia da oltre cinquant’anni, assicura che la situazione attuale è anche peggiore di quella generata dalla crisi del 2001. Sia Moreno che Schwartzer saranno costretti a licenziare parte dei loro dipendenti entro la fine dell’anno.

     

    Va ancora peggio per il settore immobiliare, che negli ultimi tre mesi ha visto una paralisi quasi completa. In questo caso la totalità delle transazioni avviene in dollari, e chi ne ha da parte preferisce tenerseli, di fronte a un futuro sempre più incerto. In questo caso, come per il commercio al dettaglio e la piccola e media impresa, l’ombra che si affaccia è quella della disoccupazione, basti pensare che lo stipendio degli agenti immobiliari si basa al 90 per cento sulle commissioni di vendita.
    Naturalmente c’è anche chi difende le nuove leggi, scagliandosi contro la dipendenza verso gli Stati Uniti generata da un’economia che si muove quasi esclusivamente in dollari. Secondo le nuove leggi imposte dalla Casa Rosada, tutte le banche e le agenzie di cambio dovranno richiedere e registrare ogni singola operazione di vendita di moneta straniera. In altre parole qualsiasi sportello, prima di vendere dollari o euro, deve richiedere un’approvazione all’ufficio delle entrate. Formalmente la legge punta a evitare il riciclaggio di pesos “sporchi” con dollari “puliti” e ad aumentare le riserve del Banco Centrale argentino, che si terrà tutta la valuta estera non venduta. Ma le conseguenze, per un Paese che basa la sua economia sui dollari, possono essere drammatiche. Se da un lato il mercato ufficiale svolgerà tutte le operazioni in maniera più trasparente, dall’altro le numerose case di cambio “parallele” vendono già moneta straniera a prezzi maggiorati anche del 35 per cento rispetto al valore reale. Con un’inflazione che ruota attorno al 25 per cento (anche se il governo dichiara il 12) e tassi d’interesse bancario molto bassi, tanti risparmiatori argentini si sono rifugiati per anni nell’acquisto di dollari per salvaguardare il loro capitale, piccolo o grande che fosse. Proprio per questi motivi, molti di loro, hanno già ritirato i loro risparmi in dollari, temendo un crack bancario come quello del 2001.

     

    In un contesto nel quale, di fatto, non si può comprare casa, non si può importare ne esportare, è difficile inviare denaro all’estero e anche viaggiare, è comprensibile la forte flessione di popolarità di Cristina Kirchner. Non a caso, una delle parole chiave dell’ondata di proteste che sta attraversando il Paese è «libertà». Perché molti argentini cominciano a sentirsi prigionieri nella loro stessa nazione. Le voci raccolte fra i manifestanti tornano tutte, inevitabilmente, sugli stessi punti: «Siamo stanchi che ci venga detto come risparmiare e dove andare in vacanza», «con le importazioni bloccate si blocca tutto il Paese». Sulla rete, dove le proteste nascono e prendono consistenza, è nato anche l’ironico neologismo “Argenzuela”, che allude alla volontà del governo Kirchner di seguire il modello bolivariano del Venezuela di Hugo Chavez. La paura di molti è che scatti una “guerra ai ricchi”, già visibile nel centro di Buenos Aires, dove le grandi firme della moda stanno chiudendo i loro atelier. Anche in questo caso la causa sono le restrizioni economiche imposte dal governo Kirchner che, fra le altre cose, proibiscono alle aziende straniere di girare dollari alle loro case madri all’estero. Louis Vuitton, Yves Saint Laurent, Escada e Kenzo, presenti nel Paese da più di vent’anni, preferiscono scegliere governi come il Cile, che adottano politiche più “morbide” verso il mercato internazionale. Anche Apple ha deciso di aprire la sua terza filiale sudamericana – dopo quelle in Messico e in Brasile – a Santiago, scartando Buenos Aires.
    Eppure la presidenta non accenna a cambiare idea. Al contrario, sembra intenzionata a proseguire sulla strada delle limitazioni. E in molti cominciano ad accusare la sua famiglia di essersi enormemente arricchita negli anni di presidenza di Nestor prima e di Cristina poi. L’era Kirchner potrebbe avviarsi verso il tramonto.

    9 novembre 2012

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