• L’animale uomo e il branco: il nucleo disumano del nazismo heideggeriano

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    Volkswagen Works cornerstone ceremony, near Wolfsburg, 1938.

    di Gian Carlo Zanon

    «Così, in mezzo ai clamori e alla violenza tentavamo di conservare nel cuore il ricordo di un mare placido, di una collina indimenticabile, il sorriso di un volto caro. Era, infatti, la nostra arma migliore, quella che mai riporremo. Perché se un giorno la perdessimo, allora saremmo morti come voi.»


    Albert Camus: Luglio 1944 – “Lettere ad un amico tedesco” (Quarta lettera)


    Roma, 13 novembre 2014 – La maggior parte delle persone che conosco pensano di vivere le proprie passioni solo con la mente. Non sanno che ciò che viene comunemente chiamato sentimento arde nel corpo. Solo i pochi a cui è riuscito la mostruosa decapitazione schizofrenica, che scinde completamente il «corpo dalla mente, non sentono più il fluire degli affetti nei propri organi. Questo perché «il corpo è mente e la mente è corpo» (1). Non c’è scissione, affetti e desiderio per l’altro da sé muovono immagini mentali e il fluire del sangue, guidano lo stomaco che si contrae, il brivido che scorre lungo la spina dorsale e l’accapponarsi della pelle, le lacrime della separazione e della gioia e il batticuore dell’innamorata. Qualcuno può dire di aver comandato con la mente al cuore di accelerare i battiti quando è spuntata dall’angolo che la nascondeva la ragazza amata? o di aver comandato alla mente di desiderare l’uomo ricco ma brutto? Certamente no. Eppure tutti pensano di poter a loro piacimento escludere il corpo dalle loro scelte. E quando il corpo prende il sopravvento sulla mente si pensa ad una malattia, o “all’animale che è in tutti noi”, oppure al diavolo che spadroneggia nel corpo invasandolo a proprio piacimento. Questo perché la cultura imbevuta di ragione e religione domina le menti a tal punto da impedire che la fenomenologia delle passioni divenga la parte più importante nei processi conoscitivi. Tutti conoscono empiricamente, se non altro per esperienza diretta, i movimenti tellurici che si svolgono nel meridione del nostro organismo, ma pochi li sanno descrivere e dar loro un senso, e il sentire che non raggiunge la verbalizzazione non diviene conoscenza, si perde nell’indeterminatezza, nell’incertezza che incatena al dubbio. A volte diviene angoscia.

    Sto seguendo il dibattito in corso sui Quaderni neri (Schwarze Hefte) di Martin Heidegger, e penso che in tutta questa storia non ci sia in ballo solo l’antisemitismo del filosofo tedesco. O meglio penso che la questione razzista sia tutto sommato uno specchietto per le allodole funzionale a coloro che vogliono distrarre l’attenzione dal nocciolo del sistema filosofico heideggeriano: la sua visione alterata sull’essere umano che porta a conseguenze tragiche.

    La questione ebraica, per come è sviscerata, pur in tutto il suo orrore, è solo un girare a vuoto su cosa Heidegger sapeva “della soluzione finale”, su cosa intendesse dire in realtà scrivendo alcune frasi contro gli ebrei, sulla sua responsabilità nell’adesione al nazismo, e altre cose che casomai sono solo una piccolissima punta di un enorme iceberg che viaggia indisturbato tuttora senza alcuna intenzione di liquefarsi. L’antisemitismo rientra nel fenomeno della repressione di tutte le religioni non cristiane fin da quando il cristianesimo, nel 380, con l’editto di Tessalonica emesso dagli imperatori Graziano, Teodosio e Valentiniano, diviene ufficialmente religione di stato. Il decreto dichiara il Credo niceno religione ufficiale dell’impero proibendo tutte i riti delle altre religioni. Per i cristiani i giudei sono gli assassini del loro dio fattosi uomo e nell’arco dei secoli nei territori cristiani vengono avversati ferocemente. I pogrom comandati dalla chiesa ortodossa ne sono un fulgido esempio, così come i massacri nelle città attraversate durante le crociate. Ma non furono solo loro a subire genocidi. I cristiani al grido di “Dio lo vuole” furono colpevoli di migliaia di genocidi: ariani della nascente chiesa d’oriente, catari della terra dove si parlava la langue d’oïl, mussulmani mediorientali, pagani sassoni, nativi americani, australiani, africani pagarono con la vita e/o con la schiavitù la colpa di appartenere a “divinità minori”.

    Heidegger da qual punto di vista non fa altro che continuare una tradizione antica legittimandola filosoficamente. Il vizio nauseabondo della legittimazione del potere da parte dei filosofi e dei teologi è pratica antica e ancora molto diffusa.

    Ma non è questo a mio parere il punto cardine su cui dibattere. Semmai l’antisemitismo che portò alla shoah è un fenomeno storico culturale che in quegli anni raggiunse l’apice dell’orrore per efferatezza e dimensioni. Un fenomeno legato a fatti e a decisioni legati a situazioni storiche contingenti che però si concretizza a causa di una visione distorta sull’essere umano millenaria a cui Heidegger dà forme inedite senza cambiare di una virgola i contenuti.

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    A ben guardare ogni frase di Heidegger è funzionale ad un disegno politico che ha al centro un strano essere per metà animale e per metà essere umano che deve realizzare “il proprio destino”, “l’autenticità dell’essere” che essenzialmente significa prevalere sull’altro da sé. “Se gli ebrei in Germania si sono guadagnati posti molto in alto nella scala sociale, non è grazie alle loro doti e al loro talento, è perché sono manipolatori, calcolatori, subdoli, sono l’emblema della astrattezza matematica, degli esseri senza mondo e quindi immondi”. Discorsi alla Salvini sui Rom o che si incastonano perfettamente nei discorsi del Presidente della regione Veneto sugli immigrati definiti clandestini che secondo lui sono venuti in Italia alla scopo di riempire le patrie galere e non perché in Italia la clandestinità è un delitto da punire con la galera. (mi riferisco ad un’intervista di novembre ascoltata su Rai3) Ragionamenti, quelli di Heidegger e dei suoi epigoni, che andrebbero liquidati subito come deliri razzisti e che invece vengono dibattuti nelle Università, nei maggiori quotidiani europei, dai grandi filosofi dal pensiero debole. E non c’è un errore di battitura volevo scrivere proprio “dal” e non “del”.

    Quando un padano o un cittadino di Dresda dice “prima noi”, realizza la propria autenticità dell’essere, vale a dire che dalla dizione “essere umano” elimina “umano” perché essere autentici per Heidegger significa appartenere alla natura e non al genere umano. Una natura matrigna in cui si viene gettati a causa del Geworfenheit, (=parto animale). Una natura matrigna in cui solo i più forti sopravvivono alla selezione naturale. E lo “spirito del popolo” (Volksgeist) è il collante di marca teutonica che lega allo stesso destino gli individui di lingua tedesca che insieme realizzano l’autenticità dell’essere tedesco eliminando ciò che, secondo loro, impedisce la concretizzazione del disumano.


    Altro che “battaglia heideggeriana per il superamento della metafisica” ventilata da Vattimo. Questo è puro berlurenzismo acchiappa tutto ammantato di filosofia da quattro soldi. In soldoni realizzare l’autenticità dell’essere significa: quello che conviene dal punto di vista materiale è giusto, sacrosanto, naturale e ciò che impedisce al più forte l’appropriazione di cose altrui è sbagliato, illogico, innaturale.

    Si tratta solo di imbastire discorsi razionali con logiche che partono da assunti condivisi da una parte considerevole della popolazione, in cui il concetto di “esigenza umana” non viene neppure preso in considerazione.

    La frase attribuita erroneamente a Hermann Göring “Quando sento qualcuno parlare di cultura, la mano mi corre al revolver” la dice lunga sui paradigmi nazisti a cui Heidegger aveva donato i fondamenti filosofici. Alla cultura si predilige la natura, all’essere umano l’animale-uomo.
    L’animale uomo realizza la propria realtà animale con l’autenticità dell’essere cioè eliminando ciò che viene definito dalla nostra cultura “freno inibitore”, un mero intralcio religioso o razionale. Per Heidegger e per gli esistenzialisti l’essere umano è solo natura con sovrastrutture culturali che incarcerano, consolano e sublimano la sua disperazione ontologica proria della condizione umana.
    L’essere autentico heideggeriano è la fusione mostruosa tra uomo e animale che non lascia spazio all’umanità. E lo “spirito del popolo” altro non è che l’assunzione della specie dell’animale totemico che sta in cima alla scala alimentare: il predatore carnivoro capo branco.

    Il Mago di Messkirch che nel ‘33 arbitrariamente avoca a se stesso la funzione di “guida della guida” (Führer führen), vale a dire di consigliere di Hitler, pensava l’essere umano come ad un animale da addomesticare dai «capi e custodi del destino del popolo tedesco». Egli, arbitrariamente, si assume la funzione della mente che guiderà il Führer, cioè il capobranco, verso la realizzazione del propria autentica identità di dominatore di tutti quei territori che serviranno alla riproduzione della razza predatoria tedesca. (2)

    È un pensiero su l’essere umano devastante che è rimasto tale e quale nella cultura e viene continuamente riproposto da filosofi e da giornalisti letti da milioni di persone. Ne è un fulgido esempio Mister copia e incolla, al secolo Umberto Galimberti, che nonostante abbia depredato, da vero predatore, interi capitoli di autori di mezzo mondo fagocitandoli nei sui libri, continua a rimanere nei territori culturali del quotidiano più letto in Italia continuando la suo opera: il 14 agosto 2004 scriveva su La Repubblica, in un articolo dal titolo,“Quelle pulsioni distruttive che sono dentro di noi” che esse «fanno parte di quello sfondo pre-umano da cui un giorno ci siamo emancipati». Vale a dire che per la cultura heideggeriana, di cui Galimberti è un prode alfiere, ognuno di noi ha ancora nel suo interno un residuo filogenetico di animalità (pre-umano) che si paleserebbe nel momento in cui la ragione si addormenta lasciando incontrollata la bestia che alberga nel nostro Es. Il solito vizio di mettere negli altri ciò che si sa di sé.

    Eugenio Scalfari, per non essere da meno, nel il 23 ottobre 2010 scrive «(…) l’innocenza dei bambini, il loro candore, la loro innata bontà (….) È un falso luogo comune. (…) Ma la bontà dei bambini non esiste. La predominante necessità d’ogni bambino è quella di conquistare il suo territorio, attirare su di sé l´attenzione di tutti, vincere tutte le gare, appropriarsi di tutto ciò che desidera. Togliendolo agli altri. Vincendo sugli altri. Sottomettendo gli altri.
    Questo è l’istinto primordiale, innato, esclusivo. (…) Gli animali, e i bambini, non peccano. Sono forme pure che obbediscono a istinti e pulsioni. Percepiscono stimoli di piacere e di dolore e reagiscono guidati da mappe cerebrali arcaiche, midollari, quelle che i primi filosofi e i primi teologi chiamavano “anima sensitiva” (…) Gli animali e i bambini non hanno mangiato o non hanno mangiato ancora i frutti dell’ albero della conoscenza, perciò sono innocenti, quali che siano le loro azioni.»

    Quindi secondo questi maîtres à penser, che attingono a piene mani dal pensiero nazista di Heidegger, la realtà umana è, nei sui fondamenti, animale. Si tratta solo di tenere a bada la bestia all’interno dei propri territori: la famiglia, il partito, lo Stato, il centro sociale, il movimento parapolitico, lobby, ecc. ecc..

    L’aggressività innata, sempre secondo questo paradigma del pensiero occidentale, la si può sfogare contro l’altro da sé, contro tutti coloro che abitano al di fuori dei propri territori fisici e culturali. È il trionfo del “prevalgo dunque sono”. In società e in politica, l’autenticità dell’essere non è altro che riconoscere coloro che di volta in volta potranno aiutare l’individuo a realizzare la propria aggressività animale che deve, per il bene del branco di appartenenza, trovare uno sfogo. Persino l’amore tra un uomo e una donna altro non è che appropriazione di un corpo su cui sfogare i propri istinti animali e riproduttivi e la sessualità è una mera scarica organica, una “valvola di sfogo”. Il rapporto sessuale mercenario è parte integrante di un sistema di pensiero millenario che Heidegger durante tutta la sua esistenza culturale ha cavalcato rinverdendolo.

    Come in natura gli organismi viventi cercano di conquistare spazi vitali per la sopravvivenza della propria specie, la “razza” ariana, essendo predatrice, deve giocoforza andare dove la guida il suo destino biologico indicato dal capobranco: il Führer. Alienando la propria mente in un figura che guiderà i tedeschi verso il loro destino predatorio, essi non avranno più pensieri: «Io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza è Adolf Hitler» affermava il delfino del Führer Hermann Göring che nel 1946 si suicidò ingerendo cianuro dopo essere condannato a morte per impiccagione a Norimberga.

    Nel 1942 Albert Camus, grazie a Pascal Pia che è divenuto uno dei capi del movimento di Resistenza “Combat”, entra attivamente nella lotta contro l’occupazione nazista. Ha appena compiuto trent’anni. In precedenza aveva scritto vari testi destinati alla stampa della Resistenza. Tra questi i più importanti sono le “Lettere a un amico tedesco”. Nelle Lettres vi è netto rifiuto alla cieca mistica nazista della forza e dello Stato, i “valori” per i quali vale la pena di vivere, di combattere e di morire esaltati da Heidegger.
    Nella prefazione all’edizione italiana del 1944 Camus scrive . «Quando l’autore di queste lettere dice “voi” non vuole intendere “voi tedeschi”, ma “voi nazisti”. Quando dice “noi”, questo non sempre significa “noi Francesi” ma “noi Europei liberi”. Contrappongo due atteggiamenti, non due nazioni (…) Non detesto che i carnefici. Ogni lettore (dovrà) leggere le “Lettere a un amico tedesco” da questo punto di vista, cioè come un documento della lotta contro la violenza.»


    Il tempo della vostra sconfitta si avvicina. Le scrivo da una città famosa in tutto il mondo, intenta a preparare contro di voi un domani di libertà.
    (…)
    Queste notti di luglio sono leggere e nello stesso tempo gravose. Leggere sulla Senna e fra le piante, gravose nel cuore di quanti attendono l’unica alba di cui ormai abbiano desiderio. Attendo e penso a lei: ho ancora una cosa da dirle e sarà l’ultima. Voglio spiegarle come è possibile esser stati così simili e oggi esser nemici, e come avrei potuto essere al suo fianco e perché oggi fra noi tutto è finito.
    (…)
    Lei non ha mai creduto che questo mondo avesse un senso e ne ha dedotto la concezione che tutto si equivalesse e che il bene e il male si potessero stabilire ad arbitrio.
    (…)
    E, in verità, io che credevo allora di pensare come lei, non trovavo quasi argomenti abbastanza consistenti da opporle, se la passione ardente per la giustizia che, in definitiva, mi sembrava tanto poco meditata quanto la più improvvisa delle passioni.
    In cosa consisteva la differenza? Nel fatto che lei accettava con animo leggero la disperazione, mentre io non ho mai potuto consentirvi. Nel fatto che lei considerava ammissibile l’ingiustizia della condizione umana tanto da risolversi ad aggravarla, mentre a me pareva evidente che l’uomo doveva proclamare la giustizia per lottare contro l’eterna ingiustizia, creare un po’ di felicità per protestare contro un universo di infelicità. Lei invece si è ubriacato della sua disperazione e se ne è liberato erigendola a principio; ha acconsentito a distruggere le opere dell’uomo e a lottare contro di lui per rendere più completa la sua sostanziale miseria. Io, rifiutandomi di ammettere questa disperazione e questo mondo straziato, volevo semplicemente che gli uomini ritrovassero la solidarietà necessaria per lottare contro il loro orribile destino.
    (…)
    Continuo a credere che questo mondo non abbia una finalità superiore. Ma so che in esso qualcosa ha un senso ed è l’uomo, perché è il solo essere vivente che esige di averlo. Questo mondo dunque ha, per lo meno, la verità dell’uomo e nostro dovere è di fornire all’uomo le ragioni per lottare contro il suo stesso destino. Non v’è altra ragione che l’uomo; è dunque lui che bisogna salvare se vogliamo salvare il concetto che ci si fa della vita.

    Il suo sorriso sprezzante mi dirà: “Cosa vuol dire salvare l’uomo?” Ma le rispondo, e con tutto
    me stesso lo grido, che salvare l’uomo significa non mutilarlo, significa concedere tutte le possibilità alla giustizia che l’uomo è il solo essere capace di concepire.
    (…)
    Per questo stiamo lottando. Per questo abbiamo dovuto dapprima seguirvi per la strada che non era la nostra e in fondo alla quale, alla fine, abbiamo trovato la sconfitta: perché la vostra disperazione
    costituiva la vostra forza. . Così, in mezzo ai clamori e alla violenza tentavamo di conservare nel cuore il ricordo di un mare placido, di una collina indimenticabile, il sorriso di un volto caro. Era, infatti, la nostra arma migliore, quella che mai riporremo. Perché se un giorno la perdessimo, allora saremmo morti come voi.
    (…)
    Ora che tutto sta per finire, possiamo dirvi cosa abbiamo imparato e cioè che l’eroismo è ben poca cosa, più difficile è la felicità.
    (…)
    So che il cielo che fu indifferente alle vostre atroci vittorie lo sarà anche di fronte alla vostra giusta sconfitta. Neppure oggi mi aspetto qualcosa da esso. Ma almeno avremo contribuito a salvare la creatura umana dalla solitudine nella quale volevate relegarla.

    Albert Camus, 1944 – Testo estratto dalla IV delle “Lettere a un amico tedesco”

    Note
    (1)  Massimo Fagioli, “Novembre, torna, senza ricordo, la memoria” su Left, 13 novembre 2014


    (2)  Adriano Fabris, “Heidegger: l’ambiguità della decisione tra filosofia e politica” nel libro da lui curato ”Metafisica e antisemitismo – I Quaderni neri di Heidegger tra filosofia e politica” (Edizioni ETS).

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