• Enciclopedia del Crimine – La storia di SALVATORE GIULIANO –

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    Pubblichiamo la “Storia di Salvatore Giuliano” tratta dall’Enciclopedia del crimine pubblicata tra il ’74 e il ‘75 da Fabbri Editori.

    Il testo narra le vicende che portarono un contadino siciliano ad un ribellione omicida e suicida che sconvolse la regione siciliana per vari anni.

    La storia del bandito Salvatore Giuliano si intreccia con quella italiana degli anni che vanno dal ’43 al ’50. In quegli anni ci fu lo sbarco degli Americani in Sicilia, 9 e 10 luglio ‘43; un tentativo di insurrezione separatista per far diventare la Sicilia uno Stato indipendente; le rivolte dei contadini che volevano la terra dei nobili latifondisti; e soprattutto la ‘resurrezione’ della mafia siciliana che era rimasta tranquilla ad aspettare tempi migliori per quasi vent’anni.

    Tra le righe di questa drammatica vicenda – non dimentichiamo che fu Giuliano con i suoi uomini a compiere materialmente la strage di Portella della Ginestra – si vedono gli intrecci tra mafia e intelligence  italiana e americana che hanno segnato la storia politica ed economica del mondo occidentale: dalla sbarco in Sicilia dell’esercito americano, all’omicidio di J.F. Kennedy, alle recente probabile trattativa Stato-Mafia di cui abbiamo parlato in un nostro recente articolo.

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    Buona lettura

     Emo Bertrandino

    La storia di SALVATORE GIULIANO

    Nella tragica Sicilia del dopoguerra, agitata dalle manovre dei separatisti, con l’onnipotente mafia sullo sfondo, emerge la figura di un bandito che, con le sue imprese, diventerà uno dei protagonisti di quegli anni

    In Italia, negli anni compresi tra 1l 1947 e il 1950, due uomini si dividevano gli onori della cronaca e della popolarità, e il loro nome oltrepassò addirittura le frontiere della penisola. Questi due uomini, dei quali si poteva leggere quasi ogni giorno il nome sui giornali e di cui si parlava appassionatamente, non erano né il Papa né il presidente della Repubblica, e nemmeno astri del cinema, della canzone, oppure della politica. Questi due uomini erano Fausto Coppi e Salvatore Giuliano.

    Fausto Coppi

    Accade di rado che i personaggi entrino a far parte della leggenda mentre sono ancora vivi. Salvatore Giuliano è tra i pochi ad avere avuto questo privilegio. È vero anche, però, che il personaggio si prestava al ruolo leggendario: bello, idealista, generoso e soprattutto ribelle era l’ultimo rappresentante in Europa, forse il più riuscito, di quella folta schiera di banditi contadini come Mandrin in Francia, Oleka Doubuch in Ukraina, oppure Crocco e Ninco Nanco in Italia, che hanno sempre fatto battere il cuore delle folle perché sfidano le autorità in nome della giustizia, terrorizzano i ricchi e li spogliano dei loro beni per distribuirli ai poveri. Al pari dei suoi predecessori, Salvatore Giuliano è venuto alla ribalta in un particolare momento storico, propizio proprio a questo genere di epopea.

    Gli orrori della guerra, le agitazioni, i disordini seguiti alla caduta del fascismo, la presenza del problema siciliano, la presenza cioè di una popolazione non solo affamata in seguito al blocco dal resto d’Italia, ma disorientata anche dal risveglio dei partiti dopo il lungo intorpidimento fascista, turbata e confusa dal miraggio americano, incidevano pesantemente sulla situazione generale.

    Se Salvatore Giuliano è riuscito a diventare in così poco tempo una figura mitica, fu probabilmente

    perché incarnava, meglio di chiunque altro, i sogni patetici della Sicilia che si ritrovava ancora una volta ‘contesa’, ‘occupata’ e ‘tradita’.

    Concepito negli Stati Uniti, Giuliano nacque in Sicilia. I suoi genitori, Maria Lombardo e Salvatore Giuliano, erano emigrati all’inizio del secolo, nel 1904. Ma, dopo un soggiorno in America, durato diciotto anni, soggiorno che non li aveva affatto resi ricchi, decisero di tornare al

    paese, Montelepre, non lontano da Palermo, dove possedevano una casetta e un pezzo di terra. Ciò avvenne durante la turbolenta estate del 1922, qualche mese prima della marcia su Roma e del colpo di Stato di Mussolini.

    Era un bravo ragazzo

    Salvatore nacque il 16 novembre. Era il quarto figlio dei Giuliano. Costoro avevano già un maschio, Giuseppe, e due bambine, Giuseppina e Mariannina. Al figlio venne imposto il nome del padre, ma, per distinguerlo, fu soprannominato Turiddu, diminutivo dialettale di Salvatore. I genitori di Giuliano formavano una coppia molto affiatata, coraggiosa, rotta alla fatica e interamente dedita ai figli.

    Da buoni siciliani, Maria e Salvatore ponevano al di sopra di tutto l’unità e la coesione familiare. A quell’epoca – ma non è che da allora le cose siano cambiate molto – la famiglia siciliana costituiva un’unità chiusa in se stessa, che obbediva a regole proprie e che era convinta di non dover rendere conto di nulla a nessuno.

    Nonostante il lungo soggiorno negli Stati Uniti, la famiglia Giuliano rispettò sempre questa regola ancestrale che nessun ‘occupante’, in venticinque secoli, era riuscito a rompere.

    Maria non era una bella donna. Tarchiata, il corpo sfasciato dalle maternità e dagli anni di lavoro, aveva mani grandi e un volto rugoso. Ma il disegno delle labbra molto marcato, la fronte alta, e soprattutto gli splendidi occhi neri erano il segno evidente della sua forza di carattere, del suo orgoglio. Salvatore, il padre, era basso come la moglie, ma secco e nodoso come una pianta di vite. Piuttosto taciturno e tranquillo, accettava volentieri di tirarsi in disparte davanti al volere della moglie. Maria era veramente la testa, l’anima e il cuore di casa Giuliano.

    Turiddu non lasciò mai la Sicilia e trascorse quasi tutta la sua esistenza a Montelepre.

    Anche se, più tardi, fu costretto ad abbandonare il villaggio natio, non se ne allontanò mai di molto.

    Quando raggiunse l’età per imparare a scrivere e leggere, Turiddu si recò a scuola ed ebbe come insegnante un certo Don Caiozzi.

    La classe nella quale insegnava Caiozzi non doveva essere poi tanto diversa da quella in cui, a Recalmuto, avrebbe insegnato, qualche anno più tardi, lo scrittore Leonardo Sciascia, che la descrisse, nel romanzo La parrocchia di Regalpetra, con queste parole: “Trenta ragazzi che si annoiano, spezzano le lamette da barba per lungo, le piantano nel legno del banco per mezzo centimetro e le pizzicano come le chitarre; si scambiano oscenità che ormai mi tocca far finta di non sentire – tua sorella, tua madre; bestemmiano sputano fanno conigli dai fogli del quaderno, conigli che muovono le lunghe orecchie, un tremito che finisce in una pallottola di carta al mio improvviso richiamo. E barche fanno, cappellucci; o colorano le vignette dei libri adoperando il rosso e il giallo selvaggiamente, fino a strappare la pagina. Si annoiano, poveretti. Altro che favole, grammatica, le città del Mondo e quel che produce la Sicilia: alla refezione pensano, appena il bidello suonerà il campanello scapperanno fuori a prendere la Ciotola di alluminio, fagioli brodosi con rari occhi di margarina, la scaglia del  corned beef, il listello di marmellata cheinvoltano nel foglio degli esercizi e poivanno leccando per strada, marmellata einchiostro”.

    Turiddu, così vuole la leggenda, si dimostrò un buon alunno, studioso e perfino disciplinato. Egli stesso l’ha detto e ripetuto: amava lo studio e ha sempre sofferto del fatto di non aver potuto dedicare maggior tempo alla sua istruzione. Sfortunatamente, quando compì i 13 anni, i genitori furono costretti a tenerlo in casa, avevano bisogno delle sue braccia – anche se erano le braccia di un bambino – per sostituire quelle del fratello Giuseppe, chiamato a fare il servizio militare. Turiddu rimpianse la scuola, ma si mise coraggiosamente al lavoro. In seguito, si sforzò, quando gliene rimaneva il tempo, di colmare le proprie lacune. Leggeva molto e un po’di tutto, qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani, purché fosse un libro. Naturalmente, non è che a Montelepre la scelta fosse abbondante. Eppure più tardi, nel corso di un’intervista, Salvatore Giuliano suscitò lo stupore generale affermando che il suo autore americano preferito era John Steinbeck.

    L’infanzia di Turiddu non fu infelice. Al contrario, tutto ci lascia supporre che egli, sia da piccolo sia da adolescente, abbia conosciuto un affetto amorevole da parte dei suoi genitori.

    Un affetto come lo conoscono la maggior parte dei ragazzi siciliani, se non addirittura maggiore ancora. Salvatore Giuliano era bello e i siciliani sono molto sensibili alla bellezza. Non gli mancò mai l’affetto della madre e delle sorelle che lo adoravano. Era l’affetto della madre ad avere la prevalenza. Un affetto subito ricambiato dal piccolo Turiddu, ricambiato con fervore e con costanza. Un amore viscerale che non cessò mai. Possiamo anche aggiungere che Maria era l’unico essere, l’unica donna che Giuliano abbia amato appassionatamente.

    Infatti quando ormai era il fuorilegge più celebre del momento, ogni volta che la polizia voleva colpirlo duramente, metteva in galera sua madre. A 15 anni, Turiddu era già un bellissimo ragazzo. Più alto di suo padre, snello, ben proporzionato, possedeva lo sguardo penetrante della madre, la sua bocca sensuale e i suoi folti capelli neri, la fronte e il collo che ricordavano quelli di una statua greca. Passava per un bravo ragazzo, molto sincero, molto religioso. Inoltre era anche un sentimentale. A18 anni si innamorò di una ragazzina di 14 anni, Mariuccia. Una ragazzina bionda, quanto lui era scuro, e con gli occhi azzurri. Mariuccia possedeva anche una altra attrattiva: suo padre viveva negli Stati Uniti, e tutto quanto aveva un riferimento anche pur minimo con l’America, faceva sognare ad occhi aperti Turiddu, il quale se n’era fatta un’idea attraverso le narrazioni quasi fantastiche di cui lo avevano imbottito i genitori, il fratello e le sorelle, fin da quando era piccolissimo.

    Questo idillio, durò alcuni anni, finché Giuliano divenne un fuorilegge. Allora Mariuccia partì per l’America, e tutto finì.

    Emigranti italiani: verso l’America

    Primo contatto con la vita

    Turiddu intanto continuava ad aiutare il padre nella coltivazione del loro minuscolo pezzo di terra. Era un lavoro faticoso e poco remunerativo. Ma per tutti i contadini di Montelepre era la stessa cosa. La terra era ingrata e, nonostante secoli di duro lavoro, nulla cambiava mai. E nessuno mai che si ribellasse. Sembrava che a Montelepre nessuno si rendesse con- to della propria miseria. D’altronde, da chi si sarebbe potuto sperare aiuto? Chi conosceva l’esistenza di quel paesetto sperduto?

    Nessuno. Almeno per il momento.

    Ma se il mondo ignorava Montelepre, bisogna anche riconoscere che Montelepre faceva altrettanto nei confronti del mondo. La Germania hitleriana poteva invadere la Cecoslovacchia, per poi occupare la Polonia, e a Montelepre nessuno se ne dava pensiero. Come del resto accadeva in tutta la Sicilia, a Montelepre sembrava che la gente fosse stata addormentata da vent’anni di fascismo. Infatti, almeno stando alle apparenze, erano secoli che la Sicilia non mostrava un volto così calmo. Il prefetto Mori, inviato a Palermo da Mussolini per combattere la criminalità e per distruggere la mafia, sembrava che fosse riuscito a portare a buon fine il suo difficile incarico. Vero anche, tuttavia, che la repressione era stata durissima: le prigioni erano piene. A chi soggiornava in Sicilia per qualche tempo, come fece notare lo scrittore inglese Gavin Maxwell, “quella calma non significava affatto che il Paese avesse accettato l’ideale fascista, o la sua integrazione con il resto d’Italia, ma significava semplicemente che la popolazione riteneva meglio aspettare la propria ora, come tante volte aveva già fatto nel corso dei secoli”.

    Il Prefetto Cesare Mori

    In realtà – e ben presto se ne avrà la prova – i capimafia più importanti erano riusciti a sfuggire al colonnello Mori, oppure ad accordarsi con lui, e, nell’attesa di giorni migliori avevano cura di non farsi troppo notare.

    Mussolini aveva idee grandiose sulla Sicilia, di cui voleva fare il centro e il cardine dell’impero che contava di conquistare sulle rive del Mediterraneo. A questo scopo, diede fra l’altro ordine di modernizzare la rete telefonica dell’Isola. La linea telefonica, che partiva da Palermo per collegare Trapani, doveva passare per Montelepre.

    Turiddu non incontrò difficoltà nel farsi assumere dall’impresa incaricata del lavoro.

    Si mostrò ben presto così in gamba, che dopo pochi mesi gli fu affidata la direzione di un piccolo gruppo di operai. Ma l’ascesa troppo rapida di questo giovanotto di appena 17 anni, che possedeva già un comportamento e un tono da capo, non piacque ai suoi compagni. Scoppiarono alcune liti, che si fecero sempre più frequenti, e Turiddu venne licenziato. Dopo aver cambiato lavoro tre volte, fece ritorno a casa sua.

    Era furibondo. Per la prima volta in vita sua, aveva conosciuto l’ingiustizia. Per la verità, la dolcezza rassegnata del padre non erano state una buona preparazione per affrontare il duro mondo che lo circondava.

    Salvatore non ebbe il tempo di ritornare al lavoro dei campi. L’esercito aveva bisogno anche di lui. L’Italia era sempre in guerra, ma Salvatore non partecipò al conflitto. Aveva appena terminato il corso di addestramento, quando gli alleati sbarcarono in Sicilia.

     

    i ‘liberatori’

    La mafia risorge dal caos

    Era l’alba del 10 luglio 1943. seguendo  le istruzioni del piano Husky, l’VIII Armata al comando del generale Montgomery sbarcò sulla costa sud-est dell’isola, mentre le truppe del generale Patton sbarcavano più a ovest, tra Gela e Licata. Gli inglesi avevano il compito di occupare Catania, poi di congiungersi con gli americani a Messina, dopo che questi avessero conquistato Palermo. Se gli inglesi furono seriamente impegnati dai mezzi corazzati tedeschi, gli americani non incontrarono alcuna resistenza. Anzi, quasi dappertutto trovarono aiuto. Con loro grande sorpresa, i conquistatori ricevettero l’accoglienza che solitamente viene riservata ai liberatori.

    Questo capovolgimento spettacolare era proprio inatteso? La mafia se ne attribuì subito tutto il merito, provvedendo a far circolare sul proprio conto le voci più lusinghiere. Fu la mafia, per esempio, la prima a suggerire che il celebre gangster newyorkese Lucky Luciano, nato a Lercara

    Friddi, in provincia di Palermo, e amico dei capimafia locali, aveva dato un aiuto prezioso ai servizi segreti americani. E la notizia venne confermata in seguito dal rapporto Kefauver. In che cosa poteva essere consistito questo aiuto? Semplicemente nell’usufruire dei servigi dei mafiosi per impadronirsi dell’isola con la massima rapidità e facilità. Se Mussolini si era illuso che Mori fosse riuscito ad annientare la mafia, il suo stupore dovette essere grandissimo quando venne a sapere della resurrezione prodigiosa dei grandi capimafia, tra i quali Don Calogero Vizzini e Genco Russo, entrambi nominati dagli alleati sindaci dei loro rispettivi paesi, Villalba e Mussomeli.

    Il capomafia italo americano Lucky Luciano

    In Sicilia nonostante la vittoria di Patton e di Montgomery (la battaglia di Sicilia si era conclusa dopo soli 39 giorni) e nonostante l’euforia quasi generale della popolazione, la situazione non era migliore di quella esistente sul continente. Era il momento dei sanguinosi regolamenti di conti, dell’anarchia e dell’illegalità.

    Per tentare di rimediare al disordine del momento gli alleati si affrettarono a mettere in piedi I’A.M.G.O.T. (Governo militare alleato per i territori occupati), sotto la guida di lord Rennell. Ma ciò significava ignorare completamente l’atteggiamento ancestrale dei siciliani non appena si trovavano davanti un invasore, un occupante.

    Fin dal tempo delle dominazioni greche e spagnole si rifiutavano a tutti i costi di collaborare. O meglio, accettavano anche di collaborare, ma in cambio di una contropartita. Il do ut des  subdolo del più debole davanti al più forte. Indubbiamente i siciliani preferivano di gran lunga gli americani ai fascisti (non bisogna dimenticare che quasi tutti i siciliani avevano qualche parente negli Stati Uniti), ma non li preferivano fino al punto di obbedire loro ciecamente. Soprattutto, c’era il problema del cibo quotidiano. Non c’erano più riserve di viveri alimentari.

    I ponti erano stati distrutti, le strade erano inutilizzabili, i porti continuamente sorvegliati, e per di più, l’A.M.G.O.T. aveva promulgato una legge con la quale venivano vietati i trasporti di alcune derrate da una provincia all’altra. La prima conseguenza di questa legge fu di rafforzare il mercato nero per altro già in atto, ma che allora divenne quasi obbligatorio per non morire di fame.

    Le razioni ufficiali, quando venivano distribuite, erano appena sufficienti per sopravvivere: 250 grammi di pane e 150 grammi di pasta al giorno. D’altra parte, i contadini si rifiutavano di cedere il loro grano al prezzo ufficiale, quando potevano venderlo a dieci volte tanto, e ricorrevano a tutti i mezzi per sfuggire alla sorveglianza e alla repressione di polizia e carabinieri: i rappresentanti dello Stato, gli eterni nemici.

    Bisogna capire bene questo atteggiamento dei siciliani nei confronti dei carabinieri, per comprendere la ragione per cui Giuliano ne uccise uno senza esitazione. A quell’epoca, sparare a un carabiniere non era considerato dai siciliani un omicidio nel vero senso della parola. Era, tutt’al più, un gesto di difesa, un gesto che poteva trovare facilmente una giustificazione.

    Dunque, nel corso di quella calda estate del 1943, la principale attività dei siciliani era il mercato nero a vari livelli, andava cioè dal pugno di farina venduto per poche lire alla compra-vendita per decine di milioni. In cima alla piramide stava la mafia, alla base, i contadini e i cittadini più poveri. Ma, in ogni modo, la mafia rimaneva l’intermediaria privilegiata. Essa sola possedeva i fondi necessari e i mezzi di intimidazione per procurarsi le merci, che ridistribuiva con enormi profitti. Erano dunque sempre i poveri che pagavano di più. La famiglia Giuliano, come tutti a Montelepre, faceva parte di quest’ultimi.

     –

     Nascita di un fuorilegge

    Congedato dal servizio militare, Turiddu era subito tornato a casa. Che cosa si poteva fare, se non, come facevano tutti, sbarcare il lunario adeguandosi alle circostanze?

    Con l’approvazione di Salvatore e di Maria, Turiddu e suo fratello Giuseppe organizzarono il traffico di cereali nella zona di Montelepre. Si trattava di un piccolo traffico, i cui utili non erano affatto proporzionati al rischio e alla fatica. Per trasportare due o tre sacchi di una cinquantina di chili, bisognava percorrere parecchi chilometri in piena montagna. Ma Turiddu e Giuseppe erano rotti alla fatica quanto i loro genitori, e quello era un lavoro come un altro. Di solito, lo facevano insieme, ma quel giorno, il 2 settembre 1943, Turiddu si trovava da solo.

    Tirandosi dietro il suo mulo che aveva in groppa due sacchi di grano, stava tornando dal villaggio di S. Giuseppe Jato ed era a poco più di quindici chilometri da Montelepre, quando venne fermato da due carabinieri e due guardie campestri, nel luogo chiamato Quarto Mulino. Dovette mostrare la carta d’identità. I carabinieri gli contestarono il reato, perché era vietato trasportare – senza un permesso – cereali da una zona all’altra. Da dove proveniva quel grano? Chi gliel’aveva procurato?

    A chi andava? Turiddu si rifiutò categoricamente di parlare. La discussione si faceva sempre più aspra, quando apparve un altro contrabbandiere, che si trascinava appresso un mulo carico di sacchi sospetti come quelli di Turiddu. Le due guardie campestri e un carabiniere lo chiamarono a gran voce e gli andarono incontro.

    Rimasto solo con l’altro carabiniere, Salvatore Giuliano pensò che quello era il momento migliore per agire. Aveva addosso una pistola, ma non avrebbe avuto il tempo di tirarla fuori. Allora si buttò sul carabiniere prendendolo alla sprovvista; gli mollò una ginocchiata all’inguine e, contemporaneamente, gli fece volare di mano il fucile mitragliatore. Poi si mise a correre come un pazzo verso una folta macchia di cespugli, nella quale si tuffò a testa bassa. Risuonarono alcune detonazioni. Turiddu avvertì un forte colpo al fianco che lo rovesciò per terra. Dolore atroce, una folle paura. Sconvolto, estrasse la pistola e sparò su un carabiniere che correva verso di lui. L’uomo fece ancora due passi, come ubriaco, poi si abbatté sulle pietre. Sorpresi per quella reazione, incerti sul da farsi, i tre inseguitori cessarono il fuoco. Turiddu ne approfittò per scappare il più velocemente possibile, benché la ferita lo straziasse. Infine, dopo aver trovato un anfratto tra due rocce, vi scivolò in mezzo per riprendere un po’ le forze e aspettare la sera. Quando sopraggiunse il buio, si trascinò fino alla fattoria più vicina, da dove fu trasportato a dorso di mulo fino a Borgetto e lì affidato alle cure di un medico.

    Turiddu aveva perso molto sangue ed era debolissimo ma la ferita non era grave. La pallottola gli aveva attraversato il fianco destro, ma senza colpire il fegato.

    In capo a qualche giorno, Turiddu era in piedi e voleva tornarsene a casa. Ma non era possibile. Il carabiniere al quale aveva sparato, era morto. La polizia, che aveva in mano la carta d’identità di Turiddu, lo ricercava per omicidio. Che cosa fare? Costituirsi? Nemmeno parlarne. A Turiddu non rimaneva altra scelta che raggiungere una delle numerose bande di fuorilegge che si nascondevano fra le montagne.

    Ribelle senza causa

     

    La vita di Turiddu Giuliano potrebbe finire qui. Per questo sarebbe stato sufficiente ben poco: perdersi tra la folla dei suoi simili, in mezzo ai tanti giovani che avevano rotto con la società, che vivevano allora tra le montagne brulle ma sicure della Sicilia. Avrebbe potuto ottenere un posto nella mafia, diventare uno dei tanti assassini prezzolali che per il loro operato ricevevano quattro soldi e una protezione incerta. Invece, è proprio a questo punto che la sua vera vita ha inizio, che il suo destino si svela, che il rozzo contadino di Montelepre comincia la metamorfosi.

    Da questo momento, la leggenda si confonde con la realtà, ed è difficile stabilire quali siano i fatti autentici, e quali invece siano dovuti alla fantasia. Nonostante un gran numero di documenti (sia pur spesso contraddittori), sarebbe una illusione credere di conoscere tutto, di sapere ogni cosa su Giuliano. Tra il 2 settembre 1943, giorno in cui Turiddu uccise il carabiniere Mancino, e il 15 luglio 1950, data ufficiale della sua morte, sono numerosissime le incertezze, le zone d’ombra impenetrabili, tanto che qualsiasi ricostruzione, per quanto scrupolosa e rispettosa della verità, deve solo toccare o lasciare inspiegati numerosi avvenimenti.

    Per nascondersi, Turiddu non dovette allontanarsi di molto. Si rifugiò nelle grotte di Calcelrama, sopra Montelepre, un luogo la cui sicurezza era sperimentata da tempo da numerosi rifugiati. Non rischiava certo di morire di fame: tutte le notti, il padre, il fratello, o uno dei suoi tanti cugini gli portavano da mangiare. Quanto ai carabinieri, anche se conoscevano il suo nascondiglio, non avevano alcuna intenzione di andarlo a stanare. Sapevano, per esperienza, che non sarebbero mai riusciti a stanarlo, a meno che non avessero accerchiato ed esplorato capillarmente il dedalo di grotte, operazione questa, per cui ci sarebbero voluti mezzi e forze superiori a quanto potevano disporre.

    Turiddu dunque, finché fosse rimasto in quel luogo, era al sicuro. Ma egli non aveva alcuna intenzione di marcire là dentro.

    Gli mancavano due cose essenziali: la madre e uno scopo nella vita. Turiddu non solo aveva bisogno di agire, ma aveva anche bisogno di sapere perché agiva. L’inattività e l’assenza della madre gli pesavano terribilmente. La sera di Natale, non ce la fece più: discese dalla montagna e raggiunse la sua casa. Non ebbe molto tempo per gioire di quel momento tanto desiderato.

    Il giorno dopo, all’alba, i carabinieri, probabilmente informati da una ‘soffiata’, oppure per un’intuizione, fecero irruzione a casa dei Giuliano. Turiddu ebbe appena il tempo di scappare passando dal retro. Furiosi per lo smacco subìto, i carabinieri trassero in arresto Salvatore il padre, e alcuni vicini, tra i quali lo zio Francesco Lombardo, fratello di Maria. Il fuggitivo non era andato molto lontano e, dal suo nascondiglio, aveva visto tutto.

    Corse allora all’uscita del paesetto, scelse un luogo propizio a un’imboscata e attese il passaggio delle camionette con gli arrestati.

    Era solo, non disponeva che di un fucile contro sette carabinieri, ma tutto ciò non aveva alcuna importanza: era in gioco l’onore della famiglia! Quando le camionette giunsero in quel luogo,

    Turiddu sparò contro il primo autista, poi contro il secondo. Un morto e un ferito. Gli altri carabinieri si buttarono a terra, aprirono il fuoco con i mitra. Ma Turiddu correva già lontano, invisibile fra i massi e i cespugli.

    Salvatore padre venne rinchiuso nel carcere di Palermo, mentre Francesco fu internato in quello di Monreale. Turiddu tornò a vivere sulla montagna. E là gli venne recapitato, per le solite misteriose vie, un biglietto dello zio. Francesco gli domandava di fargli pervenire una lima.

    Turiddu decise di portargliela lui stesso. Travestitosi da giardiniere, riuscì a entrare nel piccolo carcere e a consegnare personalmente la lima a Francesco. Poi uscì, senza inconvenienti, e andò ad appostarsi appena fuori del paese, dove attese la notte. Francesco non giunse solo all’appuntamento. Era in compagnia di una dozzina d’altri detenuti, armati fino ai denti. Prima di lasciare la prigione, avevano avuto cura di impadronirsi di tutte le armi delle guardie carcerarie.

    Francesco e i suoi amici formarono il primo nucleo di quella che presto sarebbe stata chiamata la banda Giuliano. L’evasione di Monreale fece scalpore, e il nome di chi l’aveva organizzata cominciò a circolare di bocca in bocca. Dopo quattro mesi da quando si era dato alla macchia, Salvatore Giuliano non era più uno sconosciuto.

    Continua …

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