• LA METAMORFOSI – Racconto di Franz Kafka

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     (1916)

     

    Gregorio Samsa, svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Giaceva sulla schiena, dura come una corazza e, sollevando un po’ la testa, vide un addome arcuato, scuro, attraversato da numerose nervature. La coperta, in equilibrio sulla sua punta, minacciava di cadere da un momento all’altro; mentre le numerose zampe, pietosamente sottili rispetto alla sua mole, gli ondeggiavano confusamente davanti agli occhi. “Che mi è successo?” pensò.

     

    Non era un sogno. La sua camera, una vera camera per esseri umani, anche se un po’ piccola, stava ben ferma e tranquilla tra le sue quattro note pareti. Sopra il tavolo, su cui era sparso un campionario di tessuti – Samsa era commesso viaggiatore – era appesa un’immagine ritagliata, non molto tempo prima, da una rivista illustrata e collocata in una graziosa cornice dorata. Raffigurava una donna che, in boa e berretto di pelle, sedeva ben dritta con il busto, alzando verso l’osservatore un pesante manicotto di pelliccia in cui scompariva tutto l’avambraccio. Lo sguardo di Gregorio passò allora alla finestra e il cielo coperto – si sentivano gocce di pioggia picchiettare sulla lamiera del davanzale – finì d’immalinconirlo. “Se dormissi ancora un po’, e dimenticassi tutte queste stupidaggini?” pensò; ma la cosa era impossibile, perché abituato a dormire sul fianco destro, e nello stato in cui si trovava, non era in grado di assumere quella posizione.

     

    Per quanta forza impiegasse nel cercare di buttarsi sulla destra, ricadeva sempre sul dorso. Provò cento volte, chiuse gli occhi per non vedere le sue zampine annaspanti e smise solo quando cominciò a sentire sul fianco un dolore leggero, sordo, mai provato prima. “Dio mio!” pensò, “che professione faticosa mi sono scelta! Tutti i santi giorni in viaggio. Le preoccupazioni sono maggiori di quando lavoravamo in proprio, in più c’è il tormento del viaggiare: l’affanno delle coincidenze, i pasti irregolari, cattivi, i rapporti con gli uomini sempre mutevoli, instabili, che non arrivano mai a diventare duraturi, cordiali. Vada tutto al diavolo!” Sentì un lieve prurito sul ventre; restando supino si tirò adagio verso il capezzale, per poter alzare meglio la testa, e trovò il punto che prudeva coperto da macchioline bianche che lo lasciarono perplesso; provò a sfiorare il punto con una zampa, ma la ritirò subito, perché il contatto gli provocò un brivido.

     

    Scivolò di nuovo nella posizione di prima. “Queste alzatacce”, pensò, “finiscono col rimbecillire. L’uomo deve avere il suo sonno. Certi colleghi vivono come le donne di un harem. Se una mattina mi succede, per esempio, di rientrare in albergo per trascrivere le commissioni ricevute, quei signori si sono appena seduti per la prima colazione. Ci provassi io, col mio principale: che volo farei! D’altra parte, chi sa se non sarebbe una fortuna. Non fosse per i genitori, mi sarei licenziato da un pezzo, sarei andato dal principale e gli avrei detto quello che penso, dalla a alla zeta! Sarebbe dovuto cadere dallo scrittoio! Che strano modo, poi, di sedere sullo scrittoio e parlare da lì agli impiegati, specie se si considera che, sordo com’è, quelli devono andargli proprio sotto il naso. Ma non è detta l’ultima parola: appena avrò messo da parte tanto denaro da pagargli il debito dei miei genitori, – forse occorrono ancora cinque o sei anni, – lo farò senz’altro. Allora ci sarà il grande distacco. Ma intanto mi devo alzare, il treno parte alle cinque”. Diede un’occhiata alla sveglia, che ticchettava sul cassettone. “Dio del cielo!” pensò. Erano le sei e mezzo, e le lancette proseguivano tranquillamente il loro cammino, anzi la mezza era già passata, erano ormai i tre quarti.

     

    Che la sveglia non avesse suonato? Dal letto si vedeva che era stata messa regolarmente sulle quattro; aveva senza dubbio suonato: possibile che avesse continuato a dormire con quel suono che scuoteva i mobili? Non aveva avuto un sonno tranquillo, ma forse per questo aveva dormito più pesantemente. Che avrebbe fatto? Il treno successivo partiva alle sette; per riuscire a prenderlo, avrebbe dovuto correre come un matto, e il campionario non era ancora pronto, mentre lui, poi, non si sentiva troppo fresco e in forze. E anche se fosse riuscito a prendere il treno, un rimprovero del principale era ormai inevitabile: il fattorino lo aveva aspettato al treno delle cinque e da un pezzo doveva aver riferito sulla sua assenza. Era una creatura del principale, senza volontà né cervello. E se si fosse dato malato? Sarebbe stato molto penoso e sospetto, perché in cinque anni di servizio non era ancora stato malato nemmeno una volta. Il principale sarebbe venuto con il medico della mutua, avrebbe rimproverato ai genitori la pigrizia del figlio e tagliato corto a tutte le obiezioni, rimettendosi al medico, per il quale, come si sa, esistono solo individui sanissimi, ma poltroni. E nel suo caso avrebbe poi avuto tutti i torti? Non fosse stato per una certa sonnolenza, inspiegabile dopo un riposo così lungo, Gregorio si sentiva proprio bene, provava perfino un ottimo appetito. Mentre pensava rapidamente a tutto questo, senza potersi decidere a lasciare il letto, la sveglia suonò le sei e tre quarti. Nello stesso tempo, qualcuno picchiò con cautela alla porta vicino al capezzale. “Gregorio!” chiamava una voce, quella della mamma. “Sono le sei e tre quarti. Non volevi partire?”.

    La voce soave! Gregorio si spaventò quando sentì la propria risposta. La voce, senza dubbio, era la sua di prima: ma ad essa si mischiava un pigolio lamentoso, incontenibile, che lasciava capire le parole solo in un primo momento, ma subito ne alterava i suoni a un punto tale, da far dubitare di aver inteso bene. Gregorio avrebbe voluto dare una lunga risposta e spiegare tutto, ma, in quelle condizioni, si limitò a dire: “Sì, sì, grazie, mamma, sto già alzandomi”. Attraverso la porta, la voce non dové sembrare diversa dal solito, perché la mamma fu tranquillizzata dalla spiegazione e si allontanò ciabattando. Ma quel breve dialogo aveva rivelato anche agli altri membri della famiglia che Gregorio, fatto insolito, era ancora in casa. Infatti ecco il padre picchiare piano, ma col pugno, a una delle porte laterali. “Gregorio, Gregorio!” gridò. “Che c’è?”. E dopo un po’ ripeté ancora, con voce più bassa: “Gregorio, Gregorio!”. Attraverso l’altra porta laterale, la sorella chiese piano: “Gregorio, non ti senti bene? Hai bisogno di qualche cosa?”. Gregorio rispose a entrambi: “Sono già pronto!” sforzandosi di rendere la sua voce normale con un’attenta pronuncia e lunghe pause tra una parola e l’altra. Il padre tornò alla sua colazione, ma la sorella sussurrò: “Gregorio, apri, ti scongiuro!”.

     

    Ma Gregorio non ci pensò nemmeno, ad aprire, e si rallegrò anzi dell’abitudine, presa durante i suoi viaggi, di chiudersi, la notte, in camera, anche a casa. Voleva alzarsi tranquillo e indisturbato, vestirsi, soprattutto fare colazione, e poi pensare al resto, perché si rendeva conto che, se fosse rimasto a meditare a letto, non sarebbe mai arrivato a una conclusione ragionevole. Si ricordò che altre volte aveva sentito, a letto, un leggero dolore, forse provocato da una posizione scomoda, che poi, appena alzato, si era rivelato frutto d’immaginazione; e ora era curioso di vedere come le fantasie della mattinata si sarebbero a poco a poco dileguate. Era convinto che il cambiamento di voce fosse soltanto il preavviso di un forte raffreddore, malattia professionale dei commessi viaggiatori. Buttare via la coperta fu una cosa da nulla: gli bastò gonfiarsi un poco e quella cadde da sola. Ma dopo cominciarono le difficoltà, specialmente perché era così grosso. Avrebbe avuto bisogno di braccia e di mani, per alzarsi; invece aveva soltanto tutte quelle zampine in perpetuo movimento, che non riusciva a dominare. Se provava a piegarne una, gli capitava, al contrario, di allungarla; quando riusciva infine a fare con essa ciò che voleva, le altre, quasi fossero senza controllo, si muovevano con un’altissima e dolorosa intensità. “Via, via, inutile restare a letto!” si disse Gregorio.

     

    Dapprima cercò di uscire dal letto con la parte inferiore del corpo, ma questa parte, che non aveva ancora visto e che non poteva immaginare bene, era troppo difficile da muovere. Esasperato per la lentezza dell’operazione, raccolse tutte le sue forze e si slanciò in avanti, ma, avendo calcolato male la distanza, picchiò contro il fondo del letto. Un dolore cocente gli insegnò che la parte inferiore del suo corpo era, per il momento, la più sensibile. Cercò allora di portare fuori prima il tronco, e girò prudentemente la testa verso l’orlo del letto.

    Questa manovra riuscì e la massa del corpo, nonostante la mole e il peso, accompagnò lentamente il movimento della testa. Quando però la sporse fuori dal letto, ebbe paura a spingersi ancora avanti: se fosse caduto così, infatti, si sarebbe fracassato la testa, a meno di un miracolo. In quel momento, non voleva proprio perdere il controllo di sé; preferiva piuttosto restare a letto. Ma quando, dopo altrettanta fatica, si ritrovò ansimante nella posizione di partenza e vide le zampine agitarsi le une contro le altre in modo, se possibile, ancora più rabbioso, di fronte all’impossibilità di mettere ordine e calma in quella confusione, si disse ancora una volta che non poteva assolutamente restare a letto e che la cosa più ragionevole era quella di sacrificare ogni cosa alla speranza, sia pure minima, di alzarsi.

     

    Nello stesso tempo, si disse che una calma, tranquilla riflessione era meglio di una decisione disperata. In quei momenti, di solito, gli capitava di fissare la finestra, ma questa volta la foschia mattutina, che nascondeva perfino le case all’altro lato della stretta strada, poté ben poco sul suo umore. “Già le sette”, si disse a un nuovo segnale della sveglia, “già le sette e ancora una nebbia così”. Per un po’ rimase immobile, respirando appena, come se aspettasse dall’immobilità assoluta il ritorno alla vita normale. Ma poi si disse: “Prima delle sette e un quarto, devo aver lasciato il letto ad ogni costo. Nel frattempo, sarà di certo venuto qualcuno della ditta a chiedere notizie, perché aprono prima delle sette. Si accinse a buttarsi fuori del letto di un colpo solo, con tutto il corpo. Se si lasciava cadere in questo modo, la testa, che nella caduta avrebbe cercato di tenere sollevata, sarebbe rimasta illesa. La schiena sembrava dura: cadendo sul tappeto, non le sarebbe successo niente. Soprattutto temeva il rumore che avrebbe prodotto, l’apprensione, se non lo spavento, che avrebbe destato dietro le porte.

    Ma bisognava correre questo rischio. Quando Gregorio ebbe una metà del corpo fuori del letto – il nuovo sistema era più un gioco che una fatica, bastava dondolarsi con piccole scosse – pensò quanto tutto sarebbe stato semplice se qualcuno lo avesse aiutato. Due persone robuste come il padre e la domestica sarebbero bastate; passate le braccia sotto la sua schiena arcuata, così da farlo sgusciare dal letto, bastava che si fossero chinati con il carico e avessero aspettato, tranquilli, che lui si rovesciasse sul pavimento, dove le zampine, c’era da sperare, si sarebbero dimostrate utili. Ma a parte il fatto che le porte erano chiuse, avrebbe fatto bene a chiedere aiuto? A questo pensiero, nonostante le difficoltà, non poté trattenere un sorriso. La sua manovra era tanto avanzata che, con una oscillazione più energica, avrebbe definitivamente perso l’equilibrio; doveva dunque decidersi, perché entro cinque minuti sarebbe scaduto il quarto. In quel momento suonò il campanello d’ingresso. “E’ qualcuno della ditta”, si disse; e si sentì agghiacciare, mentre le zampine ballavano ancor più velocemente.

     

    Per un momento, non si sentì niente. “Non aprono”, si disse Gregorio, in preda a una speranza irragionevole. Poi, come sempre, naturalmente, la domestica andò con il suo passo pesante alla porta e aprì. A Gregorio bastò sentire la prima parola di saluto del visitatore, per capire di chi si trattava: il procuratore in persona. Ma perché Gregorio era condannato a lavorare in una ditta dove la minima mancanza faceva nascere i più gravi sospetti? Gli impiegati erano dunque tutti dei mascalzoni? Non poteva esserci tra loro una persona fidata, devota, che, per avere sottratto qualche ora alla ditta, impazziva dal rimorso, fino a non essere più in grado di alzarsi dal letto? Non bastava mandare un garzone, se era indispensabile mandare qualcuno; doveva venire il procuratore in persona, per mostrare a tutta la famiglia, che era assolutamente innocente, che le indagini su un caso tanto sospetto potevano venire affidate solo alla sua intelligenza? Più per l’agitazione in cui questi pensieri lo avevano messo che di proposito, Gregorio si slanciò, con tutte le sue forze, fuori dal letto. Il tonfo fu sonoro, ma non quanto temeva. Il tappeto aveva attutito la caduta, poi la schiena era più elastica di quanto Gregorio pensasse. Non aveva, però, sollevato abbastanza la testa, che aveva picchiato sul pavimento. Pieno di stizza e di dolore, la girò e la strofinò sul tappeto. “Là dentro è caduto qualche cosa” disse il procuratore nella camera di sinistra. Gregorio si chiese se un giorno non sarebbe potuto capitare anche al procuratore, quello che stava accadendo a lui; in sé, la cosa poteva essere anche possibile.

     

    Ma quasi per ribattere duramente a questa ipotesi, nella stanza vicina il procuratore fece alcuni passi risoluti, facendo scricchiolare le scarpe di vernice. Dalla camera di destra, la sorella sussurrò, per avvertire Gregorio: “Gregorio, c’è il procuratore!”. “Lo so”, mormorò Gregorio, senza tuttavia alzare la voce tanto da farsi udire dalla sorella. “Gregorio”, disse il padre dalla stanza di sinistra, “il signor procuratore è venuto a sentire perché non sei partito con il treno dell’alba. Noi non sappiamo cosa dirgli, del resto vuole parlare personalmente con te. Apri la porta, avrà certo la bontà di scusare il disordine della camera”. “Buon giorno, signor Samsa!” lo interruppe in tono cordiale, il procuratore. “Non sta bene!” diceva la madre al procuratore, mentre il padre continuava a parlare accanto alla porta. “Mi creda, signor procuratore, non sta bene! Altrimenti, come avrebbe potuto perdere il treno? Quel ragazzo pensa solo alla ditta. Quasi mi arrabbio, a vedere che la sera non esce mai; è in città otto giorni, e è rimasto sempre in casa. Siede a tavola con noi e legge tranquillo il giornale o studia l’orario ferroviario. Per distrarsi, gli bastano i suoi lavori di intaglio. In due o tre sere, per esempio, ha intagliato una piccola cornice: rimarrà meravigliato nel vedere quanto è graziosa; è appesa nella camera, la vedrà non appena Gregorio avrà aperto. Del resto, sono contenta che lei sia qui, signor procuratore: da soli, non saremmo riusciti a convincere Gregorio a aprire la porta, è così testardo, e di sicuro non sta bene, sebbene stamattina presto lo abbia negato”.

    “Vengo subito”, disse Gregorio lento e circospetto; ma non si mosse, per non perdere una parola del dialogo. “Neanche io, signora, posso spiegarmi la cosa in altro modo”, disse il procuratore. “Speriamo non sia niente di grave. D’altra parte, debbo dire che noi, uomini d’affari, per nostra fortuna e disgrazia, come si vuole, dobbiamo spesso trascurare un leggero malessere, per seguire le nostre faccende”. “Allora, può entrare il signor procuratore?” chiese il padre impaziente, picchiando ancora alla porta. “No”, disse Gregorio.

    Nella stanza di sinistra subentrò un silenzio penoso, in quella di destra la sorella cominciò a singhiozzare. Perché la sorella non andava con gli altri? Si era certo alzata in quel momento e non aveva cominciato a vestirsi. E perché piangeva? Perché lui non si alzava e non faceva entrare il procuratore, perché rischiava di perdere il posto, perché in questo caso il principale avrebbe ripreso a perseguitare i genitori con i vecchi crediti? Per ora queste preoccupazioni erano davvero fuori luogo. Gregorio era sempre lì e non pensava affatto di abbandonare la famiglia. Giaceva sul tappeto e nessuno, nel vederlo in quella condizione, avrebbe potuto pretendere sul serio che facesse entrare il procuratore.

    Non potevano licenziarlo in tronco per una piccola scortesia, che si sarebbe potuta facilmente giustificare in seguito. Gregorio pensò che sarebbe stato molto più ragionevole se lo avessero lasciato in pace, invece di disturbarlo con pianti e consigli. Ma si rese anche conto che si comportavano così perché non sapevano cosa pensare, e li scusò. “Signor Samsa!” disse il procuratore, alzando la voce. “Che succede dunque? Si barrica nella sua stanza, risponde soltanto con dei sì e dei no, procura ai suoi genitori grosse, inutili preoccupazioni e trascura, sia detto di sfuggita, i suoi doveri professionali in maniera veramente inaudita. Le parlo in nome dei suoi genitori e del suo principale, la prego formalmente di rispondere subito e chiaro. Sono molto, molto stupito. Credevo di conoscerla come un uomo tranquillo, ragionevole, e ora sembra improvvisamente che lei abbia intenzione di mettersi a fare lo stravagante. Il principale, stamattina, ha accennato a una spiegazione per la sua assenza, a un certo incasso consegnatole poco tempo fa, ma io ho dato la mia parola d’onore che tra i due fatti non c’era nessun rapporto.

     

    La sua ostinazione incomprensibile mi ha fatto passare la voglia di intercedere ancora per lei. Immagino saprà che la sua posizione non è molto solida. Avevo intenzione di raccontarle ogni cosa a quattr’occhi, ma poiché lei mi fa perdere tempo senza inutilmente, non capisco perché non debbano essere informati anche i suoi genitori. Il suo lavoro, in questi ultimi tempi, ha lasciato molto a desiderare. La stagione non è favorevole, d’accordo, ai grossi affari; ma non esiste una stagione in cui non se ne combina nessuno, signor Samsa, non deve esistere”.

     

    “Signor procuratore!” gridò Gregorio fuori di sé, dimenticando, per l’agitazione, tutto il resto. “Apro immediatamente. Un leggero malessere, un po’ di vertigine, mi hanno impedito di alzarmi. Sono ancora a letto, ma sarò subito a posto. Mi alzo subito. Un momento di pazienza! Non sto ancora come speravo, ma va già meglio. Chi si aspettava una cosa simile, così all’improvviso? Ieri sera stavo benissimo, i miei genitori lo sanno, o, per essere precisi, proprio ieri sera sentii qualcosina. Mi si doveva vedere in viso. Perché non ho avvertito la ditta? Uno spera sempre che il malessere passi, senza bisogno di restare a casa. Signor procuratore! Abbia riguardo per i miei genitori. Tutti i rimproveri che lei mi ha fatto sono infondati: nessuno ne ha mai fatto parola con me. Forse non ha letto le ultime ordinazioni che ho spedito.

     

    Del resto, posso ancora partire col treno delle otto, qualche ora di riposo è bastata per rimettermi. Non si trattenga, signor procuratore, io stesso sarò subito in ditta, abbia la bontà di dirlo al principale, presentandogli i miei omaggi!” Mentre buttava fuori a precipizio tutte queste parole, senza sapere quello che diceva, Gregorio si era avvicinato agevolmente al cassettone, grazie alla pratica fatta sul letto, e cercava di drizzarsi appoggiandosi al mobile. Voleva aprire la porta, farsi vedere, parlare con il procuratore; era ansioso di sapere che cosa avrebbero detto, vedendolo, quegli stessi che ora si affannavano tanto a cercarlo. Se si fossero spaventati, allora poteva stare tranquillo, era libero da ogni responsabilità. Se invece non avessero dato a vedere nulla, anche in questo caso non avrebbe avuto ragione di inquietarsi e, se faceva in fretta, poteva essere in stazione per le otto. Scivolò diverse volte contro la liscia superficie del mobile, poi, con un ultimo slancio, riuscì a raddrizzarsi: ai dolori all’addome non faceva più caso, per cocenti che fossero. Si lasciò andare contro la spalliera di una sedia vicina e ad essa si aggrappò con le sue zampine.

     

    Ora aveva raggiunto il dominio di sé. Rimase, in silenzio, ad ascoltare il procuratore. “Loro hanno capito qualcosa?” chiedeva il procuratore ai genitori. “Non ci starà prendendo in giro?”. “Per l’amor di Dio!” gridò la madre tra le lacrime. “Forse sta malissimo, e noi lo tormentiamo. Grete! Grete!” chiamò. “Sì, mamma”, rispose la sorella dall’altra parte; si parlavano attraverso la camera di Gregorio. “Corri subito dal dottore. Gregorio sta male. Svelta, dal dottore. Hai sentito come parla?”. “Era la voce di un animale”, disse il procuratore, in tono singolarmente basso, rispetto alle grida della madre. “Anna, Anna!” gridò il babbo, attraverso l’anticamera, in direzione della cucina, e batté le mani. “Vada subito a chiamare un fabbro!”. In un gran fruscio di gonne le due ragazze corsero attraverso l’anticamera – come aveva fatto, la sorella, a vestirsi tanto in fretta? – e spalancarono la porta d’ingresso. Non si sentì richiuderla; dovevano avere lasciato la porta aperta, come succede nelle case in cui è avvenuta una grave disgrazia. Gregorio, intanto, era molto più calmo. Dunque, le sue parole non erano più comprensibili, sebbene a lui fossero sembrate abbastanza chiare, anzi più chiare di prima, forse perché ci aveva fatto l’orecchio. Ma allora gli altri dovevano avere capito che qualcosa non andava, e lo avrebbero aiutato.

     

    La fermezza e la risolutezza con cui erano stati presi i primi provvedimenti gli avevano fatto bene. Si sentiva di nuovo compreso nella cerchia umana; dall’intervento del medico e del fabbro insieme, senza troppo distinguere, sperava imprevisti, meravigliosi risultati. Per avere una voce quanto più chiara possibile nelle prossime, decisive conversazioni, tossicchiò, raschiandosi la gola, ma con discrezione, perché era probabile – da solo non si sentiva di dirlo con certezza – che essa non suonasse come una tosse umana. Nella stanza accanto, non si sentiva più niente. Forse i genitori erano seduti accanto al tavolo col procuratore, e parlavano sotto voce, forse stavano con l’orecchio incollato alla porta, in ascolto. Pian pianino, Gregorio si spinse fino alla porta, tenendosi aggrappato alla sedia.

    Abbandonata la sedia, si lasciò andare, dritto, contro la porta – le estremità delle sue zampine erano leggermente vischiose – e si concesse un attimo di riposo. Poi si mise a girare, con la bocca, la chiave nella toppa. Visto, purtroppo, che non aveva denti, come avrebbe potuto stringere la chiave? Gli venne in mente che disponeva di robustissime mascelle: con il loro aiuto, riuscì a girare la chiave, senza accorgersi di essersi, in qualche modo, ferito, se non quando dalla bocca un liquido scuro cominciò a colare sulla chiave, gocciolando poi sul pavimento. “Sentite!” disse il procuratore nella stanza accanto. “Sta girando la chiave”. Queste parole furono, per Gregorio, di grande incoraggiamento, tutti avrebbero dovuto incitarlo, anche il babbo e la mamma: “Forza Gregorio!” avrebbero dovuto gridare: “Non mollare, dacci sotto con la serratura!” Gli sembrava di vederli mentre, pieni d’ansia, seguivano i suoi sforzi. Fece appello a tutte le sue energie e si accanì frenetico sulla chiave.

     

    Accompagnava i progressi della chiave con una specie di danza intorno alla serratura: reggendosi con la bocca, a seconda del bisogno, restava sospeso alla chiave o vi gravava sopra con tutto il suo peso. Il secco rumore di uno scatto, lo fece trasalire. Con un respiro di sollievo, si disse: “Non ho avuto bisogno del fabbro”, e posò la testa sulla maniglia, per tirare a sé l’uscio. La porta, a questo punto, era aperta; ma Gregorio ancora non si vedeva. Doveva girare adagio, facendo molta attenzione, intorno all’imposta aperta, se proprio sulla soglia non voleva cadere malamente sulla schiena. Stava appunto compiendo, con grande cautela, questa manovra, quando sentì il procuratore emettere un “Oh!” che sembrò il sibilo del vento. Poi lo vide portare una mano contro la bocca spalancata – stava davanti agli altri – e indietreggiare lentamente, quasi fosse spinto, con pressione costante, da una forza invisibile.

    La madre, ancora coi capelli sciolti e arruffati, nonostante la presenza del procuratore, guardò a mani giunte il padre, fece due passi verso Gregorio, poi si afflosciò a terra in mezzo alle sottane che le si allargavano intorno, sprofondando il viso nel seno. Il padre strinse i pugni con aria minacciosa, quasi volesse ricacciare Gregorio nella sua stanza, poi si guardò intorno smarrito, si mise le mani davanti agli occhi, e scoppiò in singhiozzi. Gregorio non entrò nella stanza. Appoggiato all’imposta rimasta chiusa, e mostrando solo metà del corpo, fissava i presenti con la testa piegata da una parte. Intanto, si era fatto molto più chiaro; dalla finestra si vedeva benissimo un pezzo del lungo fabbricato di fronte, un ospedale di colore grigio ferro, con le sue finestre tutte uguali ritagliate sulla facciata. La pioggia non aveva smesso di cadere, c’erano ancora grosse gocce ben distinte che finivano a terra una per una. Piatti, vasetti, tazzine e altre cose coprivano ancora il tavolo; per il padre, la prima colazione era il pasto più importante della giornata e lui lo faceva durare ore, leggendo diversi giornali.

     

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    Sulla parete di fronte era appesa una fotografia di Gregorio, quando era militare: in uniforme di tenente, la mano sulla sciabola, sorrideva felice e incuteva, insieme, rispetto. Attraverso la porta dell’anticamera e quella dell’ingresso, si vedeva il pianerottolo e un primo pezzo di scale. “Ora”, disse Gregorio, consapevole di essere il solo ad avere conservato la calma, “mi vesto subito, metto in ordine il campionario e parto. Volete farmi partire? Vede bene, signor procuratore, che non sono un testardo e che mi piace lavorare: viaggiare è faticoso, ma che farei se non viaggiassi? Dove va, ora, signor procuratore? In ditta? Ah sì? Riferirà tutto per filo e per segno? Una persona, a un certo punto, può essere incapace di lavorare, ma proprio allora gli altri dovrebbero ricordarsi di come ha sempre lavorato; pensare che in seguito, eliminati gli ostacoli, lavorerà con impegno e attenzione ancora maggiori.

     

    Lei sa quali obblighi ho verso il principale. Inoltre devo pensare ai miei genitori e a mia sorella. Sono nei guai ma me la caverò. Lei, per favore, non mi renda la cosa più difficile di quanto è. In ditta, mi difenda! Il viaggiatore non è amato, lo so. Pensano che guadagni un sacco di quattrini e che faccia una bella vita. Purtroppo non ho argomenti per confutare questo pregiudizio. Ma lei, signor procuratore, lei sa meglio degli altri come stanno le cose; in confidenza, anzi, lo sa anche meglio del principale, che, considerata la sua posizione, può essere portato a giudicare male un impiegato. Lei sa che il viaggiatore, standosene lontano per tutto l’anno dalla ditta, è facile vittima di pettegolezzi, di casi fortuiti, di lagnanze ingiustificate, e che non può difendersi perché, in genere, ignora tutto; e quando è di ritorno, stanchissimo, da un giro, sperimenta sulla sua pelle le conseguenze di cause ormai impossibili da ricostruire. Signor procuratore, non se ne vada senza avermi prima, in qualche modo, tranquillizzato che mi darà almeno un po’ di ragione!” Ma già alle prime parole il procuratore si era girato, e considerava Gregorio, scuotendo le spalle, con la faccia scura.

     

    Senza smettere di guardarlo, a poco a poco, quasi che gli fosse vietato di lasciare la stanza, si avvicinò alla porta. Messo un piede in anticamera, ritrasse l’altro con fulminea rapidità dal salotto, come se il pavimento scottasse; poi fece con la destra un gran gesto verso la scala, come se da quella parte lo aspettasse una liberazione soprannaturale. Gregorio comprese che non poteva lasciarlo andare in quel modo, se gli stava a cuore il posto nella ditta. Ma i genitori non sapevano vedere altrettanto chiaro. Con il passare del tempo, si erano convinti che Gregorio era sistemato per tutta la vita; in quel momento, poi, il loro smarrimento era così grande, che non erano certo in grado di prevedere nulla. Gregorio, lui, immaginava cosa sarebbe successo.

     

    Dovevano fermare il procuratore, calmarlo, convincerlo, infine conquistarlo: ne andava del futuro di Gregorio e della sua famiglia! Se almeno ci fosse stata la sorella: lei capiva, aveva già pianto quando ancora Gregorio se ne stava nella sua stanza, tranquillamente coricato sulla schiena. Il procuratore, che aveva un debole per il gentil sesso, le avrebbe certamente dato ascolto; lei avrebbe chiuso la porta di casa e in anticamera lo avrebbe convinto che il suo spavento era irragionevole. Ma la sorella non c’era e Gregorio se la doveva cavare da solo. Senza pensare a come avrebbe potuto spostarsi, nelle condizioni in cui era, né se il suo discorso era stato compreso – probabilmente no – abbandonò il suo sostegno e si affacciò oltre la soglia per raggiungere il procuratore, mentre quello si aggrappava in modo grottesco alla balaustra delle scale; ma perse l’equilibrio e, con un debole grido, cadde sulle zampine. Immediatamente, e fu la prima volta, nella mattinata, provò una specie di benessere fisico.

     

    Notò con soddisfazione che le zampine, con qualcosa di solido sotto, obbedivano a meraviglia, fremevano addirittura dal desiderio di portarlo dove voleva: e così pensò che la guarigione da tutti i suoi mali era imminente. Mentre tutto fremente per la voglia di muoversi, rimaneva sul pavimento, proprio di fronte a sua madre, questa, che sembrava esanime, saltò d’un tratto in piedi, spalancò le braccia allargando le dita e gridò: “Aiuto, per l’amor di Dio, aiuto!”. A giudicare dal suo capo chino, sembrava che volesse guardare Gregorio; cominciò, invece, a indietreggiare a precipizio, senza pensare alla tavola ancora apparecchiata, la urtò, vi si sedette sopra, come avrebbe fatto una persona distratta; e non sembrò neppure accorgersi che dalla grande caffettiera rovesciata un rivolo di caffè cominciò a scorrere sul tappeto. “Mamma, mamma”, disse piano Gregorio, alzando gli occhi. Aveva dimenticato il procuratore; ma, alla vista del caffè che scorreva, non poté impedirsi di far scattare più volte le mascelle a vuoto.

    La mamma gettò un altro grido, lasciò di corsa il tavolo e cadde tra le braccia del padre, che le era corso incontro. Ma Gregorio non aveva più tempo per i genitori: il procuratore era sulla scala e, con il mento sulla ringhiera, guardava per l’ultima volta all’indietro. Gregorio prese la rincorsa, per cercare di raggiungerlo, ma il procuratore dovette intuire qualche cosa, perché con un salto superò diversi gradini e scomparve con un “Uh!” che risuonò per le scale. La fuga del procuratore, purtroppo, fece perdere la testa anche al padre, fino ad allora abbastanza calmo. Invece di inseguire il procuratore o almeno di lasciare che Gregorio lo inseguisse, afferrò con la destra il bastone, lasciato dal visitatore su una sedia con il cappotto e il cappello, prese con la sinistra un giornale dal tavolo, quindi, battendo i piedi e agitando bastone e giornale, prese a spingere Gregorio nella sua camera.

     

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    Non servì nessuna preghiera, che del resto non era neppure capita; mentre i movimenti supplichevoli della testa servirono solo a rendere più violento il battere dei piedi. Nonostante il freddo, la madre aveva spalancato una finestra e, sporgendosi quanto più poteva, si stringeva il viso tra le mani. Tra la sala e il pianerottolo delle scale ci fu una forte corrente d’aria, le tende delle finestre volarono in alto, i giornali sul tavolo frusciarono e alcuni fogli volarono sul pavimento. Senza pietà il padre continuava a incalzare Gregorio, emettendo sibili da selvaggio. Gregorio, che non aveva nessuna pratica della marcia indietro, procedeva molto adagio. Se si fosse potuto girare, avrebbe raggiunto subito la camera, ma, perdendo tempo con quella manovra, temeva di spazientire il padre, mentre, d’altra parte, aveva paura per un colpo di bastone, che sarebbe stato fatale per la sua schiena o per la sua testa. Ma presto non gli restò altro da fare: con spavento si accorse che, indietreggiando, non sapeva mantenere la direzione.

    Continuando a lanciare al babbo occhiate piene di angoscia, cominciò a eseguire la conversione con la maggiore rapidità possibile, e cioè con estrema lentezza. Forse il padre capì la sua buona volontà perché invece di disturbarlo, si mise a dirigere, da lontano, il movimento, aiutandolo anzi, ogni tanto, con la punta del bastone. Se soltanto avesse smesso con quel sibilo intollerabile! A Gregorio gli faceva proprio perdere la ragione. Si era quasi completamente girato quando, frastornato da quel rumore, si confuse, e ricominciò a girare in senso opposto. In ogni modo, quando fu arrivato di fronte alla porta aperta, si accorse che il suo corpo era troppo grosso per passare. Nello stato d’animo in cui si trovava, il padre non pensò neppure, naturalmente, ad aprire l’altra imposta. La sua idea fissa era di ricacciare subito Gregorio in camera, non si sarebbe rassegnato ai lunghi preparativi necessari a quello per passare, dritto, dall’altra parte. Come se non ci fosse nessun ostacolo, incalzava Gregorio facendo più baccano che mai, la sua voce sembrava moltiplicata per mille. Ora c’era poco da scherzare; e Gregorio rischiò il tutto per tutto. Ma nello slancio ribaltò, rimanendo incastrato sul fianco e producendosi una lunga escoriazione, mentre la bianca superficie della porta si sporcava di umori e di sangue. Da solo, non sarebbe più stato capace di muoversi: le sue zampine, da una parte si agitavano inutili nell’aria, dall’altra erano schiacciate dolorosamente contro il pavimento. In quel momento il padre gli diede il colpo di grazia di grazia e lui, con un gran volo, perdendo sangue abbondantemente, finì nella sua camera. La porta venne chiusa con il bastone, e infine tutto fu silenzio.

     

    Segue …

     

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