• La macchia – Racconto di Greta Bruni

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    Greta Bruni

    La macchia

      

    La giornata era bella. Questa frase, delle più banali e ben appropriata alle condizioni metereologiche registrate allo spalancare delle persiane, a metà mattina la invase come un’epifania, oltre il senso delle mille volte che l’aveva sentita pronunciare e pronunciata lei. La giornata era bella, sì, perché l’inverno si era insinuato lungamente nella primavera, con piogge interminabili, spezzate solo da singhiozzi di tregue mai più che umide-fredde e sempre grigie, tanto che le uscite del sole da gennaio si contavano sulle dita di una mano; un inverno memorabile, chissà se più per il persistere degli anticicloni o per il mordere della crisi economica che oramai tutti si sbracciavano a dire la più terribile da decenni?

     

    Quando il sole batté sulla vetrina, spuntando da sopra il palazzo signorile che cingeva la piazzetta di fronte, Emma mise via il libro che da un po’ teneva in mano senza leggere e andò a prendere una sedia: uscì, la piazzò sul marciapiede e sedette a fumarsi una sigaretta. All’angolo dello slargo una coppia di turisti consultava la mappa; poi nell’inquadratura scivolò una bici inforcata da un ragazzo e lei ne seguì il moto pendolante fino alla curva. Altro passaggio non c’era, né di piedoni né di mezzi. Adesso, per effetto della chiusura di molte attività, laddove ancora due anni fa alla stessa ora regnava il proverbiale casino di traffico e vocio del centro storico, il tempo sembrava fermo alle quiete dei lunedì mattina con i negozi chiusi.

     

      Fumando Emma non pensava alla crisi, alla quale volendo avrebbe potuto ricondurre anche la battuta d’arresto in cui si trovava sospesa la sua vita e per cui ora si trovava lì a presidiare il negozio della signora Marlene – dalle undici alle sette, da martedì a sabato, per uno stipendio irrisorio anche se con contratto. Lasciò invece che l’avvolgesse il sole che sollevava il cupo manto del lungo inverno e gettava luce sull’atmosfera stagnate, irreale e da paese di Bella addormentata. E d’improvviso avvertì questa strana sensazione, di qualcosa che le stava finendo dentro: un placarsi che l’invase come un fiume che svanisce nell’incontro del mare. Lo sentì in modo così chiaro che per un attimo credette di stare per morire, cosa assurda, anche perché non s’inquietò affatto, anzi: realizzò finalmente che quella mattina ancora non era stata assalita dai tormenti per la storia di Marco e del bando che dall’altro lunedì l’aveva fatta precipitare in una prostrazione di cui solo ora seduta al sole, si rese conto di non aver vissuto neanche quando si era lasciata con Lucio.

     

    Rientrò nel locale pervaso dal massimo di luce che poteva penetrarvi senza mai consentire di spegnere le luci e sedette di nuovo nella poltrona, il libro chiuso in grembo, per un’altra mezz’ora forse più, prima di decidersi: raggiunse l’attaccapanni, rovistò nella giacca e tirò fuori dall’astuccio dei documenti il foglio ripiegato del bando con sopra la macchia. Lo lisciò sul ripiano della scrivania e lo guardò con il cuore che le accelerava…

     

    – Com’è andata a finire, vuoi sapere?

     

    – Sì, i risultati dovevano uscire in questi giorni, no?

     

    – I risultati non mi riguardano, sono stato escluso perché ho mancato la data di consegna. 

     

    – Non capisco… 

     

    – Non capisci… Guarda, te la faccio breve, è andata che ho sbagliato data.

     

    – Non capisco…

     

    – No? Non ti ricordi quando ci siamo visti al bar la prima volta?

     

    – Sì.

     

    – E ti ricordi che ti si è sfasciata la biro sulla deadline che poi l’hai riscritta a margine?

     

    – Il 28 febbraio, sì.

     

    – No vedi, non era il 28, era il 23!

     

    – Ma cosa dici?

     

    – E ti ricordi che dopo siamo andati a fare la fotocopia perché tu non hai la stampante e volevi il bando? Bene, sulla copia che mi sono presa io, quella cazzo di macchia è venuta talmente scura che sotto non si leggeva più niente. E mi sono fidato del 28 che ci avevi scritto.

     

    – Ma è assurdo…

     

    – Già! E ora ti saluto che ho da fare.

     

    – Ma…

     

    – Non insistere, è una storia di merda, dal principio alla fine. E tanto per essere chiaro, quello che ci hai messo di tuo incluso, sappilo! Perché da parte mia, non c’è mai stato niente. Io sto con Claudia, tu lo sapevi, eppure ci hai provato e tutto è andato com’è andato… 

     

    Fermò la registrazione audio che le era partita in testa e alzò il foglio per scrutare la macchia. Contro luce bene distinse il ‘23’ che c’era, prima che l’inchiostro lo coprisse e si trasformasse nell’emblema del disastro psicologico in cui versava da quella conversazione con Marco, aggravata ulteriormente due giorni dopo per la telefonata di Marta che voleva metterla in guardia su una voce captata in ufficio, e che cioè Emma, testuale, essendo rimasta a bocca asciutta a provarci con Marco, si sarebbe vendicata mandandogli a puttana la consegna di un bando.

     

    Averci provato?! Si era innamorata un po’, questo sì, era successo. Come può accadere quando stando insieme ad un uomo si crea un intesa spontanea, niente di folle e niente di sconcio. A lei stessa, digiuna com’era di rapporti, ce n’era voluto a scoprirsi attratta. C’era arrivata per deduzione, rimanendoci male la sera che lui l’aveva invitata a cenare insieme – la quinta, forse sesta volta che era venuto al negozio, a chiarire i punti del bando, riflettere, discutere e confrontarsi. Come un tempo, quando la capoprogetto era lei, apprezzata per saper lavorare da esterna in sintonia con i team in ditta e diventare la collegiale condivisione dei contesti, metodo che spesso aveva permesso di far venire fuori le soluzioni come gnocchi che vengono a galla. Proprio com’erano venuti a galla anche quel giorno verso l’ora di chiusura e che erano andati in trattoria e avevano finito di buttare giù il progetto già dettagliato. A ritrovarsi poi piantata davanti all’uscita del ristorante con una freddezza che non riusciva a mettere insieme a com’erano stati tutto quel tempo, favoriti in un affiatamento che quasi d’incanto guidava i loro pensieri, lei si era scoperta delusa – e di conseguenza innamorata. E come una ragazzina sorpresa davanti allo specchio a provarsi un vestito della mamma, si era rivista nelle due settimane trascorse, mentre, oltre a scervellarsi sui dati del bando aveva preso a vestirsi con più cura, a tenere sempre vicino il cellulare e rifarsi il trucco quando Marco doveva raggiungerla al negozio. All’esame di coscienza si era fatta la ramanzina, svergognata per l’inconsistenza della vita che conduceva e che l’aveva ridotta ad affascinarsi per un uomo per il solo fatto di trovarcisi a lavorare bene. Cosa che quando faceva la consulente non le era mai successo, perché stava con Lucio certo, ma anche perché stava ben attenta a non compromettersi nell’ambiente. Anche l’ambiguità di questa collaborazione non ufficiale, per la quale tre giorni dopo si era vista pagare una cifra mai concordata in contanti, infilati in una busta con un foglio che recava un ‘Grazie’ e la firma ‘Marco’, aveva intorbidito tutto sin dall’inizio!

     

    Già da metà febbraio, a ripensare a Marco, aveva sentito profondo imbarazzo, ma niente in confronto a come si sentiva da una settimana, sapendo come era andata a finire, con la macchia e quella diceria. Una vicenda che nel giro dove tutti si conoscevano le avrebbe precluso ogni altro incarico anche se si fosse anche scatenato il boom più favoloso.

     

    Come era potuta arrivare a questo?

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    Aveva 37 anni. La madre le era morta dieci anni fa e il padre che ancora era adolescente. Soldi non c’erano mai stati, l’università l’aveva fatta tirando avanti con i lavoretti e presa la laurea in sociologia del lavoro era andata a Londra, non per fare un master che non poteva pagare, ma per lavorare in una grande pasticceria, per un anno e mezzo. A Londra aveva incontrato Lucio, che invece là faceva il master. Aveva deciso di rientrare con lui pur avendo ricevuta la proposta del proprietario della pasticceria di occuparsi dell’amministrazione; perché a Londra, il clima si sa com’è, e poi Lucio era riuscito a farla prendere come stagista nella ditta di consulenze del lavoro – quella dove erano impiegati Marta e Marco. La sua esperienza londinese le aveva insegnato come doveva funzionare un’impresa seria e inoltre sapeva destreggiarsi bene anche con  i bandi in inglese, che in ditta capiva meglio dei funzionari. A furia di studiarsi le fotocopie che le facevano fare dalla mattina alla sera divenne così esperta dei progetti d’impresa finanziati con i fondi europei, che i clienti la volevano sempre più spesso come referente. Ma siccome questo non bastava per farla assumere, si era messa a lavorare in proprio, spesso per la stessa ditta e pagata un po’ meglio. Conviveva con Lucio, lavoravano molto entrambi e poco c’era da preoccuparsi per il loro futuro in coppia, finché, proprio all’inizio della crisi economica, il rapporto si era inceppato: dopo l’aborto spontaneo per l’imprevista gravidanza che le era capitata, lui si era allontanato fino a che lei un mattino si rese conto che erano passati due mesi da quando non facevano l’amore e le discussioni erano servite solo a palesarle il muro che lui aveva tirato su nei suoi confronti e che non sarebbe riuscita a varcare. Aveva affittato un monolocale nonostante gli incarichi già scemassero insieme ai risparmi, e due anni fa, in attesa che il lavoro riprendesse, si era sistemata dalla zia Anna, l’unica parente che aveva in città. La zia, senza figli e vedova da molti anni, era felicissima di averla in casa. E mentre cercava un’occupazione, qualunque fosse, era stata proprio la zia a indirizzarla al negozio della signora Marlene, venendo a sapere che là cercavano qualcuno attraverso i meandri bizzarri del passaparola che regolano il mercato del lavoro a zero e dove la parola di un portiere spesso può più di quella di un professore universitario.

     

    É così che si era ritrovata a fare la commessa – parola grossa anche questa: in due anni aveva sbrigato forse una dozzina di vendite, l’ultima un mese fa: il servizio Limoges del quale, avendolo spolverato per due anni, conosceva a memoria ogni pennellata della decorazione. Così, dopo i dieci anni di fidanzamento con Lucio e dato che gli uomini sembravano scarseggiare quanto il lavoro, da tre anni si trovava anche a fare la zitella. I pochi uomini ‘liberi’ che le erano capitati non le avevano detto granché. Forse era questione del suo giro ristretto di amicizie, forse non ci sapeva fare, forse non riusciva a lasciarsi alle spalle la storia con Lucio; ipotesi questa, che qualunque psicologo avrebbe senz’altro avvallato e che rendeva inutile l’andarci … tanto più che non se lo poteva permettere.

     

    Ed ecco allora che, alla festa di capodanno in cui Marta era riuscita a trascinarla, aveva rivisto Marco, con la sua donna. Aveva ricambiato i saluti e risposto al ‘come va?’ tenendosi sul vago come faceva quando le capitava di incontrare persone conosciute nell’ambito lavorativo e negli anni passati con Lucio. Marco poi, verso fine gennaio si era rifatto vivo e le aveva chiesto una mano perché non riusciva a venirne a capo con quel bando. Si erano incontrati per poco più di due settimane, fino a quella cena. Ed era stata la curiosità ad averla vinta sul disagio per il modo in cui era sparito e lunedì scorso l’aveva chiamato lei, perché a sapere se il progetto fosse andato in porto ci teneva. Con il risultato di trovarsi d’allora là, a crucciarsi su come tutto questo era potuto accadere, dalla svista sulla data al prendersi una cotta per Marco. Perché questo al fondo era il nodo più sconcertante: se Marco era un tipo capace di mettere in giro una simile voce su di lei, com’è che lei si era lasciata illudere? Possibile che aveva fatto tutto da sola come aveva detto lui? Lei non conosceva i segreti alchemici che sottendono l’attrazione tra i sessi, ma, si chiedeva, poteva una attrazione come quella che si era scoperta di avere nei confronti di Marco, nascere nel mero inganno autoreferenziale? Dacché lei in lui aveva visto il solo collega sposato, era stata la mancanza della cornice inibitoria dell’ufficio a renderla soggetta all’infatuazione? O piuttosto quell’intesa che era nata lavorando insieme era invece autentica e frutto di una corrispondenza più profonda, proprio perché insospettabile? Ma allora perché trattarla in quel modo e gridare allo scandalo come fosse caduto nel tranello di una meretrice con la vigliacca volgarità dei moralisti? Possibile che la crisi arrivasse a rimettere in moto persino gli atavici meccanismi della caccia alle streghe per il generarsi del tot di desiderio che faceva ricordare a una donna di mettersi il rossetto? 

     

    Mentre fuori c’era questa bella giornata, le risposte rimanevano rapprese nella piccola macchia sul foglio che continuava a fissare. E il sole certo non poteva tirarla fuori dalla voragine che l’aveva risucchiata ma tant’è che oggi, con il sole, era almeno riuscita a mettersela sotto gli occhi. Piuttosto di darle risposte, la chiazzetta la costrinse a prendere atto che col farsi vivo Marco a gennaio, lei si era trovata riproiettata in un mondo in cui non era più in grado di cavarsela, perché nei due anni di assenza dal lavoro aveva perso lo smalto necessario. Ma il colmo della storia era che tutta questa storia adesso la portava a rimpiangere persino il piattume di esistenza che si era abituata a menare, perché, in fondo, fino a una settimana fa, di come le erano andate le cose, non aveva avuto di che lamentarsi o farne una questione personale: di gente che perde il lavoro e che si separa ce n’era tanta e lei, uno scoglio dove tenersi a galla, nel negozio della signora e a casa della zia ce l’aveva ed era fiduciosa che prima o poi il vento sarebbe cambiato. Anzi, visto che più che di un lavoro si trattava di rimanere inerte tutto il tempo, assecondata dalla biblioteca in cui si era imbattuta nei vicoli vicino al capolinea dell’autobus che la portava in centro, aveva riscoperto la sua passione per i libri dell’adolescenza. Le era capitato di essere così presa da una storia che all’affacciarsi di uno dei sporadici clienti non vedeva l’ora che rinfilasse la porta e la lasciasse tornare alla lettura in santa pace. A vedere a cosa si era ridotta per infatuarsi di uno come Marco, veniva di dare ragione a quelli che un tempo dicevano che il diavolo si nascondeva nei romanzi. Ma ora non riusciva più neanche a leggere, testa e cuore incagliati in quella maledetta macchia, quasi fosse finita nella trappola… nell’ultimo angolo dell’ultima stanza dell’ultima casa del racconto del topo di Kafka.

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    Il baleno di quel racconto le fece venire in mente anche l’altro, il racconto del Cavaliere del secchio che finisce con la cavalcata dell’uomo rimasto senza carbone verso le montagne del ghiaccio. Ma perché poi costui, quando non vollero dargli del carbone, non era andato a raccogliersi un po’ di legna da ardere? E perché poi, possedendo lui un secchio-cavallo, lo aveva puntato proprio a quelle montagne? Poteva prendere un’altra direzione, che ne so, i Caraibi? Nei suoi mesi di letture, Emma una volta aveva pensato che in letteratura i mondi dei personaggi girano non tanto per l’invenzione, che tendiamo a pensare come un plus rispetto al reale, ma piuttosto per la riduzione del mondo reale che gli scrittori compiano a misura di vita dei loro personaggi. E se allora la sua macchia fosse come il secchio del cavaliere di Kafka, lei…

     

    Venne riportata alla realtà dal ragazzo del bar che faceva il giro delle botteghe per prendere le ordinazioni dei panini per il pranzo. “Grazie Andrea, ma quasi quasi mi faccio una passeggiata. Ci vediamo dopo per il caffè”, rispose mentre prese ad accartocciare il foglio tra le mani. Uscito il ragazzo si mise la giacca, infilò la pallottola nella tasca e girò il cartello ‘torno subito’ sulla porta prima di chiudere e incamminarsi.

     

    Tagliò per lo slargo e per il vicolo che fiancheggiavano il palazzo di fronte e giunta sul lungofiume si sporse sul massiccio parapetto e rimase faccia rivolta al sole per qualche momento. Poi tirò fuori la pallina che stringeva in tasca e la fece volare nel fiume in una lunga arcata: la pallina di carta galleggiava leggera nel grande fluire e Emma la seguì fino a quando sparì nelle rapide che mulinavano nei pressi del ponte.

     

    Andò verso il ponte anche lei, si era ricordata della libreria nelle viuzze oltre fiume, che raggiunse e dove chiese il volumone di storia della letteratura che in biblioteca non riusciva mai a farsi imprestare. La comprò, prese un pezzo di pizza al forno accanto e trovata una banchina iniziò a leggere.

     

    Ogni qual volta che nelle settimane a seguire l’oppressione per il bando minacciava di rifarsi ancora viva in lei, l’immagine della piccola pallina bianca danzante nel fiume e nella luce di quella magnifica giornata di primavera le rammentava che quella macchia era svanita assieme al copione imperscrutabile che pretendeva che lei ne morisse, e invece aveva potere solo su coloro che scambiando secchi vuoti per cavalli continuano a vivere asserragliati nei pressi delle montagne di ghiaccio.

     

    I racconti di Kafka non sono difficili; non è questione di capire, è questione che sono storie. E quant’a certe macchie, forse tutto sta nel cogliere il momento del nostro vivere che le rende storia e allora fare a loro prendere il via e noi tenerci quel momento.

    Fanz Kafka : Il Cavaliere del secchio -Leggi qui

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