• Kafka – Il processo e lo spirito dell’alveare – Recensione

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    di Gian Carlo Zanon

    «Per parlare di libri si ritrovano nei Caffè, in spazi di quartiere, si offrono ospitalità a turno. Nuovi gruppi di lettura crescono in Italia. (…) Un segnale guardato con speranza nel mondo dell’editoria, da tempo in affanno.» così scrive su Left n. 17 ora in edicola, nel cappello di apertura del suo articolo I girotondini della lettura, Filippo La Porta.

    Sono contento di riconoscermi in quanto scrive La Porta: faccio parte da qualche anno del gruppo di lettura Upsilamba, nato nella gloriosa libreria Amore e Psiche di Roma – ormai fatta sparire per farci una sala benessere di un albergo – e questo suo richiamo ai girotondini rivoluzionari intrisi di letteratura mi piace da morire.

    Quello che io preferisco definire “il nostro movimento di lettura”, ha concluso venerdì scorso un ciclo di letture che aveva per tema, il “senso di colpa”. Partendo da Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij siamo giunti a Il processo di Kafka, transitando per Maledetto Dostoevskij di Atiq Rahimi, e da La neve era sporca di George Simenon. È stato un percorso letterario non semplice ma molto, molto interessante.

    Inutile dire che Il processo di Franz Kafka è stato il meno “digeribile”, vuoi per la sua complessità vuoi per l’ermetismo che pervade non solo questo testo ma tutta l’opera kafkiana. Opera enigmatica ma universale che trascende la cornice sociale e storica inoltrandosi nei sentieri tortuosi dei rapporti interumani e quindi nelle dinamiche psichiche che li pervadono.

    I guai di Josef K., il protagonista del romanzo, iniziano il giorno del suo compleanno. Inoltre, come per Gregorio Samsa de La metamorfosi, tutto inizia al risveglio: «”Chi è lei?”, chiese K. sollevandosi a metà sul letto. » all’uomo che era entrato nella sua stanza. «Qualcuno doveva aver diffamato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato».

    Il protagonista da quel momento viene catapultato in un vissuto assurdo con spiragli tragicomici. Dopo quel risveglio violento K. si rende conto dell’esistenza di un mondo parallelo, un alveare giudiziario di cui non conosceva l’esistenza retto da regole fluttuanti formate da labirinti di parole che fuoriescono dalle gole dei vari personaggi che egli incontra. Labirinti di parole in cui la mente rischia di smarrirsi e che sintetizzano un solo ordine: “ubbidisci ciecamente”. L’avvocato e la sua “segretaria” Leni, il Bastonatore, il pittore Titorelli, il commerciante Block, il prete cappellano delle carceri e altri personaggi minori, sono tutti integrati in questo “labirinto di parole giudiziario” estraneo a K. ma con il quale egli suo malgrado deve fare i conti.

    2Processo

    Il dibattersi di K. nel processo ci mostra il vissuto di un essere umano nel disperato tentativo di sfuggire al “sistema” che lo vuole risucchiare nel suo groviglio concettuale costruito con le parole sacralizzate della Legge. Come ha suggerito una girotondina del nostro movimento letterario, la “colpa” di Josef K., la sua “ybris”, è quella di credere di poter continuare a vivere a latere del sistema resistendo alle parole dettate dallo spirito dell’alveare. Sistema che K. pensava parallelo ma che in effetti è la realtà socio culturale che egli non “vedeva” chiaramente prima del suo tragico risveglio.

    La ybris, la colpa che fa vagare Odisseo per anni in balia di Eolo e Poseidone, non è quella di aver accecato il Ciclope figlio del dio del mare, ma quella di essere uscito dall’anonimato identitario, connotato dal nome Nessuno, gridando al mondo la “tracotanza” della sua nascita «io sono … ». Se vogliamo anche quella di Josef K. è un’Odissea che inizia con la “Prima udienza” in cui egli anziché assumere l’abito del penitente sfida l’assemblea giudicante proclamando, con “tracotanza” la propria avversità al sistema: «Quello che mi è accaduto – afferma K. – è solo un caso isolato e come tale non molto importante, (…) ma è il segno di un modo di procedere che viene adottato a danno di molti. Ed è per costoro che io sono qui, non per me». E l’«io sono qui» gli sarà fatale.

    «Lei appartiene alla società che io devo combattere» dice stizzito il protagonista alla moglie dell’usciere del tribunale, una delle donne del romanzo che, come nel coro del teatro greco, ha la funzione di cercare sia la mediazione tra il “sistema” e l’individuo che gli resiste, sia il suo reintegro: «La mamma rivestiva inconsciamente il ruolo del battitore in una battuta di caccia. (…) grazie alle sue ‘intercessioni’ io venivo risucchiato nella tua orbita, alla quale, altrimenti, sarei riuscito a sottrarmi. » Questo troviamo scritto nella Lettera al padre scritta da Kafka nel 1919 e mai spedita. E il romanzo riporta gli echi di questa sua consapevolezza.

     

    La vita di Kafka in buona parte è stata spesa per resistere a chi pretendeva da lui la completa identificazione con il macro sistema sociale composto da infinite cellule tra cui la più importante: la famiglia. «… la tua mano e il mio essere, la materia da plasmare, erano così estranei l’una dall’altro», scrive al padre che cercò in tutti i modi possibili che il figlio si identificasse con lui per farne un bravo burattino da inserire nel teatro mundi dell’alveare. Kafka aveva aperto gli occhi su questa realtà e l’aveva non solo rifiutata “istintivamente” ma era riuscito a verbalizzarla e a rappresentarla nelle sue opere.

    10 maggio 2015

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