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di Gian Carlo Zanon
Ho sempre amato dedicare parte del mio tempo alla natura, in particolare alle piante. Le osservo, le curo, tento di farle riprodurre dove e come voglio.
Da un po’ di giorni mi capita spesso di pensare – mentre curo il giardino in comune della mia nuova casa – alla mia “ossessione” di tenere separate le piante sia tra loro sia da elementi architettonici come il piazzale pavimentato con pietre di fiume, o come le pietre che ho collocato in cerchio attorno al superbo ulivo creando un aiuola all’interno che divide fiori e piante odorose dal prato, oppure dalle scale, dai muri, ecc. ecc..
Ho pensato che questo lavorio continuo, che mi permette di pensare in solitudine, lo si potrebbe chiamare “separazione tra natura e cultura”. L’atto estetico di separare gli elementi tra loro è un lavorio culturale che marca poeticamente il territorio. È qualcosa di umano che si manifesta nella materia; è qualcosa di sociale perché gli individui che vedono ciò che faccio si mettono in relazione – quasi sempre inconsapevolmente – col mio pensiero.
So, per aver studiato la Teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli, che la separazione tra natura non umana e la natura umana è il pensiero primario dell’essere umano che viene alla luce. Pensiero primario che fonda il senso dell’esistenza umana. Pensiero primario perché la nuova realtà umana che si affaccia alla prima luce, immediatamente predilige il rapporto interumano al rapporto con la natura non umana.
In seguito questa scelta primaria porterà l’essere umano a non accettare, anche dal punto estetico, passivamente la natura. La dinamica della nascita che comprende la capacità di alienare un pensiero inconscio fuori di sé, dà la possibilità all’essere umano di mettere qualcosa di sé nella natura non umana “umanizzandola”.
Se l’essere umano non perderà questa sua umanità primaria, ovvero la certezza/speranza di una rapporto interumano che comporti la realizzazione di entrambi, alienerà nell’altro da sé quest’immagine sociale che racchiude in sé la volontà che il disumano si trasformi in umano.
Qui il discorso diviene complicato, ma basta un po’ di buon senso per capire che attraverso il rifiuto per ciò che è disumano e l’interesse per ciò che negli altri è umano noi costruiamo la nostra identità umana.
Identità che altro non è che la nostra profonda realtà umana che finché ha la capacità di opporsi al disumano e la possibilità di proporre e riproporre l’umano, potrà modificare la sensibilità umana del pianeta. Lo dovrà fare in modo diretto con il rapporto profondo con l’altro da sé e culturalmente, giudicando politicamente e socialmente, ogni evento e lottando «Una lotta, senza armi, soltanto rivoluzione del pensiero e parola» come quella auspicata dallo psichiatra Massimo Fagioli.
Mettere, alienare qualcosa di umano che è in sé nei rapporti umani diretti e indiretti (come questo articolo), significa popolare la realtà sociale di senso. Significa dare spessore alla realtà umana e sociale. Vuol dire dare nome e volto alla complessità del reale intero legandolo insieme con i fili invisibile del senso. Fare questo in modo “ossessivo”, così da rendere insensato e asociale qualsiasi discorso disumano che giudica socialmente e politicamente corretta la disumanità che nega l’umanità ai figli di un dio minore, a chi non si conosce neppure…
Il discrimine tra identità umane non è nel sangue, non è nella cultura, tra i partiti, nella nazionalità, tanto meno nella religione. Il discrimine è tra ciò che umano e ciò che umano non è: non aiutare essere umani che sfidano la morte per una vita degna di essere vissuta è disumano, e non c’è libertà di pensiero su questo perché «la libertà è l’obbligo di essere umani»…
13 giugno 2018