• Gramsci – Lettere dal carcere e fiabe tradotte per i figli (Lettera VII)

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     Julca Schucht (moglie di Gramsci) con i figli Delio e Giuliano

    L’albero del riccio

    Caro Delio,

    mi è piaciuto il tuo angoletto vivente coi fringuelli e i pesciolini. Se i fringuelli scappano dalla gabbietta, non bisogna afferrarli per le ali o per le gambe, che sono delicate e possono rompersi o slogarsi; occorre prenderli a pugno pieno per tutto il corpo, senza stringere. Io da ragazzo ho allevato molti uccelli e anche altri animali: falchi, barbagianni, cuculi, gazze, cornacchie, cardellini, canarini, fringuelli, allodole ecc. ecc.; ho allevato una serpicina, una donnola, dei ricci, delle tartarughe.

    Ecco dunque come ho visto i ricci fare la raccolta delle mele. Una sera d’autunno, quando era già buio, ma splendeva luminosa la luna, sono andato con un altro ragazzo, mio amico, in un campo pieno di alberi da frutta, specialmente di meli. Ci siamo nascosti in un cespuglio, contro vento. Ecco, a un tratto, sbucano i ricci, cinque: due più grossie tre piccolini. In fila indiana si sono avviati verso i meli, hanno girellato tra l’erba e poi si sono messi al lavoro: aiutandosi coi musetti e con le gambette, facevano ruzzolare le mele, che il vento aveva staccato dagli alberi, e le raccoglievano insieme in uno spiazzetto, ben bene vicine una all’altra. Ma le mele giacenti per terra si vede che non bastavano; il riccio più grande, col muso per aria, si guardò attorno, scelse un albero molto curvo e si arrampicò, seguito da sua moglie.

    Si posarono su un ramo carico e incominciarono a dondolarsi, ritmicamente: i loro movimenti si comunicarono al ramo, che oscillò sempre più spesso, con scosse brusche, e molte altre mele caddero per terra. Radunate anche queste vicino alle altre, tutti i ricci, grandi e piccoli, si arrotolarono con gli aculei irti, e si sdraiarono sui frutti, che rimanevano infilzati: c’era chi aveva poche mele infilzate (i riccetti), ma il padre e la madre erano riusciti a infilzare sette o otto mele per ciascuno.

    Mentre stavano ritornando alla loro tana, noi uscimmo dal nascondiglio, prendemmo i ricci in un sacchetto e ce li portammo a casa.

    Io ebbi il padre e due riccetti e li tenni molti mesi, liberi, nel cortile; essi davano la caccia a tutti gli animaletti, blatte, maggiolini ecc., e mangiavano frutta e foglie d’insalata. Le foglie fresche piacevano loro molto e così li potei addomesticare un poco; non si appallottolavano più quando vedevano la gente. Avevano però molta paura dei cani.

    Io mi divertivo a portare nel cortile delle bisce vive per vedere come i ricci le cacciavano. Appena il riccio si accorgeva della biscia, saltava lesto lesto sulle quattro gambette e caricava con molto coraggio. La biscia sollevava la testa, con la lingua fuori e fischiava; il riccio dava un leggero squittio, teneva la biscia con le gambe ritte davanti, le mordeva la nuca e poi se la mangiava a pezzo a pezzo. Questi ricci un giorno sparirono: certo qualcuno se li era presi per mangiarli.

    Ti scriverò un’altra volta sul ballo delle lepri, dell’uccello tessitore e dell’orso, e su altri animali ti voglio raccontare altre cose che ho visto e sentito da ragazzo: la storia del polledrino, della volpe e del cavallo che aveva la coda solo nei giorni di festa ecc.  ecc. Mi pare che tu conosca la storia di Kim, le novelle della jungla e specialmente quella della foca bianca e di Rikki-Tikki-Tawi?

     

    Ti bacio.

    Antonio

     

    Jualca

    Il forasiepe* e l’orso

     

    Fiaba dei fratelli Grimm tradotta da Antonio Gramsci per i figli

    In una giornata d’estate l’orso e il lupo andarono insieme a passeggio per la foresta; l’orso udì il bellissimo canto di un uccellino e disse: «Fratello lupo, che uccello è questo che canta così bene?».

    «È il re degli uccelli – disse il lupo, – dinanzi al quale noi dovremo inchinarci». Ma era solamente un forasiepe.

    «Poiché è un re – disse l’orso, – vorrei vedere il suo regale palazzo; fammelo vedere».

    «Non è così semplice come tu pensi – rispose il lupo, – devi aspettare finché viene la signora regina».

    Poco dopo venne la signora regina e aveva del cibo nel becco e anche il signor re e volevano dare l’imbeccata ai loro piccoli. Ma l’orso era impaziente di vedere il palazzo regale e senza aspettare molto si avvicinò. Il re e la regina erano già andati via; l’orso guardò nel nido e vide cinque o sei piccoli che vi si agitavano.

    «Questo è un palazzo reale? – sghignazzò. – Questo è un palazzo spregevole! E questi ranocchi non sono certo figli di re, essi sono degli svergognati senza cuore».

    Appena i piccoli forasiepe udirono queste parole oltraggiose, si arrabbiarono moltissimo e gridarono: «No, non siamo degli svergognati, i nostri genitori sono persone oneste; orso, dovrai pagar care le tue ingiurie».

    L’orso e il lupo si sentirono a disagio, andarono via e si accucciarono nelle loro tane. I piccoli forasiepe continuarono però a gridare e a far chiasso e quando i loro genitori tornarono per imbeccarli, dissero: «Noi non toccheremo neanche una gamba di mosca e moriremo di fame se voi prima non dimostrerete che siamo gente onesta; l’orso è stato qui e ci ha oltraggiato».

    Il vecchio forasiepe disse: «State pur tranquilli, ciò che volete sarà fatto». Poi volò con la signora regina dinanzi alla tana dell’orso e gridò: «O vecchio brontolone perché hai oltraggiato i miei figli? Ciò ti porterà disgrazia, perché noi vogliamo risolvere la questione col sangue».

    Così fu proclamata la guerra all’orso. Furono chiamati in assemblea tutti gli animali a quattro gambe, il bue, l’asino, il vitello, il cervo, il capriolo e tutti gli altri quadrupedi del mondo. Il forasiepe, dal canto suo, riunì tutto ciò che vola nell’aria, non solo gli uccelli grandi e piccoli ma anche le zanzare, i calabroni, le api e le mosche dovettero venire all’assemblea.

    Quando arrivò il tempo in cui la guerra doveva incominciare, il forasiepe mandò un emissario per informarsi chi fosse il comandante generale del nemico. La zanzara era la più astuta di tutti; svolazzò per la foresta dove il nemico si radunava e finalmente si posò dietro una foglia dell’albero sotto il quale parlava chi aveva la parola. L’orso, che era lì sotto, chiamò la volpe presso di sé e le disse: «Tu sei la più astuta di tutti gli animali, perciò tu devi essere il generale e condurci in battaglia». «Bene – rispose la volpe, – ma quale bandiera sceglieremo?». Nessuno lo sapeva.

    La volpe continuò: «Io ho una bella, lunga e folta coda che sembra quasi un pennacchio rosso; se io tengo la coda dritta, vuol dire che le cose vanno bene e voi dovete senz’altro avanzare; ma se la faccio ricadere giù, allora si salvi chi può».

    Appena la zanzara ebbe udito questo discorso, volò verso il suo esercito e lo riferì al forasiepe per filo e per segno.

    Quando giunse il giorno in cui doveva essere impegnata la battaglia, tutti i quadrupedi vennero al galoppo nel loro campo, con tale strepito che ne tremò il suolo. Il forasiepe fece anch’egli l’adunata del suo esercito che riempì l’aria di ronzii, di grida, di svolazzi tanto da incutere ambascia e tremore.

    Poi si scontrarono.

    Il forasiepe intanto aveva inviato giù il calabrone, il quale doveva posarsi sotto la coda della volpe e pungerla con tutta la forza possibile. Quando la volpe sentì la prima puntura, dette un guizzo, sollevò una gamba e sopportò tenendo la coda dritta; alla seconda puntura dovette abbassarla per un momento; ma alla terza puntura non si poté più tenere, cacciò un urlo e si prese la coda tra le gambe. Appena il suo esercito la vide così pensò che tutto fosse perduto e incominciò a scappare, ognuno nella sua tana.

    E così gli uccelli guadagnarono la battaglia.

    Allora il forasiepe e sua moglie volarono al nido e dissero ai loro piccoli: «Figli, rallegratevi, mangiate e bevete per la gioia, abbiamo vinto la guerra».

    Ma i piccoli forasiepe risposero: «Non mangeremo finché l’orso non verrà dinanzi al nido, domanderà scusa e dichiarerà che siamo gente d’onore».

    Il forasiepe volò alla tana dell’orso e gridò: «Borbottone, devi andare dinanzi al nido dei miei piccoli, domandare scusa e riconoscere che siamo gente d’onore, altrimenti ti fracasseremo le costole».

    L’orso, spaventatissimo, strisciò pancia a terra fino al nido, domandò scusa, e dichiarò che i forasiepe sono gente d’onore.

    Solo allora i giovani forasiepe furono contenti; si misero in circolo, mangiarono e bevettero e fecero chiasso fino a notte inoltrata.

     

    * forasiepe o scrìcciolo: piccolo uccello della famiglia dei passeri.

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    Nota:  i testi proposti qui sono tratti da http://www.liberliber.it/mediateca/libri/g/gramsci/l_albero_del_riccio/pdf/l_albe_p.pdf

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    postato 12 marzo 2014 ore 18.43

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