• Gente di cinema – Sergej Ejzenštejn: genesi del primo piano

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     Sergej Ejzenštejn

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    Storia del primo piano

     Il titolo originale è Istorija krupnogo plana.

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    Un ramo di lillà.

    Bianco,

    doppio.

    Nel verde intenso delle foglie.

    Immerso in un accecante raggio di sole.

    Irrompe nella stanza dalla finestra.

    Si dondola sotto il davanzale.

    Ed è il primo ricordo nella cerchia delle impressioni infantili.

    Primo piano!

    Il primo piano di un lillà bianco che dondola sopra la mia culla è la prima impressione della mia infanzia.

    Del resto, non si tratta più, di una culla. È un lettino bianco, con quattro globi nichelati agli angoli; e, distesa fra i globi, una rete bianca, per impedirmi di cadere.

    Sono già uscito dal periodo della culla.

    Devo già avere tre o quattro anni!

    Io e i genitori viviamo nella villa di campagna, sul litorale di Riga, in quella che oggi si chiama Majori e che allora si chiamava Majorenhof.

    Un ramo di lillà bianco si affaccia dalla finestra, nella sezione obliqua di un raggio di sole.

    Dondola su di me.

    La mia prima impressione cosciente: un primo piano.

    Così la mia coscienza si andava ridestando sotto un ramo di lillà.

    Poi, per molti anni di fila, sotto un ramo come questo, ha ripreso ad addormentarsi.

    Solo che il ramo non era più vero, ma dipinto, dipinto per metà, e per metà ricamato in seta e fili d’oro.

    E si ritrovava su un paravento giapponese a tre pannelli.

    Per molti anni di seguito mi sono addormentato fissando questo ramo.

    Non ricordo quando abbiano cominciato a metterlo accanto.

    Ma mi pare che ci sia sempre stato.

    Il ramo era lussureggiante  e ricurvo. C’erano sopra alcuni uccellini.

    E in lontananza, dietro il ramo, erano dipinti i tradizionali elementi del paesaggio giapponese.

    Piccole capanne.

    Giuncheti.

    Piccoli ponti su ruscelli.

    Barchette a punta, disegnate con due soli tratti.

    Il ramo non era più soltanto un primo piano.

    Era un primo piano tipico per i giapponesi, attraverso il quale delineava la lontananza.

    Così, prima di conoscere Hokusai, prima di appassionarmi per Edgar Degas, andavo ammirando il fascino di una composizione in primo piano.

    Un piccolo particolare vi assumeva dimensioni tali da dominare tutto il resto.

    Poi, non so come, il paravento fu squarciato in due punti da una sedia. Ricordo le due brecce.

    Poi sparì del tutto.

    Credo che i due rami abbiano collegato in un’unica impressione generale due concetti: il concetto di primo piano e quello di composizione in primo piano, congiunti organicamente nel loro sviluppo.

     E quando molti anni dopo volli andare in cerca dei precedenti storici del primo piano filmico, cominciai inconsciamente a rintracciarli non in un ritratto isolato o in una natura morta, ma nell’affascinante storia del modo come dall’insieme di un quadro comincia a prendere rilievo un singolo elemento. O come dal campo lungo di un paesaggio, nel quale è a volte impossibile distinguere Icaro che precipita o Dafni e Cloe, le figure cominciano ad avanzare, fino a giungere in primissimo piano per esser poi tagliate fuori dal quadro come nello Espolio di El Greco.

    La tradizione della composizione in primo piano l’appresi dai due Edgar.

    Edgar Degas e Edgar Poe.

    Il primo Edgar fu Allan Poe.

    La viva impressione suscitata dal ramo giapponese dipinto valse probabilmente a rendere ancora più forte quella che lasciò in me il racconto di Poe in cui lo scrittore, dalla finestra, scorge ad un tratto un mostro gigantesco, che serpeggia in lontananza, lungo i rilievi di una catena montuosa.

    Poi risulta che non si tratta affatto di uno smisurato mostro antidiluviano, ma di un modesto grillotalpa, che striscia sul vetro.

    La combinazione ottica di questo primissimo piano con la catena di monti, in lontananza, riesce appunto a suscitare il terrificante effetto magistralmente descritto da Edgar poe.

    E interessante notare che l’invenzione di Poe non può basarsi su un’impressione diretta: l’occhio umano non riesce a «mettere a fuoco» simultaneamente un primo piano così ravvicinato e i contorni netti di una catena di monti che si profili in lontananza.

    Questo lo può fare soltanto l’obiettivo della macchina da presa, e per giunta solo il “28”, che è dotato della prodigiosa facoltà di deformare il primo piano, ampliandone artificiosamente le proporzioni.

    Un’ipotesi su come è nata in Edgar Poe un’idea del genere penso che oserò formularla in un lavoretto sugli elementi cinematografici presenti nell’opera di El Greco.

    Io ritengo che la combinazione fra il ramo di lillà bianco e la plastica descrizione del racconto di Edgar Poe, deve avere, con ogni probabilità, influito sulla mia predilezione per i primi piani di grande effetto.

    Penso ai teschi e ai monaci, alle maschere e alle giostre del Giorno dei morti nel mio film messicano.

    La macchia del ramo bianco di lillà, trasformata in un teschio bianco, si accampa in primo Piano.

    E il raccapriccio del racconto di Edgar Poe si trasfonde nel gruppo di monaci, con le loro tonache nere, sul fondo.

     Dall’insieme traspare l’ascetismo cattolico dei gesuiti, che imprime il tallone di ferro del rogo e del sangue sullo splendore sensuale dell’ironica bellezza messicana.

    Le giostre del Giorno dei morti ripetono in chiave ironica lo stesso tema tragico.

    Qui sono lanciati di nuovo in primo piano i teschi bianchi, così prorompenti dallo schermo che pare quasi di poterli toccare.

    Ma i teschi sono di cartone: maschere di teschi.

    E dietro vorticano le giostre e le ruote, balenando attraverso le vuote occhiaie delle maschere, costringendole ad ammiccare, quasi a significare che la morte è soltanto un vuoto pezzo di cartone,

    attraverso il quale il turbine della vita si farà sempre strada.

    Un altro bell’esempio è dato dalla combinazione del profilo di una ragazza maya con l’intera piramide di Cich’ en Itzà in una stessa inquadratura. Questo genere di composizione era stato da me elaborato, con particolare cura, già ne Il vecchio e il nuovo.

    Le incomparabili composizioni del secondo Edgar, Edgar Degas, e le costruzioni, talvolta ancor più acute, di Toulouse-Lautrec, ci ripotano nella sfera delle opere di carattere puramente plastico.

    Ma lo stesso intrico di impressioni descrittive e immediatamente visive rivestiva per me un significato particolare. Probabilmente, riuscivo ad afferrare per la prima volta l’anello di congiunzione tra la pittura e la letteratura, viste entrambe in chiave plastica.

    Mi riferisco ai primi tentativi di una lettura visiva di Puškin, basata sugli elementi plastici e di montaggio.

    Via via che conoscevo le opere di Puškin e, quando ve ne fu bisogno, in traduzione, anche di Milton.

    In seguito, nel lavorare su Puskin e poi su Gogol’, la sensazione di questo nesso si andava approfondendo.

    Se in Edgar Poe c’è in sostanza un paesaggio minutamente descritto, proprio nel suo aspetto essenziale di quadro visivo, quasi di fenomeno ottico, in Puškin si ha la descrizione dello stesso fatto o fenomeno, improntata a tanta precisione e rigore che è possibile ricreare quasi per intero l’immagine visiva balenata concretamente dinanzi agli occhi del poeta.

    Si tratta precisamente di un’immagine «balenata» e accessibile soltanto alla dinamica della descrizione letteraria, perché l’immobile tela del quadro è comunque incapace di coglierla.

    Per questo motivo il quadro dinamico delle descrizioni puškiniane è stato percepito con tanta acutezza solo dopo l’avvento del cinema.

     Tynjanov ha parlato della concretezza della lirica di Puškin; ha detto che i suoi versi lirici non sono un gioco di formule poetiche convenzionali, ma la trascrizione di autentici «stati d’animo» lirici, di esperienze emotive, scaturite. sempre da un movente reale e ispirate a un orientamento preciso.

    L’analisi dei poemi (ma anche della parola) di Puškin dimostra che altrettanto precise risultano le descrizioni di personaggi completamente reali, che è possibile ricostruire in base alle sue parole.

    Trasferire il testo puškiniano in un sistema di montaggio, di successione delle inquadrature, rappresenta un vero godimento, dato che pian piano si riesce a capire come il poeta vedeva e descriveva, nel suo divenire, un determinato fenomeno.

    (Esempi: il finale del Cavaliere di bronzo,  la Istomina, Il prigioniero del Caucaso, Il conte Nulin, l’uscita di Pietro il Grande).

    Questi gli esempi nell’ambito del montaggio.

    Ma non è meno stupefacente il «micromontaggio» di Puškin, vale a dire la combinazione di singoli elementi nell’ambito di un’unica inquadratura.

    Qui, nella disposizione delle parole all’interno della frase, si ripete lo stesso fenomeno.

    E dove si prenda per norma che l’ordine di successione delle parole ne determina la posizione, dal primo piano dell’«inquadratura». a quelli più profondi (il che è abbastanza naturale), allora ogni frase del poeta coincide con uno schema di composizione plastica tracciato con la massima precisione.

    Io parlo qui di schema della composizione, perché la disposizione delle parole ne rappresenta l’elemento principale e determinante: la connessione e dislocazione consapevole degli elementi del soggetto e degli altri valori all’interno dei quadri. Quest’«ossatura determinante» si può rivestire di qualsiasi soluzione pittorica.

    E questo, senza infirmare il rigore dell’assunto artistico, permette a chiunque voglia ricostruire figurativamente la descrizione letteraria di interpretarla alla propria maniera.

    Queste sono sia le premesse sia il limite delle interpretazioni delle opere di un autore, proprio come per qualsiasi aspetto della regia.

    Un buon esempio di come si sviluppano l’intento e il processo compositivo dell’autore e di come si possa, trascurandoli, perdere il senso della struttura, lo abbiamo confrontando un autentico brano di Gogol’ con una sua interpretazione cinematografica stereotipata. Un esempio lo si potrebbe trovare nel libro di Kulešev. (L’inizio dell’attacco in Taras Bul’ba, la comparsa di Andrij).

    Certo, anche qui gli esempi più curiosi ci vengono offerti dai cinesi, presso i quali l’unità della scrittura pittorica e letteraria scaturisce dall’originaria percezione visiva e dalle sue peculiarità specifiche, determinando l’originalità formale delle due scritture.

    Io penso che come la disposizione delle parole in Puškin fu per me uno stimolo a superare le prime impressioni, così lo stesso Puškin rappresentò per me un passo verso il tema che più mi affascinava, quello del contrappunto audiovisivo.

     In realtà, nel carattere dell’equivalente visivo della dislocazione delle parole in Puškin molto spesso si inserisce l’intonazione e la linea melodica della frase.

    Il grafico melodico è talmente chiaro e coincide a tal segno con l’oggetto scenico descritto verbalmente che talvolta ci appare come la cornice dei particolari o degli elementi dinamici e statici compresi nel campo visivo. (Esempio: i proiettili in Poltava).

    Da qui basta un passo per giungere all’oggetto concreto che scompare, lasciando solo il profilo e il tessuto tonale che gli è caratteristico.

    La melodia del verso si è trasformata in musica.

    Si pone pertanto il problema di combinare gli elementi sonori e visivi.

    Qui m’interessano anzitutto le vie e gli incroci che ho attraversato per avvicinarmi ai problemi centrali, che mi hanno assillato in vari periodi della mia esperienza artistica.

    Il dolce veleno del montaggio audiovisivo è venuto in un secondo tempo.

    Nel cinema muto erano in causa solo il montaggio e la funzione del primo piano.

    Anche se è interessante notare che già nel cinema muto io cercavo spesso di esprimermi mediante la combinazione plastica di effetti puramente sonori.

    Ricordo come nel ventisette, durante alcune riprese notturne del Palazzo d’Inverno per Ottobre, mi sforzassi di ricreare visivamente l’impressione del rimbombo delle salve di artiglieria dell’Aurora nelle stanze del palazzo.

     L’eco rotola da un salone all’altro del palazzo e giunge alla stanza dai mobili foderati di bianco, dove i ministri del Governo Provvisorio, imbacuccati nelle loro pellicce, attendono l’istante, per essi fatale, dell’instaurazione del potere sovietico.

    Grazie a un acuto ritmo di aperture e chiusure di obiettivo sulle sale vuote, il sistema dei diaframmi di iride si proponeva di cogliere il respiro, il ritmo dell’eco, che correva di sala in sala.

    Più riuscito e più impresso nella memoria del pubblico fu il tintinnio dei lampadari di cristallo in risposta alle scariche di mitragliatrice sulla piazza.

    Qui, oltre all’equivalente visivo e dinamico dei dondolanti pendagli di cristallo, c’era anche un’associazione puramente oggettiva.

    Naturalmente, dal punto di vista metodologico, era più interessante il tentativo di cogliere l’equivalente grafico dell’eco!

    (Il primo piano così come veniva impiegato nel cinema muto, già isolato dallo sfondo generale, vivo come una pars pro toto interamente astratta in se stessa, appare connesso, nel mio intimo, con un’impressione dal vivo già parecchi anni prima che io cominciassi in generale a lavorare, perfino in teatro!).

    Il primo piano quale elemento di possibili combinazioni puramente ritmiche è connesso nel mio intimo con una reale sarabanda di nasi e di occhi, di orecchie e di mani, di cinture tenute alte con l’ausilio di spille da balia, di orecchini e di pettinature adorne di fiori e nastrini.

    La visione diurna differisce profondamente da quella notturna.

    La prima si ha da svegli.

    La seconda nel sonno.

    Nella normale visione diurna, la combinazione dei particolari e dell’insieme è talmente armoniosa che si rende indispensabile una particolare abilità, frutto di un lungo allenamento – l’occhio di una guida indiana o del suo discendente Sherlock Holmes o un’improvvisa e intensa eccitazione perché da questo complesso possano erompere le isolette dei primi piani.

    L’occhio dev’essere abituato all’analisi per poter cogliere i particolari.

    Bisogna possedere una non comune capacità di sintesi per rintracciare fra i dati della visione analitica il particolare decisivo, caratteristico, suscettibile di ricreare in un frammento l’immagine del tutto.

    É interessante osservare che nel sogno il tutto e la parte sono fusi in maniera altrettanto armonica, ma in modo da restare distinti.

    È difficile trovare una descrizione migliore di quella che ci dà … Dostoevskij nel colloquio di Ivan Karamazov con il diavolo, dove sono indicati in maniera così caratteristica le  «manifestazioni superiori» e l’«ultimo bottone sullo sparato della camicia» (e si ricordi Lev Tolstoj, stupendo nelle grandiose scene di battaglie negli «improvvisi dettagli» delle treccioline sul collo di Anna Karenina), e dove si dice che queste cose le vedono perfino «gli uomini comuni», vale a dire quelli per i quali, da svegli, il «tutto» si presenta come un quadro continuo e indifferenziato.

    Ma i più interessanti sono gli stati intermedi: né sogno, né realtà.

    Il balzo da uno stato all’altro sembra scindere tanto l’una che l’altra armonia: i frammenti delle percezioni o impressioni vengono agitati come dadi e rimescolati come un mazzo di carte.

    Sulla linea di confine tra i due stadi ho scoperto la sarabanda dei primi piani.

    Non era una danza sul Monte Calvo.

    E nemmeno su un monte qualsiasi.

    Ma su uno spiazzo di terra dinanzi ad alcune solide isbe, in una località del distretto di Cholmsk, nell’ex governatorato di Pskov.

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