• Franz Kafka – Nella colonia penale – Racconto (1921) Seconda e ultima parte

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    Mi sembra di vederlo, il buon comandante, respingere la sedia e correre al balcone, mentre le signore gli Si precipitano dietro, mi sembra di sentire la sua voce: ‘Un grande esploratore dell’Occidente, incaricato di studiare l’ordinamento giudiziario dei vari paesi, ha detto un momento fa che i nostri provvedimenti giudiziari sono inumani. In seguito al giudizio di una tale personalità non mi è più possibile, naturalmente, tollerare questa procedura. Da oggi in avanti ordino… eccetera’.

    Lei vorrebbe precisare che non ha detto quello che lui proclama, che non ha chiamata inumana la mia procedura, è convinto, anzi, che essa è la più nobile e la più umana, inoltre ammira l’apparecchio. Niente da fare, troppo tardi: lei non arriva nemmeno al balcone affollato di signore: vuole richiamare l’attenzione, vuole gridare, ma una mano di donna le chiude la bocca -e io e l’opera del vecchio comandante siamo perduti”.

     

    L’esploratore dovette reprimere un sorriso: così facile era l’impresa che gli era sembrata tanto difficile. Disse evasivo: “Lei esagera la mia influenza. Il comandante ha letto la mia lettera di raccomandazione, sa che non sono un esperto di procedimenti giudiziari. Se esprimessi un’opinione, questa sarebbe l’opinione di un privato cittadino, non più importante di qualsiasi altra persona e, in ogni caso, assai meno importante di quella del comandante stesso, il quale, credo, ha poteri molto ampi su questa colonia. Se il comandante la pensa come lei dice, temo che la fine della procedura sia vicina, anche senza bisogno del mio modesto concorso”.

     

    L’ufficiale capiva? No, ancora non capiva. Scosse vivacemente il capo, si girò un attimo a guardare il condannato e il soldato, che sussultarono e smisero di mangiare il riso, si fece addosso all’esploratore e, fissando non il suo viso ma un punto della sua giacca, disse ancora con voce ancora più bassa di prima: “Lei non conosce il comandante: non si rende conto, scusi la franchezza, di quanto lei può, in confronto a lui e a noi: la sua influenza, mi creda, supera ogni possibile valutazione. Fui beato nel sentire che lei solo avrebbe assistito all’esecuzione. Quest’ordine del comandante avrebbe dovuto danneggiarmi, io invece lo volgo a mio favore. Senza essere turbato da insinuazioni e da occhiate di disprezzo, inevitabile se un pubblico numeroso fosse stato presente, lei ha ascoltato le mie spiegazioni, ha visto l’apparecchio e si prepara ora ad assistere all’esecuzione. Il suo giudizio si è di certo già formato: dovesse nascere ancora qualche incertezza, lo spettacolo dell’esecuzione la farà scomparire.

    Arrivati a questo punto, le chiedo: mi appoggi nei confronti del comandante!” L’esploratore non lo fece continuare. “E come potrei?” gridò. “É impossibile. Non posso né aiutarla né recarle danno”.

     

    “Lei può”, disse l’ufficiale. Con qualche apprensione, l’esploratore si accorse che l’ufficiale stringeva i pugni. “Lei lo può”, ripeté l’ufficiale con veemenza ancora maggiore. “Io ho un piano che deve riuscire. Lei crede che la sua influenza non basti: io so che basta. Ma ammettiamo che lei abbia ragione: non bisogna tentare di tutto, anche, faccio per dire, l’inutile, per cercare di salvare la procedura? Ascolti, ora, il mio piano. Per la sua attuazione è indispensabile che lei oggi, nella colonia, eviti di pronunciarsi sulla procedura. Se nessuno le chiede nulla, non si lasci scappare parola. In ogni modo, le sue dichiarazioni siano brevi e vaghe, dia l’impressione che le riesce difficile parlare della cosa, che è amareggiato, che, se dovesse parlare, dovrebbe uscire in imprecazioni. Io non le chiedo di mentire, nemmeno per idea. Basta che lei risponda con poche parole, per esempio: ‘Sì, ho visto l’esecuzione’ oppure ‘Sì, ho ascoltato tutte le spiegazioni’. Solo questo, niente di più. Questo può spiegare, anche se non nel senso auspicato dal comandante, il suo aspetto contrariato. Il comandante, naturalmente, capirà a rovescio e interpreterà quanto lei ha detto a modo suo. Su questo equivoco si fonda il mio piano. Domani, sotto la presidenza del comandante, ci sarà nella sede del comando una grande riunione di tutti gli altri funzionari. Il comandante ha provveduto, naturalmente, a trasformare queste riunioni in uno spettacolo. È stata costruita una galleria, che è sempre piena di spettatori. Io non posso fare a meno di prendere parte al consiglio, ma tremo per il disgusto. Lei sarà certo invitato alla seduta. Se oggi si comporta secondo il mio piano, l’invito sarà fatto in forma di insistente preghiera. Se invece, per qualche motivo, non fosse invitato, chieda l’invito, lo otterrà sicuramente.

    Domani, dunque, lei siede in mezzo alle signore nel palco del comandante. Quello alza gli occhi di continuo, per accertarsi della sua presenza.

     –

    Dopo la discussione di diversi argomenti, indifferenti e ridicoli, calcolati per il pubblico quasi sempre si tratta di opere portuali! – si passa a trattare la procedura giuridica. Se il comandante non proponesse l’argomento o tardasse a farlo, ci penserò io. Mi alzerò e farò il mio rapporto sull’esecuzione di oggi. Poche parole, l’annuncio puro e semplice. Non è quella la sede per rapporti del genere, ma non importa. Il comandante mi ringrazierà, come sempre, con un sorriso cordiale, poi, incapace di trattenersi, approfitterà della buona occasione. ‘Abbiamo appena ascoltato’, dirà pressa poco, ‘il rapporto sull’ esecuzione. Da parte mia vorrei aggiungere che l’illustre esploratore, a loro tutti noto per l’onore eccezionale reso con la sua visita a questa colonia, ha assistito all’esecuzione; l’odierna riunione, aggiungo, acquista un significato particolare grazie alla sua presenza. Non vogliamo chiedere al grande esploratore cosa pensa dell’esecuzione tradizionale e della procedura relativa?’ Naturalmente, grandi applausi, il consenso è generale, io faccio più chiasso di tutti. Il comandante si inchina davanti a lei, e dice: ‘In questo caso, le porgo il quesito a nome di tutti’. Lei, allora, si affaccia al parapetto. Vi appoggi sopra le mani, che siano visibili, altrimenti le signore gliele prenderanno e giocheranno con le dita. A questo punto, ha la parola. Non so come farò a resistere per tante ore. Nel suo discorso non abbia riguardo di nulla, urli la verità, si sporga infuori, gridi, ma sì, gridi la sua opinione, la sua incrollabile opinione in faccia al comandante! Forse non è d’accordo, questi modi non convengono al suo carattere, nel suo Paese, in circostanze simili, ci si comporta diversamente: non importa, andrà bene lo stesso, rimanga pure a sedere, dica solo qualche parola, la mormori appena, basta che arrivi all’orecchio dei funzionari. Lasci andare la mancanza di pubblico, la ruota che stride, la cinghia strappata, il feltro schifoso, a questo penserò io; mi creda, se il mio discorso non farà scappare il comandante dalla sala, lo costringerà a inginocchiarsi e a balbettare:

    “Vecchio comandante, mi inchino davanti a te. Questo è il mio piano: vuole aiutarmi ad attuarlo? Ma certo che lei vuole, lei deve, anzi”.

    L’ufficiale prese l’esploratore per le braccia e lo fissò negli occhi, ansimando. Aveva pronunciato le ultime frasi a voce così alta da richiamare l’attenzione del condannato e del soldato: quelli, anche se non potevano capire niente, smisero di mangiare e guardarono, masticando, l’esploratore.

    L’esploratore non aveva mai dubitato sulla risposta da dare.

    Sapeva troppo bene il fatto suo per avere dubbi, in quella situazione: era una persona leale e coraggiosa. Esitò un istante, alla vista del soldato e del condannato; poi, com’era suo dovere disse: “No”. L’ufficiale batté più volte, rapidamente, le palpebre, continuando a fissarlo. “Desidera una spiegazione?” chiese l’esploratore. L’ufficiale annuì, in silenzio.

    “Sono un avversario di questa procedura”, disse il viaggiatore. “Prima ancora che lei mi provasse la sua fiducia, fiducia di cui non abuserò in nessun caso, mi ero chiesto se avevo diritto di intervenire contro questa procedura, e se il mio intervento aveva una probabilità, sia pur minima, di successo. Non avevo dubbi sulla persona alla quale dovevo prima rivolgermi: era il comandante, naturalmente. Lei mi ha solo confermato nel mio convincimento, ma, ripeto, ero deciso in precedenza: l’onestà delle sue idee mi tocca, anche se non può distogliermi dal mio proposito”.

     

    L’ufficiale non disse una parola, si volse verso l’apparecchio, afferrò una delle sbarre di ottone e, chinandosi indietro, cominciò a guardare il disegnatore, quasi volesse verificare se tutto era in ordine. Il soldato e il condannato sembravano aver fatto amicizia; il condannato fece dei cenni al soldato, divincolandosi sul letto, il soldato si chinò verso di lui e accolse con un cenno di assenso alcune parole che quello gli mormorò.

     

    L’esploratore si avvicinò all’ufficiale, e disse: “Lei non sa cosa farò. Dirò al comandante il mio pensiero sulla procedura, non in una riunione, ma a quattr’occhi. Tra l’altro, non ho tempo di assistere a sedute: partirò o almeno mi imbarcherò domani mattina”.

    L’ufficiale non sembrò aver sentito. “Dunque la procedura non l’ha convinto”, disse tra sé con un sorriso, come un vecchio sorride alle sciocchezze di un bambino, pur continuando, dietro il suo sorriso, a seguire i suoi pensieri.

    “Via, è l’ora”, disse poi, fissando all’improvviso il viaggiatore con uno sguardo limpido, che sembrava contenere un nascosto appello.

     

    “Ora di che?” chiese inquieto l’esploratore; ma non ebbe risposta. “Sei libero”, disse l’ufficiale al condannato, parlandogli nella sua lingua. Questi, sulle prime, non ci credette. “Andiamo, ti ho detto che sei libero!” disse l’ufficiale. Per la prima volta, sul viso del condannato apparve un’espressione di autentica vita. Era proprio vero? O era un capriccio momentaneo dell’ufficiale? Il viaggiatore straniero gli aveva ottenuto la grazia?

    Cos’era successo? Sul suo viso passarono tutte queste domande: ma non durò a lungo. Qualunque cosa fosse, visto che poteva, voleva essere libero. Cominciò a dimenarsi, per quanto glielo consentiva l’erpice.

     

    “Mi strappi le cinghie!” gridò l’ufficiale. “Sta’ buono! Ora ti sleghiamo”. Fatto un cenno al soldato, si mise al lavoro. Il condannato, senza dire una parola, rideva piano tra sé, girando ora il viso a sinistra verso l’ufficiale, ora a destra verso il soldato, senza dimenticare l’esploratore.

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    “Tiralo fuori!” ordinò l’ufficiale al soldato. L’operazione era delicata, a causa dell’erpice; per l’impazienza, il condannato si era già graffiato le spalle.

     

    Da questo momento, l’ufficiale non si curò più di lui. Si avvicinò all’esploratore, tirò fuori la piccola busta di pelle, vi frugò dentro, trovò il foglio che cercava e lo mostrò all’esploratore.

     

    “Legga”, disse. “Non ci riesco”, disse l’esploratore. “Ho già detto che non posso leggere questi fogli”. “Osservi il foglio con attenzione”, disse l’ufficiale stringendosi all’esploratore, per leggere insieme con lui. Quando ebbe visto che neppure questo serviva, con il mignolo cominciò a disegnare delle lettere sopra il foglio, come se non potesse neppure sfiorarlo, per facilitare la lettura. Il viaggiatore fece del suo meglio per compiacere, almeno in questo, l’ufficiale, ma non riuscì a niente. Allora l’ufficiale cominciò a sillabare l’iscrizione, poi la rilesse tutta. “‘Sii giusto!’, c’è scritto”, disse. “Ora potrà leggerlo”.

     

    Il viaggiatore si chinò tanto che l’ufficiale, temendo gli toccasse la carta, gliel’allontanò; non diceva niente, ma era evidente che non riusciva a leggere. “‘Sii giusto!’, c’è scritto”, ripeté l’ufficiale. “Può darsi”, disse il viaggiatore, “lo credo”.

    “Bene”, disse l’ufficiale, in parte almeno soddisfatto. Con il foglio in mano salì sulla scala, stese il foglio, con grandi precauzioni, nell’incisore, e sembrò cambiare completamente la disposizione del meccanismo. Era un lavoro faticoso, gli ingranaggi dovevano essere estremamente piccoli, se la testa dell’ufficiale a volte, durante il lavoro, spariva dentro il cofano.

     

    L’esploratore, dal basso, seguiva ogni fase del lavoro: alla fine il collo si irrigidì e gli occhi, sotto il cielo saturo di luce, cominciarono a fargli male. Il soldato e il condannato si occupavano dei fatti loro. Con la punta della baionetta il soldato aveva estratto dalla fossa la camicia e i calzoni del condannato.

     

    La camicia era sporca da far paura, e il condannato la lavò nel mastello. Quando ebbe indossato la camicia e i calzoni, sia lui, sia il soldato dovettero ridere, perché gli indumenti erano spaccati, dietro, da cima a fondo. Il condannato, che forse si sentiva in obbligo di divertire il soldato, girava su se stesso, mentre il compagno, accovacciato, rideva, dandosi colpi sulle ginocchia. Se non eccedevano, era per riguardo ai due signori.

     

    Quando l’ufficiale, in alto, ebbe finito, guardò ancora una volta, con un sorriso, il meccanismo, poi abbassò il coperchio fino a quel momento rimasto aperto, scese a terra, guardò nella fossa e poi verso il condannato, sembrò contento che quello avesse recuperato i suoi abiti, si accostò al mastello per lavarsi le mani e si accorse, troppo tardi, dell’acqua sudicia, si rattristò perché non poteva lavarsi, infine, sebbene non fosse la stessa cosa, cacciò le mani nella sabbia, doveva adattarsi, poi si mise in piedi e incominciò a sbottonarsi la giubba. Gli capitarono tra le mani i due fazzoletti da donna che aveva introdotto tra nuca e colletto. “Ecco i tuoi fazzoletti”, disse, gettandoli al condannato. E rivolto all’esploratore, come per spiegare: “Omaggio delle signore”.

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    Nonostante la fretta con cui si tolse la giubba e poi si spogliò completamente, trattò ogni capo con grande attenzione, a un certo punto lisciò gli alamari d’argento e fece andare a posto, con una scossa, una nappina. Ma quando un indumento era ripiegato, con mossa sdegnosa lo gettava, nonostante tante precauzioni, nella fossa. Infine gli rimase solo la corta sciabola, con le sue cinghie. La sguainò, la spezzò, raccolse i due monconi, il fodero, le cinghie e scagliò via ogni cosa con tanta violenza, che si sentì il tintinnio in fondo alla fossa.

     

    Ora era nudo. Il viaggiatore si morse le labbra, e non disse nulla. Sapeva quello che sarebbe accaduto, ma non aveva il diritto di fermare in nessun modo l’ufficiale. Se la procedura penale di cui l’ufficiale era davvero sul punto di essere revocata, forse per l’intervento che il viaggiatore sentiva il dovere di compiere, la condotta dell’ufficiale era perfetta: il viaggiatore, al suo posto, non si sarebbe comportato diversamente.

    Soldato e condannato, sulle prime, non capirono nulla, non badarono, anzi, neppure a quello che succedeva. Il condannato era stato felice di avere riavuto i fazzoletti, ma la sua gioia non fu lunga, perché il soldato glieli tolse con una mossa rapida e imprevista. Ora cercava di sfilarglieli di sotto il cinturone, ma l’altro teneva gli occhi aperti. Litigavano dunque, un po’ per scherzo, un po’ sul serio, e si scossero solo quando l’ufficiale fu completamente nudo. Il condannato, in particolare, sembrò presentire un grande, repentino cambiamento. Quello che era capitato a lui, accadeva all’ufficiale. Forse le cose sarebbero arrivate fino in fondo. Forse l’ordine era partito dal viaggiatore straniero. Si trattava, dunque, di una vendetta. Sarebbe stato vendicato fino in fondo. Sul suo viso apparve, per non scomparire più, un largo, silenzioso sorriso.

     

    L’ufficiale si era rivolto all’apparecchio. Se anche era evidente la pratica che ne aveva, ora c’era da sbalordire, nel vedere come lo trattava e come quello obbediva. Appena accostata la mano all’erpice, questo prese ad alzarsi e ad abbassarsi, fino a prendere la posizione giusta per riceverlo. Toccò appena l’orlo del letto e quello cominciò a vibrare; il tampone di feltro mosse verso la sua bocca, l’ufficiale sembrò esitare un attimo a prenderlo, ma poi lo imboccò. Tutto fu pronto: le cinghie pendevano dalle parti, ma erano inutili, l’ufficiale non aveva bisogno di essere legato. Il condannato, viste le cinghie sciolte dovette pensare che l’esecuzione non era perfetta se non venivano fissate, accennò vivacemente al soldato, e tutti e due corsero a legare l’ufficiale. Questi aveva allungato un piede per urtare il volante che doveva mettere in movimento il disegnatore; nel vedere sopraggiungere i due, lo ritirò e si lasciò legare. Ma così non poteva più raggiungere il volante: il soldato e il condannato non l’avrebbero trovato, e il viaggiatore, da parte sua, era deciso a non muoversi. Non importa: appena le cinghie furono fissate, l’apparecchio cominciò a lavorare, gli aghi danzarono sulla pelle, l’erpice si alzò e si abbassò. Il viaggiatore stava guardando da un pezzo, quando si ricordò che una ruota del disegnatore avrebbe dovuto stridere: ma il silenzio era perfetto, non si sentiva il minimo fruscio.

     

    Con il suo silenzioso lavoro l’apparecchio si sottraeva, letteralmente, all’attenzione. Il viaggiatore guardò il soldato e il condannato. Dei due, il più vicino era l’ultimo. Tutto lo interessava, nella macchina: si chinava, si allungava, aveva sempre qualcosa da indicare al soldato. Il viaggiatore si seccò.

    Era deciso a rimanere fino alla fine, ma non poteva più sopportare la vista di quei due. “Tornate a casa”, disse. Il soldato, forse, sarebbe stato d’accordo, ma il condannato prese l’ordine come una punizione. Supplicò, a mani giunte, di rimanere, e quando l’esploratore, scuotendo la testa, non mostrò di cedere, arrivò a inginocchiarsi. L’esploratore capì che gli ordini non servivano, e si accingeva a passare dall’altra parte per allontanare i due, quando sentì in alto, nel disegnatore, un rumore. Alzò la testa: dunque la ruota non si era quietata? Non era la ruota. Il coperchio del disegnatore si sollevò adagio, si spalancò. Emersero i denti di una ruota, divennero visibili, apparve la ruota intera, come se una possente forza comprimesse il disegnatore e per quel pezzo non ci fosse più posto, la ruota rotolò sull’orlo del disegnatore, precipitò, rotolò per un pezzo sulla sabbia, si fermò rovesciandosi. Su in alto ne emerse un’altra, seguita da grandi, piccole, addirittura invisibili – e si ripeté la stessa cosa.

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    Quando si pensava che il disegnatore, ormai, dovesse essere vuoto, appariva un nuovo, complesso ingranaggio, saliva, ricadeva, rotolava sulla sabbia, giaceva immobile. In seguito a questo incidente, il condannato dimenticò l’ordine del viaggiatore: le ruote dentate lo affascinavano, avrebbe voluto prenderne una, incitava il soldato ad aiutarlo, ma ritirava impaurito la mano quando appariva una seconda ruota.

    Il viaggiatore era molto inquieto: l’apparecchio si stava sfasciando, il suo tranquillo movimento era solo un’apparenza. Gli sembrò suo dovere occuparsi dell’ufficiale, poiché questi non era più in grado di provvedere a se stesso. Tutto preso dalla caduta delle ruote, aveva trascurato il resto dell’apparecchio. Quando l’ultima ruota ebbe abbandonato il disegnatore, nel curvarsi sopra l’erpice provò una nuova e peggiore sorpresa: l’erpice non scriveva, incideva, il letto non faceva rotolare il corpo, ma lo sollevava, vibrando, contro gli aghi. L’esploratore volle intervenire, per cercare di fermare l’apparecchio: quello non era un supplizio come lo intendeva l’ufficiale, era un assassinio.

     

    Allungò le mani… E l’erpice si alzò di fianco, con il corpo trafitto, come faceva soltanto nella dodicesima ora. Il sangue scorreva attraverso un’infinità di rivoli, e era sangue puro, perché le piccole condutture dell’acqua non funzionavano. Ma il movimento conclusivo non riuscì, il corpo non si staccò dai lunghi aghi; il sangue continuava a fluire, e quello rimaneva sospeso nella fossa, senza cadere. L’erpice sembrò voler tornare nella sua posizione normale, poi, quasi sentisse di non essere ancora liberato del suo carico, rimase sopra la fossa. “Aiutatemi!” gridò l’esploratore al soldato e al condannato, mentre afferrava i piedi dell’ufficiale. Egli avrebbe tenuto fermi i piedi, gli altri avrebbero afferrato la testa, fino a liberare il corpo dagli aghi.

    Ma i due rifiutarono di avvicinarsi, il condannato girò addirittura le spalle. Il viaggiatore li dovette spingere a forza verso la testa dell’ufficiale; di cui poté, quindi, vedere il viso. Era rimasto com’era in vita, non mostrava neppure un segno della redenzione promessa. Non aveva trovato nell’apparecchio quello che avevano trovato tutti: le labbra erano serrate, glio cchi aperti sembravano vivi, e esprimevano una tranquilla persuasione, sulla fronte c’era il foro del gran puntale di ferro.

     

    Quando il viaggiatore, seguito dal soldato e dal condannato, arrivò alle prime case della colonia, il soldato ne indicò una e disse: “Ecco il caffè”.

    Un locale profondo e basso come una caverna, con le pareti e il soffitto anneriti dal fumo, si apriva sulla strada per tutta la larghezza della casa. Sebbene questa si distinguesse poco dalle altre della colonia -tutte, tranne il palazzo del comando, assai malridotte – il viaggiatore, di fronte a essa, sentì come l’impressione di un ricordo storico, sentì la presenza del passato. Si avvicinò, seguito dai due passò tra i tavoli posti sulla strada, respirò l’aria fresca e intanfita che veniva dall’interno. “Il vecchio è sepolto qui”, disse il soldato, “il prete gli ha negato un posto al cimitero. Rimasero un pezzo indecisi su dove seppellirlo, infine lo seppellirono qui.

    L’ufficiale le ha taciuto questo, perché se ne doveva vergognare a morte. Fece persino dei tentativi per disseppellire, di notte, il vecchio, ma fu sempre respinto”. “Dov’è la tomba?” chiese il viaggiatore, che non poteva credere al soldato. Il soldato e il condannato si allontanarono correndo, e indicarono il punto in cui doveva trovarsi la tomba. Portarono l’esploratore fino alla parete di fondo, dov’erano sedute alcune persone: forse scaricatori diporto, uomini robusti, dalle barbe corte, di un nero brillante.

     

    Erano senza giacca e mostravano le camicie strappate, povera, umile gente. Mentre l’esploratore si avvicinava, alcuni si alzarono e, addossati alla parete, rimasero a fissarlo. “E’ uno straniero”, si sussurrava intorno a lui, “vuole vedere la tomba”.

     –

    Spostarono un tavolo, e sotto comparve davvero una pietra tombale.

    Era una semplice pietra, abbastanza bassa per sparire sotto il tavolo. I caratteri dell’iscrizione erano tanto minuti, che il viaggiatore dovette inginocchiarsi. L’epitaffio diceva: “Qui riposa il vecchio comandante. I suoi seguaci, che non possono ora dichiarare il loro nome, gli hanno scavato questa fossa e dedicato questa lapide. Una profezia dice che il comandante, tra un certo numero di anni, resusciterà, e da questa casa guiderà i suoi seguaci alla conquista della colonia. Abbiate fede e attendete!”

    Quando il viaggiatore si rialzò, vide che gli uomini lo circondavano sorridendo, come se avessero letto con lui l’iscrizione, l’avessero trovata ridicola, e lo invitassero a fare altrettanto. Il viaggiatore diede a vedere di non accorgersi di niente, distribuì alcune monete, aspettò che il tavolo venisse di nuovo posto sopra la tomba, lasciò il caffè e si avviò al porto.

     

    Il soldato e il condannato furono trattenuti nel caffè da alcuni conoscenti. Ma si liberarono in fretta: il viaggiatore era appena a metà della lunga scala che lo portava alla barca, che quelli già lo rincorrevano. Forse volevano costringerlo, all’ultimo momento, a prenderli con sé. Mentre il viaggiatore, in basso, discuteva con un barcaiolo il prezzo del passaggio fino al piroscafo, i due si precipitarono in silenzio per la scala. Ma quando furono in fondo, il viaggiatore era già sulla barca, e il barcaiolo stava sciogliendo l’ormeggio. Quelli avrebbero ancora potuto saltare nella barca, ma il viaggiatore alzò una pesante gomena piena di nodi e, minacciandoli, li fece desistere.

     

    F  i  n  e

     

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