• Frankenstein, un mito millenario

      0 commenti

    di Gian Carlo Zanon

    Poche settimane erano trascorse da quando il primo superuomo dotato di “tanto spiro” – che pochi anni prima aveva osato esiliare le anime immortali al di là delle mura cittadine – era stato sbaragliato per l’ultima volta a Waterloo. In qui giorni fatali l’illuminismo, padre putativo della Rivoluzione francese, veniva demonizzato dai revenant della Restaurazione dando modo al Romanticismo di liberare i propri fantasmi da troppo tempo imprigionati nelle segrete della dea ragione. In quei frangenti storici, soprattutto nel Nord Europa, cominciarono a fiorire i primi racconti fantastici. Il Racconto Der Sandmann, (L’uomo della sabbia), di E.T.A. Hoffmann – in cui la bellissima Olimpia si rivelerà essere un automa meccanico – apparve nel 1815, proprio all’inizio della Restaurazione monarchica.

    Tra il 1816 e il 1817 Mary Wollstonecraft Shelley scrive la prima versione, mai pubblicata, del romanzo gotico Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno. La seconda versione verrà stampata nel 1818; la terza nel 1831.

    Mary Wollstonecraft Shelley scrisse questo romanzo epistolare pochi mesi dopo Waterloo, e viene da pensare che forse la Creatura potrebbe rappresentare la Rivoluzione francese, nata da istanze di libertà e uguaglianza e delusa sia dal Terrore giacobino che dalla paranoia di Napoleone. Una Creatura nata buona dalle mani e dalle idee di uno scienziato illuminista, che poi finisce per diventare un strumento di desolazione e morte, come accadde alla Rivoluzione francese che, con Robespierre, si trasforma nel Regime del Terrore.

    Il nesso è quasi d’obbligo visto che la madre della Shelley, morta di setticemia poco dopo la nascita della scrittrice, visse in prima persona i giorni più terribili della Rivoluzione francese da cui dovette fuggire per salvarsi la vita.

    Intrigante il racconto che la Creatura senza nome farà in seguito al suo creatore sui suoi primi mesi di vita vissuti in uno sgabuzzino/marsupio dove, osservando gli umili abitanti di una casa di contadini, egli apprende la lingua degli esseri umani e anche a leggere libri «che lo rendevano infelice» perché, attraverso quei racconti, la Creatura si rendeva conto della propria mostruosità fisica.

    Diversa è l’interpretazione del regista Tim Burton: nel suo film Edward mani di forbice, che è una libera trasposizione cinematografica del romanzo della Shelley, Burton crea un personaggio il quale, nonostante la sua ‘mostruosità’ fisica e la cattiveria sociale che si scatena contro di lui, manterrà saldo il suo amore per gli esseri umani.

    Nel suo romanzo Mary Schelley afferma la nascita non perversa degli esseri umani i quali però si possono ammalare ed impazzire se vengono deluse le loro speranze di un rapporto umano valido con l’altro da sé. Rapporto valido di realizzazione di sé con l’altro da sé che alla Creatura viene impedito dal suo stesso creatore che distrugge un essere di genere femminile, creato appositamente per la sua Creatura, poco prima di darle la vita. E così, come le Erinni inseguono Oreste il matricida «Così la creatura di Frankenstein non dà tregua al suo creatore. Morto il creatore, muore anche la creatura, sua parte e sua proiezione. Frankenstein fabbricando il mostro fa il primo passo verso Hyde: «Immaginai l’essere che avevo gettato tra gli uomini… come il mio vampiro, il mio spettro uscito dalla tomba e destinato a distruggere tutto ciò che mi era più caro» dice infatti il Barone. E la saggezza popolare compensa il lapsus di Mary Shelley – che dimenticò di dare un nome al mostro – battezzando anche questo Frankenstein». (Ornella Volta)

    L’alienazione religiosa che tutto crea e tutto distrugge, si riflette anche nella creatura che ha saputo creare il proprio creatore, ovvero nell’homos religiosus che crea il suo dio a propria immagine e somiglianza. Una Creatura che, ammalatasi, può divenire onnipotente e delirante. Una Creatura a cui basta un’arma per sentirsi padrone della vita altrui, come accade al protagonista del film Joker del regista Todd Phillips il quale, come il mostro di Frankenstein, interpreta il suo primo delitto come una manifestazione delle sue possibilità creative: «Anch’io dunque posso creare qualcosa: la desolazione».

    E così mentre la narrazione fantastica, seguendo i leitmotiv letterari e le “arie dei tempi”, si dirama in altri filoni letterari – come il romanzo moderno, la fantascienza, il romanzo distopico e il realismo magico – Olimpia, l’automa hoffmanniana di Der Sandmann, compie un balzo di 150anni e si trasforma in Rachael Rosen l’androide di Blade Runner, – nata dalla penna di Philip K. Dick (Do Androids Dream of Electric Sheep), mentre Terminator e i suoi colleghi meccanici, ancor oggi, prendono linfa da questo topos millenario.

    Le idee che portarono all’ideazione dell’Olimpia hoffmanniana e della Creatura del dottor Frankenstein, animata da un lampo, attingono a pensieri antichi. Nel mito di Pigmalione, narrato ne Le Metamorfosi di Ovidio, il protagonista «(…) indignato dai difetti di cui/ la natura aveva abbondantemente dotato la donna, (…) scolpì in candido avorio una figura femminile di bellezza/ superiore a quella di qualsiasi donna vivente e/ si innamorò della sua opera.» Pigmalione l’amò a tal punto che la statua prese vita.

    «Dalla statua amata da Pigmalione alla pompeiana Gradiva di Jensen, dagli idoli carnefici fenici e aztechi e certe nefaste bambole magiche, dalla Venere d’Ille gelosa e omicida di Merimée a tutte le madonne di cera che la tradizione cattolica fa muovere in determinate occasioni all’improvviso, molti sono stati i simulacri che hanno trovato il modo di manifestare la prima o poi una inaspettata vitalità. Raramente essi agiscono di loro iniziativa come la statua del Commendatore nel Don Giovanni; più spesso sono lo strumento della volontà di uno stregone.(…) Ma il caso più impressionante di statua che si animi fino ad agire al di là delle intenzioni del suo autore (…) è senza dubbio quello rappresentato dal Golem».

    Il Golem, nella cultura ebraica è uno zombi ante litteram, che prende vita qualora venga pronunciata una determinata formula alfabetica. Gli si dà vita per essere usato come un automa. Anche nelle proto narrazioni sullo zombi, il non morto viene fatto rivivere per essere usato come schiavo. La parola zombi appare per la prima volta in letteratura nel 1684 nel racconto esotico di Paul-Alexis Blessebois, Le Zombi du Grand-Pérou ou la Comtesse de Cocagne. In quel racconto il termine viene usato per definire un’esistenza immateriale, un’anima uscita da un corpo.

    Sembra che il nominativo tragga origine da una contrazione creola dal francese “les hombres” le ombre. Il vocabolo zombi, o nella grafia inglese zombie, oppure in creolo zonbi, è quindi, originariamente haitiano. Ad Haiti, nella ritualità vudù, la parola zonbi indica un corpo senz’anima o un’anima senza corpo ed è legata alla tradizione magica praticata in loco e nelle isole limitrofe dove i nativi Arawaks, sterminati dagli spagnoli, furono sostituiti da schiavi senegalesi che portarono con loro queste narrazioni sulla rianimazione dei morti. Narrazioni che si fusero sincreticamente alle favole sulla resurrezione appartenenti alla religione salvifica cristiana dei loro padroni: anche il Lazzaro evangelico di fatto potrebbe essere classificato come zombies ma anche come Golem visto che rivive grazie alla formula magica del Redentore. Come ben sappiamo i morti viventi, migrarono in seguito nella settima arte assumendo il ruolo di protagonisti nel celeberrimo film di Romero, La notte dei morti viventi. Qualche anno fa gli zombi si son rifatti il trucco per la fiction televisiva francese creata da Fabrice Gobert, Les Revenants, che ha ottenuto un enorme successo di pubblico. Ma prima della metamorfosi cinematografica gli zombies si aggirarono nel breve racconto Gli zombi ovvero i morti che lavorano del giornalista americano William A. Seabrook, estratto da The magic Island (1929). In questo racconto Seabrook definì le caratteristiche essenziali dello zombie: «Lo zombi non ha alcuna personalità, è solo un braccio guidato da una mente che gli è estranea: la produzione degli zombi in genere è di serie.» Questa breve trattazione fa parte della prefazione di Ornella Volta dedicata al capitolo Lo zombi, inserita nel volume Frankenstein & Company. Nel film di Romero però lo zombie non è più un Lazzaro miracolato o un morto resuscitato allo scopo di essere sfruttato come schiavo. Lo zombie cinematografico di Romero non risponde neppure al magico comando del capobastone o del caporale di turno.

    Lo status di morto-vivente nel film di Romero è causato dalle radiazioni emesse da una sonda tornata da Venere. Nel film i morti risorgendo devono coattivamente nutrirsi della carne umana dei vivi che contagiano causando così una reazione a catena.

    Questi cadaveri deambulanti possono essere uccisi solo colpendoli in testa, perché è questa la parte riattivata dal misterioso contagio.

    Cosa che avverrà nel finale di questa pellicola che inquietò una generazione intera di cinefili. Invece lo status di morto-vivente nel celebre videoclip di Michael Jackson, sembrerebbe causato dal ritmo incalzante di Thriller.

    La Creatura del dottor Frankenstein

    Nella raccolta di narrazioni fantastiche Frankenstein & Company, (Sugar Editore, Milano 1965) curata da Ornella Volta, la curatrice fa il nesso tra le varie ‘creature’ letterarie senz’anima a cui un demiurgo dà la vita, dimostrando che esiste un tope fantastico/letterario che lega l’Adamo argilloso, descritto nella bibbia canonica, alla Creatura di Mary Shelley.

    Inquietanti sono anche le risonanze tra il vissuto di Mary Wollstonecraft Shelley e il suo romanzo: pochi mesi prima della stesura dell’opera che la rese famosa, la scrittrice inglese sognò sua figlia, morta prematuramente e ancor prima che le si potesse dare un nome: «Ho sognato che la mia piccola tornasse a vivere, che ella fosse semplicemente diventata fredda e che noi la scaldavamo con il fuoco e che quindi vivesse». Scrisse Mary Shelley ad un’amica.

    Per uno “strano caso del destino”, la stessa cosa avverrà alla Creatura del dottor Frankenstein creata dalla mente dell’autrice: anche la Creatura non avrà un nome, nel romanzo sarà sempre chiamato o mostro o “la Creatura”, nome che sottende una creazione. Il racconto che la Creatura fa del suo venire alla luce, è decisamente geniale perché narra la propria nascita, con tanto di una, ante litteram, “pulsione di annullamento” che gli fa chiudere gli occhi: «…una luce sempre più forte sollecitò i miei nervi fino a costringermi a chiudere gli occhi. Caddi nell’oscurità e questo mi turbò». Proseguendo nel racconto, l’autrice narra la nascita della Creatura: un essere nato buono che, solo in seguito, perché deluso, offeso e ferito dagli esseri umani, diverrà un mostro criminale e maledirà la propria nascita e il proprio creatore.

    «Sono malvagio perché sono infelice», dirà la Creatura al dott. Victor Frankenstein, cioè a colui che gli dona la vita ma che, nel momento stesso della nascita, lo abbandona ‘assentandosi’.

    Basta il respiro prodotto da queste poche righe del romanzo per far cadere il castello di carte dell’intera filosofia occidentale che vuole l’essere umano naturalmente perverso. «Ero buono, avevo l’anima traboccante d’amore e umanità, la miseria ha fatto di me un demone. Sono solo spaventosamente solo. Rendimi felice e sarò di nuovo buono».

    I cosiddetti grandi pensatori che perpetuano il pensiero occidentale, da Agostino di Ippona a Recalcati, non fanno altro che ripetere coattivamente l’antico refrain biblico dell’angelo caduto, esattamente come i miti greci ci parlano della degradazione della specie umana da “uomini d’oro a uomini di ferro”. L’essere umano, secondo queste favole viventi, nasce con un peccato originario impresso nella propria carne e nella propria mente. Questa mancanza di essenza umanità innata se non “curata” dalla religione, se non sottomessa alla ragione, se non integrata dalla cultura patriarcale, non permetterà all’essere umano di raggiungere quell’equilibrio psichico che gli consente una vita sociale. Rinunciare all’identità neonatale, perversa e demoniaca in quanto gravata da un peccato originario, è la condicio sine qua non per colmare quel gap identitario che, dicono, è condizione umana.

    Anche il filosofo Umberto Galimberti, ci parla di un neonato con un vuoto innato identitario da colmare «da chi ci sta accanto»: «Nessuno di noi nasce con un’identità – scriveva il filosofo sulla rubrica “Risponde Umberto Galimberti”,  su La Repubblica – D, del 12 settembre 2015 – perché l’identità è frutto del riconoscimento che ci proviene da chi ci sta accanto.» SIC

    Galimberti fa parte del coro di quei credenti, psicanalisti, filosofi ecc. ecc. che parlano della tabula rasa mentale nel neonato che nei primi mesi di vita sarebbe senza identità umana. Galimberti parla senza nominarla di quella mancanza originaria da colmare declinata culturalmente e religiosamente in vari modi: il peccato originale dei monoteismi; il Male radicale innato nella natura umana della filosofia; il legno storto (Kant); il bambino polimorfo perverso (Freud); “Nel più intimo dell’uomo c’è il nulla, come “fondo abissale”, Ab-Grund costitutivo dell’essere” (Heidegger), la “manque à etre” (Lacan)ecc. ecc.. Come ben sappiamo le auctoritas su cui si basa la nostra cultura, fatte le dovute eccezioni, parlano chiaramente di un neonato senza identità umana. Il bambino nascerebbe con la “mancanza originaria”, con il “peccato originale”, con il “Male radicale”, con il “vuoto ontologico”, con l’innata “perversione istintuale” e infine con il “Nulla” ontologico primigenio. Inoltre basta aprire un giornale e, un giorno sì un giorno no, troveremo la nozione di “bestia interiore da tenere a bada con la ragione” declinata in vario modo. Il neonato, da Sant’Agostino al vate del giornalismo Eugenio Scalfari, dalla cultura dominante è concepito come un animale bramoso da ammaestrare con Ragione e Religione.

    E invece Mary Shelley ci dice che l’essere umano nasce buono e, solo se respinto e disprezzato, la speranza che lo anima, e che lo porta naturalmente verso il genere umano con «l’anima traboccante d’amore e umanità»,si trasforma in disperazione e in odio verso chi dopo avergli dato la vita lo abbandona e verso chi non lo riconosce come essere umano.

    Ma Galimberti non è l’artefice di questa ideologia, lui non fa altro che decodificare a suo modo una menzogna millenaria. Viene da sé che a questa “anomalia della specie umana” va posto rimedio cercando di colmare nel bambino mancanze originarie e vuoti ontologici. Il rimedio cattolico è quello di  purificare, almeno parzialmente, il neonato dal Male radicale, alias Satana,  con l’esorcismo battesimale, per poi riempire il suo “nulla originario” ammaestrandolo, indottrinandolo, innestandogli la fede e infine insegnandogli a sublimare, nei modi del dottor Jekyll, i propri istinti naturalmente perversi dovuti a quel famoso “peccato originario” commesso ab origine non da l’ominide Lucy ma dai suoi “veri avi”: Adamo ed Eva.

    «Da Hobbes a Kant, da Hegel a Freud si è sempre affermato che l’individuo, e di conseguenza gli Stati, ricercano soltanto il proprio tornaconto personale per il quale sono disposti a uccidere e ad aggredire. Soltanto la razionalità e un consesso di Nazioni, al massimo, possono tenere a freno le pulsioni violente e animali che, ciclicamente, sono pronte a uscire lungo il corso della storia. Ma l’equilibrio raggiunto sarà sempre precario perché la vera natura degli uomini è la guerra di tutti contro tutti e, qualora essa scoppi, soltanto la paura del più forte potrà tenere a bada gli aggressori.»

    Elisabetta Amalfitano. E dopo il Covid fu la guerra-7 Aprile 2022

    Questo testo è stato in parte estratto dall’ottavo capitolo del mio saggio Demone Divino, racconti, miti, leggende e pensieri sulla realtà umana , di recente pubblicazione.

    Scrivi un commento