• Eroi e martiri : usi e abusi dei due termini

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    Romualdo Formosa, 1765: the torturer applying pincers (Basilica di San Sebastiano, Melilli (Sicily), Italy)

    vacanze 017 - Copia

    di Gian Carlo Zanon

    Ho letto anch’io la profezia (1), rivelatasi completamente falsa, di Vito Mancuso, pubblicata su Repubblica del 9 settembre, con la quale il teologo tentava in tutti i modi di preparare per le tre donne, uccise barbaramente da un malato di mente in Burundi, la strada per la santità. Mancuso, parlava del loro “martirio esistenziale”, concetto di nuovo conio mancusiano: «Nel caso del martirio esistenziale – scriveva Mancuso – si è (…) uccisi proprio a causa della testimonianza personale, nel senso che la peculiarità dell’azione condotta è tale da generare una reazione violenta in chi ha altri ideali e percepisce l’azione del testimone, e prima ancora la sua stessa presenza, come una pericolosa minaccia: è stato il caso del primo martire cristiano, santo Stefano, di Ipazia di Alessandria (filosofa pagana uccisa da monaci cristiani), prima ancora è stato il caso di Socrate e di Gesù, e ai nostri giorni il caso di don Santoro e monsignor Padovese in Turchia e di molti altri missionari nel mondo, nonché il caso di don Diana e di don Puglisi a casa nostra.»

    Penso che Mancuso, che fa di professione il teologo, non usi nel modo corretto la parola “martire” , e questo gli permette arbitrariamente di unire la filosofa alessandrina Ipazia, fatta a pezzi dai monaci parabolani istigati dal vescovo Cirillo in seguito santificato come molti altri boia dalla chiesa di Roma, al protomartire Santo Stefano lapidato dagli Ebrei del Sinedrio nel 36 d.C. a Gerusalemme con piena soddisfazione di un certo Saulo – poi assurto agli allori della cronaca con il nome di San Paolo di Tarso – presente al linciaggio.

    Penso che si debba fare chiarezza.

    Il martire, al contrario dell’eroe, è per definizione un individuo che rinuncia a se stesso e vede nel martirio e quindi nella morte, la realizzazione della propria esistenza. La morte per il martire è l’inizio della vita e la vita è la morte dell’anima che deve essere liberata dal corpo… pare chi impicci.
    Martire, secondo i creatori dei miti del martirio, è chi, messo di fronte alla scelta tra la morte e la rinuncia alla propria religione, che prevede il rifiuto di altre religioni, soprattutto il culto dell’imperatore, decide per la morte. Il Vescovo Eusebio, autore della Historia ecclesiastica scritta nella metà del IV secolo, fu uno dei creatori della leggenda dei martiri cristiani. Egli scriveva che i martiri mandati al supplizio erano ben contenti di offrire la vita al loro dio «Gioivano e intonavano canti di lode e di ringraziamento fino all’ultimo istante della loro vita.»

    Naturalmente non credo neppure ad un parola di questo squinternato, ma è interessante leggere le sue invenzioni perché disegnano il significato univoco di martire e di martirio dal quale non dovrebbe prescindere neppure il buon Mancuso il teologo. I martiri, per la fiction cattolica, erano esseri soprannaturali sempre coadiuvati dall’assistenza divina che in cambio voleva “solamente” che essi fossero sbranati dagli animali per amor suo: «Ho assistito personalmente – scriveva il vescovo delirante – a simili spettacoli, ed ho visto come la forza divina del nostro Salvatore Gesù Cristo si è manifestata … quando, infatti, le bestie prendevano lo slancio, pronte a divorare le loro vittime, sempre alla fine, se ne tornavano indietro come respinte da una forza divina.» Come dire che la santità rende indigesti!!!

    Insomma la favola del martirio e dei martiri è la solita agiografia scritta dal solito furbacchione o da una persona che soffriva di allucinazioni. La verità sulle persecuzioni dei cristiani è ben diversa dal mito cristiano. È diversa sia nei numeri, gli storici seri calcolano un massimo di circa 3000 persone, sia nella realtà storica di cui, di ognuno di questi individui martirizzati, si sa ben poco. Quindi anche la figura del martire è storicamente poco definibile. La sua caratteristica principale però, secondo quanto scritto nelle agiografie, è la rinuncia alla propria vita per non rinnegare il proprio credo religioso, e la loro certezza che dopo la morte sarebbero stati ricompensati dalla divinità a cui avevano dedicato il proprio sacrificio finale.

    Interessante anche quanto scrive un addetto ai lavori, don Pierpaolo Caspani: «Con la fine delle persecuzioni, alcuni cristiani si pongono una domanda: “Come vivere il martirio dove non ci sono più persecuzioni? Come accogliere l’invito di Gesù a seguirlo portando la propria croce, adesso che non c’è più l’occasione di spargere il proprio sangue per Lui?”. La nascita (o lo sviluppo) del monachesimo sono proprio il tentativo di dare risposta a questa domanda. La pazienza, la costanza e l’energia con cui i monaci perseverano nella loro scelta di vita fanno di loro dei “martiri viventi”. Il martire, quindi, è e resterà nella Chiesa il santo per eccellenza. Il monachesimo e le altre forme di santità sono, in fondo, modi per vivere il martirio, dove non c’è più la persecuzione.» Il ragionamento del don Caspani non fa una piega!

     

    3Paolo Miki e compagni

    Mi sembra di aver chiarito il significato di martire: il martiri è colui che immola la propria esistenza, rinunciando a se stesso, per “accogliere l’invito di Gesù a seguirlo portando la propria croce”. Grossolanamente penso di potere definire il martire come uno squilibrato che ha alienato completamente se stesso in un credo religioso. È quello che si fa saltare per aria massacrando persone, colpevoli solo di essere lì in quel momento, per la gloria di Allāh, e per scoparsi 12 vergini nel paradiso che lo attende.

    Partendo da questi assunti, se fosse realmente vissuto Gesù, nella fiction cristologica, avrebbe avuto il ruolo di martire, visto che rinuncia alla propria vita per ciò che anch’egli paranoicamente crede: essere, come Diòniso, il figlio di dio.

    Partendo sempre da questi assunti, martire si può definire quel Francesco d’Assisi che rinuncia a tutto, compreso alla sessualità , si buca mani e piedi e va a parlare col nipote di Saladino allo scopo di potergli predicare il vangelo, al fine di convertire il sultano e i suoi soldati, e quindi mettere fine alle ostilità della quinta crociata voluta da Innocenzo III il suo protettore. Demenza precoce?. Delirio paranoide? Non si sa!


    Quelle tre povere donne assassinate in Burundi invece certamente non erano lì perché volevano essere rese martiri né dal pazzo che le ha massacrate né dal novello vescovo Eusebio Mancuso che le vuole a forza incuneare nella categoria del martirologio; quindi non sono da considerarsi martiri.

    Tanto meno si possono definire martiri Ipazia, don Diana e di don Puglisi che non hanno cercato il martirio né hanno fatto ciò che ha determinato il loro assassinio perché anelavano a premi post mortem. Sono stati ammazzati perché, nonostante il contesto sociale a loro sfavorevole, volevano realizzare la propria realtà umana provando, ognuno con i propri mezzi, a dare all’altro da sé la possibilità di realizzare meglio la propria: Ipazia con la sua ricerca scientifica, don Diana e don Puglisi con il loro impegno sociale contro la criminalità organizzata.

    Ma questi, come Falcone, come Borsellino, come Romero, come mille altri che hanno realizzato, finché hanno potuto, la propria realtà umana spostando i confini dell’umano sempre più in alto, sempre più in là, si devono definire eroi e non martiri, perché l’essenza dell’eroe non può prescindere dal momento in cui alla nascita si dice no al disumano e si va verso l’altro che si sa uguale a sé. Al contrario il martire rinunciando a se stesso rinuncia alla propria nascita: preti, frati suore, monaci e papi rinunciano al proprio nome con cui sono stati chiamati fin dai primi istanti di vita.

    Ci sono pochi eroi perché storicamente, nei marosi dei rapporti interumani, pochi salvano la sapienza della nascita che da all’essere umano la spinta a realizzare la propria esistenza nel rapporto con l’altro diverso che alla nascita è uguale a sé.

     

    11 settembre 2014

    ——–

    Note

    (1) Mi riferisco all’articolo di Giulia De Baudi (Leggi qui) in cui si parlava del triplice omicidio in Burundi ad opera di un malato di mente. Nell’articolo l’autrice critica Vito Mancuso per aver definito “martiri” le tre donne assassinate.

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