• Elezioni politiche 2013 – La “Questione morale” della sinistra

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    di Adriano Meis

     

    9 gennaio 2013

     

    C’è un’ombra, ma potrebbe essere fango, sul percorso che la sinistra guidata dal Pd sta facendo per giungere a governare il nostro Paese: “gli impresentabili”.

    Sono quei politici che, seguendo leggi creontiche, sono candidabili ma che hanno avuto dei problemi con la giustizia. C’è stato il caso di Bruna Brembilla, che però ha già fatto un passo indietro perché coinvolta in un’inchiesta sulle infiltrazioni della ’ndrangheta nell’hinterland di Milano. Non è robetta da poco.

     

    Dopo questo caso, risoltosi velocemente,  il Pd ha annunciato che si doterà di un codice anti-impresentabili. E uno come me che voterà per il Pd si chiede “Ma perché non lo avevano previsto prima ‘sto c… di codice?”.

    E così il gotha del Pd si fa soffiare da Grillo Giuseppe detto Beppe (che essendo stato condannato in via definitiva per omicidio colposo plurimo è più che un impresentabile) un’altra occasione di chiarezza e pulizia.

     

    Certamente Grillo, in caduta precipitosa nei pronostici del voto,  non si lascia sfuggire la ghiotta occasione per sputtanare il Pd:  «Bersani – scriveva avantieri nel suo blog – ha detto di non conoscere le persone nelle liste del Pd che hanno problemi con la giustizia. Non se ne occupa. Si fida del comitato dei garanti composto da persone irreprensibili come Caterina Romeo condannata a 1 anno e 4 mesi per violazione alla legge elettorale, (…) Vorrei facilitare l’arduo compito segnalandone alcuni. Vladimiro Crisafulli, Enna, rinviato a giudizio per concorso in abuso d’ufficio, accusato di aver ottenuto la pavimentazione di una strada comunale che porta alla sua villa a spese della Provincia di Enna. Antonino Papania, Trapani, ha patteggiato davanti al gip di Palermo una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio. Giovanni Lolli, L’Aquila, rinviato a giudizio con l’accusa di favoreggiamento, prescritto. Nicodemo Oliverio, Crotone, imputato per bancarotta fraudolenta. Francantonio Genovese, Messina, indagato per abuso d’ufficio. (…) Bersani, fidati!».

     

    Certo non mi fa piacere leggere queste parole e vorrei tanto che non dicessero la verità. Vedremo.

     

    Per il momento c’è solo un annuncio di Luigi Berlinguer che ha ideato un modulo da far sottoscrivere a tutti i candidati «in cui loro stessi – afferma – dichiarino di non trovarsi in una delle condizioni di incandidabilità previste dal codice etico del Pd e dalla recente normativa sulle liste pulite». Quindi, secondo ciò che dice Berlinguer, se un candidato firmasse questa autocertificazione, e un domani saltasse fuori qualche problema  giudiziario, verrebbe meno il rapporto fiduciario con il partito. «Successivamente la segreteria potrà investire la commissione di garanzia per una eventuale verifica sui casi in difetto dei requisiti», conclude Berlinguer. C’è tempo fino al 21 gennaio.

    A me personalmente questo modo di agire non convince per niente. Se la segreteria volesse sapere dei problemi giudiziari seri o meno seri dei propri rappresentanti impiegherebbe poche ore a scoprire eventuali magagne. Caro Berlinguer, ma li devi vedere ammanettati il tuoi compagni di partito per scoprire chi sono? Evvia, e siamo seri!!!

    E quando Luigi Berlinguer parla del “codice etico del Pd” a quale codice si riferisce: a quello che aveva in mente suo fratello quando parlava della “Questione morale” o a quello, tanto per fare un esempio, di Luciano Violante che quel modello primario lo vede ben superato?

     

    Non si sa bene per quale imperscrutabile degenerazione del pensiero, Violante, chiamato a rispondere sulla “questione morale” apertasi nel Pd dopo i casi Tedesco e Penati,  in un’intervista a L’Unità, affermò: «Il Pd non è il Pci del XX secolo. Il nostro è un partito nuovo, nato in una società aperta, rapportarlo a modelli del passato è sbagliato. Quel discorso*  fu fondamentale nella società del suo tempo ma non può essere automaticamente catapultato nella società di trent’anni dopo».

    Questo è ciò che affermò allora Violante.

     

    (* Violante si riferisce all’intervista di Eugenio Scalfari a Berlinguer apparsa su La Repubblica il 28 luglio 1981. N.d.R. –  L’intervista si può leggere integralmente di seguito a questo articolo)

     

    Ma leggiamo insieme, per capire meglio ciò che per Violante è ormai superato, alcuni stralci di quella lunga intervista dove Berlinguer affermava la diversità del Pci dagli altri partiti dell’arco parlamentare, e come questa differenza fosse sostanziale e vitale per il partito e per l’Italia.

     

    «Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero.

     

    Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sotto-boss’. La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico. »

     

     

    Io non penso che questo discorso appartenga, come disse Luciano Violante, solo al «XX secolo»  né sono d’accordo quando dice che la Questione morale non può essere catapultata nella società di trent’anni dopo, cioè nella nostra società.

    Quelli di Berlinguer erano pensieri verbalizzati di un grande uomo politico che aveva ben chiaro il significato di bene comune, ed aveva un visione lucida sugli uomini e le donne degli apparati di partito, che non definisce appartenenti ad una casta solo perché il termine non era stato ancora abbinato al potere delle segreterie di partito. Potere che era già esistente ma che nel Pci di Berlinguer ancora non aveva preso piede … ancora.

     

    « … molti italiani  –  continua Berlinguer  –  secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più».

     

    Anche queste frasi, che raccontano benissimo i fatti di oggi, non solo sono sorpassati come vorrebbe Violante, ma sono illuminanti perché spiegano perfettamente il sistema odierno della partitocrazia italiana.

     

    Ma continuiamo a leggere insieme le parole di Berlinguer che raccontava ciò che non doveva accadere, e che invece è accaduto.

     

    «Noi (il Pci N.d.R.) pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

     

    Scalfari : «Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti. »

     

    Berlinguer: «Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. »

     

    In effetti, ora, non solo nessuno dei partiti governativi fa «queste cose», ma nessuno, o quasi, le dice così chiaramente, neppure nel Partito democratico, che di quel Pci dovrebbe essere l’erede. Né tantomeno esiste qualcuno che sappia o voglia parlare con una tale visione globale della realtà sociale come sapeva fare il segretario del Pci: « (penso) si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?»

     

    Sembra proprio che ora, sia un delitto avere queste idee che, per alcuni esponenti del Pd, sono sorpassate. E forse quando Violante disse queste cose un po’ di ragione la aveva, visto che nessuno sa produrre un discorso del genere facendo questi affascinanti nessi che legano insieme cause ed effetti, come ad esempio tra sfiducia e droga, tra rifiuto del lavoro e disperazione, tra crisi economica e barbarie.

     

     

     

     

    Continuiamo a leggere alcuni estratti dell’intervista:

     

    Scalfari: «Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché? »

     

    Berlinguer: «La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. (Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità …)»

     

    Di fronte a questi discorsi enormi, che vanno ben al di là del pensiero marxista sulla soddisfazione dei bisogni materiali rimango sorpreso. Sorpreso ed amareggiato perché mi chiedo il motivo per cui, avendo avuto un tale ricchezza di conoscenza politica ed umana, chi è nato dalle ceneri del Pci non è stato poi in grado di far divenire quei semi di sapienza nutrimento per la società civile. Invece quei semi preziosi sono rimasti a seccarsi nel terreno arido mentre le erbacce infestavano la politica e il pensiero di molti, moltissimi cittadini.

     

    Oggi in qualche modo Bersani sembra riprendere quelle idee “obsolete”; basterebbe una sua frase così gravida di senso che il segretario del Pd enunciò il 10 novembre scorso durante l’incontro con la società civile organizzato dal settimanale Left , per farci pensare che quei semi gettati da Enrico Berlinguer possano ora trovare una terra generosa dove poter nascere e svilupparsi : «La storia ha un senso solo se si pensa ad un percorso nel quale l’uomo diventa più umano. Per me governare vuol dire: cosa cambio oggi?».

     

    Io voglio credere alle parole di Bersani, ci voglio credere anche se ciò che immaginava Berlinguer in questi ultimi anni è rimasto infecondo nei solchi di un terreno inaridito dalla politica.

     

    Oggi sono passati più di trent’anni da che l’intervista sulla ‘questione morale’ fu pubblicata. Sono passati più di trent’anni e questi pensieri non sono ancora divenuti parte della cultura politica. Il bambino di Berlinguer, forse per una carenza di vitalità dovuta alle radici marxiste, non è riuscito crescere e a svilupparsi.

    Morto il bambino della ‘questione morale’ in culla, molti politici “di sinistra” hanno smarrito la strada della ricerca sulla realtà umana, che in termini grossolani significa pensare e lavorare per fare in modo che la realizzazione delle esigenze identitarie dei cittadini siano garantite a tutti. Questo come piattaforma di base, per potere sviluppare poi una società giusta, non giustizialista; ugualitaria, non di eguali con la stessa giacca grigia; libera da condizionamenti religiosi, non libertaria dove il più furbo bramoso è libero di depredare l’ingenuo che divide volentieri il pane con l’altro da sé.

     

    Ciò che è “normale” per chi è di destra, che la corruzione ce l’ha nel Dna, non può andare bene per quelli come me che sono di sinistra. La sinistra ha invece un patrimonio culturale che parla di eguaglianza e solidarietà, di libertà e di laicismo. Ha anche, e la ritroviamo nella frase di Bersani che ho citato, un’idea di trasformazione in divenire della società.

    La sinistra, se è tale, non ha nel suo Dna l’idea della sopraffazione del più forte sul più debole. La sinistra è nata naturalmente sana, e, quindi, se sta in queste condizioni, e ovvio che si è ammalata.

     

    E se si è ammalata è ovvio che può anche guarire, riprendendo gli ideali della Rivoluzione francese ai quali Berlinguer aderiva: uguaglianza , libertà e fraternità. A queste idee di base si deve aggiungere l’idea di una trasformazione della realtà umana e poi culturale.

    Ma, se, queste idee di trasformazione sostanziale della società si impantana nelle paludi di un riformismo fatto a parole, non ci siamo, non ci siamo per niente. Più i partiti, che si dichiarano di sinistra, assomiglieranno, nei fatti, ai partiti di destra, più si dissolveranno, perché i propri elettori, quelli di sinistra non andranno più a votare come hanno fatto fino a pochi anni fa tappandosi il naso.

     

    Un politico di sinistra che ruba, o che è complice di chi ruba, o che tace per convenienze politiche su chi ruba, non può più definirsi di sinistra. E allora che vada a sedersi negli scranni della destra.

     

    Bersani deve rimettere in gioco innanzitutto ciò che allora si chiamava “questione morale” e ora si potrebbe chiamare magari “realizzazione di una società umana”. Società umana che non può che rifiutare compromessi disumani che ne deturpano il volto. Perché, come disse la mia amica Silvia, “di sinistra si nasce, di destra ci si diventa” … quando ci si ammala.

     

    Tutti gli articoli riguardanti le Elezioni politiche 2013 li trovate QUI

     

    Intervista a Enrico Berlinguer

     

    Eugenio Scalfari

     

    La passione è finita?

     

    Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora…

     

    Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

     

    È quello che io penso.

     

    Per quale motivo?

     

    I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

     

    Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

     

    E secondo lei non corrisponde alla situazione?

     

    Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.

     

    La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ’74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

     

    Veniamo all’altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.

     

    In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l’andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

     

    Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?

     

    Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

     

    Veniamo alla seconda diversità.

     

    Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

     

    Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

     

    Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

     

    Non voi soltanto.

     

    È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

     

    Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un’offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.

     

    Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s’intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l’occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

     

    Dunque, siete un partito socialista serio…

     

    …nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo…

     

    Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?

     

    No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c’è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

     

    Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c’è o no?

     

    Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c’è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e senza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

     

    Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

     

    La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare ad essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. […] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

     

    Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d’accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l’inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell’obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

     

    Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L’inflazione è -se vogliamo- l’altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l’una e contro l’altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l’inflazione si debba pagare il prezzo d’una recessione massiccia e d’una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.

     

    Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell’ “austerità”. Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito…

     

    Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industrializzati -di fronte all’aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all’avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la “civiltà dei consumi”, con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell’austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell’economia, ma che l’insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l’avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell’austerità e della contemporanea lotta all’inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

     

    E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

     

    Il costo del lavoro va anch’esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell’aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire.

     

    «La Repubblica», 28 luglio 198

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