• Cuore di Tenebra di Joseph Conrad – testo – quinta e ultima parte

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    Nell’isolamento della selva selvaggia si era persa nella contemplazione di se stessa, e, per Dio! ve l’ho detto, era impazzita. Per scontare i miei peccati, suppongo, mi toccò subire quella prova di contemplarla a mia volta. Nessuna eloquenza al mondo saprebbe essere più distruttiva nei confronti della nostra fiducia nel genere umano di quanto lo sia stata la sua ultima esplosione di sincerità. Lottava anche lui contro se stesso. Lo vedevo, lo udivo. Avevo sotto gli occhi l’inconcepibile mistero di un’anima che non conosceva né ritegno, né fede, né paura e che tuttavia lottava ciecamente contro se stessa. Non persi la testa, ma quando finalmente lo distesi sulla cuccetta, mi asciugai il sudore dalla fronte, mentre le gambe mi tremavano, come se avessi portato dieci quintali sulle spalle giù da quella collina. E invece l’avevo solo sorretto, il suo braccio scheletrico stretto attorno al mio collo: non era più pesante di un bambino. «Il giorno dopo, quando partimmo a mezzogiorno, la folla, di cui avevo sempre avvertito nettamente la presenza dietro la cortina degli alberi, si riversò di nuovo fuori dalla foresta, riempiendo la radura, coprendo il pendio di una massa ansimante, fremente, di nudi corpi bronzei. Risalii contro corrente per un breve tratto, per poi virare e mille paia d’occhi seguirono le evoluzioni di quel temibile demone fluviale che, sciaguattando e borbottando, colpiva l’acqua con la sua terribile coda e soffiava un fumo nero nell’aria. Davanti a tutti gli altri, lungo la sponda, tre uomini ricoperti di terra rossa dalla testa ai piedi, si agitavano in lungo e in largo senza sosta. Quando ripassammo alla loro altezza, fronteggiarono il fiume battendo col piede, scuotendo la testa cornata, contorcendo il corpo scarlatto; brandirono verso il demone temibile un mazzo di piume nere, una pelle tignosa con la coda penzoloni, qualcosa che aveva l’aspetto di una zucca secca e, a intervalli regolari, urlarono tutti assieme delle stringhe di parole stupefacenti che non assomigliavano al suono di alcuna lingua umana, e il mormorio profondo della folla, interrotto all’improvviso, era simile alle risposte di qualche satanica litania. «Avevamo portato Kurtz nella cabina di pilotaggio: c’era più aria lassù. Disteso sulla cuccetta, guardava a occhi sbarrati fuori del portello aperto. Ci fu un vortice nella massa di corpi umani e la donna dai capelli a elmo e le guance fulve si slanciò in avanti fin quasi a toccare l’acqua. Con le mani tese, gridò qualcosa e tutta quella folla selvaggia si unì al suo grido in un coro ruggente di suoni rapidi, articolati, da restare senza fiato. «”Lei li capisce?”, chiesi.

     

    «Continuò a guardar fuori di là da me con occhi ardenti e vogliosi, con un’espressione in cui il rimpianto si mescolava all’odio. Non rispose ma sulle sue labbra esangui, che dopo poco si contrassero convulse, vidi passare un sorriso, un indefinibile sorriso. “Se capisco?…”, disse lentamente, ansimando, come se le parole gli fossero state strappate da una potenza soprannaturale. «Tirai la cordicella del fischio, e lo feci perché avevo visto i pellegrini sul ponte estrarre i fucili con l’aria di pregustarsi un bello spasso. Aquell’improvviso stridio un movimento di abietto terrore attraversò quella massa stipata di corpi. “No! No! La smetta! Così li spaventa e loro scappano”, gridò una voce sconsolata sul ponte. Io tiravo la cordicella colpo dopo colpo. Disorientati, si misero a correre: saltavano, si acquattavano, fuggivano in tutte le direzioni per sottrarsi al terrore di quel suono volante. I tre dipinti di rosso erano caduti ventre a terra, a faccia in giù sulla spiaggia, come falciati di netto. Solo la magnifica donna barbara non si era mossa, e continuava a tendere tragicamente le braccia nude verso di noi sopra il fiume cupo e scintillante. «E fu allora che la massa di imbecilli giù sul ponte iniziò la sua piccola farsa e io non vidi più nulla per il fumo. «La scura corrente si allontanava rapida dal cuore della tenebra, portandoci giù verso il mare a una velocità doppia di quella della nostra risalita. La vita di Kurtz non sfuggiva meno rapida, trascinata dal riflusso che la spingeva verso l’oceano inesorabile del tempo. Il direttore era molto placido, ormai non aveva più preoccupazioni di vitale importanza; il suo sguardo, che comprendeva tutti e due, si era fatto sagace e soddisfatto: la “faccenda” si era risolta nel modo più desiderabile. Vedevo avvicinarsi il momento in cui sarei rimasto l’unico rappresentante del partito del “metodo inadeguato”.

     

    I pellegrini mi giudicavano già sfavorevolmente. Facevo, per così dire, il paio con il morto. Strano il modo con cui accettai questa associazione imprevista, questa scelta d’incubo che mi era stata imposta nella terra tenebrosa invasa da quei meschini e rapaci fantasmi. «Kurtz discorreva. Una voce! Che voce! Risuonò profonda, fino alla fine. Sopravviveva alle sue forze per nascondere nelle magnifiche pieghe dell’eloquenza la sterilità tenebrosa del suo cuore. Oh, lottava! lottava! La desolazione della sua mente affaticata ora era ossessionata da immagini annebbiate, immagini di gloria e di ricchezza che ruotavano ossequiosamente intorno al suo inestinguibile dono di espressione nobile ed elevata. La mia fidanzata, la mia stazione, la mia carriera, le mie idee: erano questi i temi delle occasionali manifestazioni di sentimenti sublimi. L’ombra del Kurtz originario stava al capezzale della sua vuota imitazione, il cui destino era di essere ben presto sepolta nella muffa di quella terra primordiale. L’amore diabolico e l’odio celeste per i misteri che aveva penetrato si contendevano il possesso di quell’anima sazia di emozioni primitive, avida d’ingannevole gloria, di false onorificenze, di tutte le apparenze del successo e del potere. «Qualche volta era ignobilmente infantile. Desiderava che al suo ritorno da qualche spettrale Nulla, dove egli si proponeva di compiere grandi cose, ad attenderlo alla stazione ci fossero dei sovrani.

    “Fate loro vedere”, diceva, “che avete in voi qualcosa di realmente vantaggioso, e non ci saranno limiti al riconoscimento che avranno per i vostri meriti. Naturalmente, tocca a voi preoccuparvi dei motivi -motivi giusti -sempre.” Le lunghe distese del fiume, che sembravano una sola e sempre la stessa, le anse monotone, l’una uguale all’altra, scivolavano lungo il battello con la loro moltitudine di alberi secolari che consideravano pazienti quel sudicio frammento di un altro mondo, l’araldo del cambiamento, della conquista, del commercio, dei massacri, delle benedizioni. Io guardavo avanti, pilotando.

     

     

     

    “Chiuda il portello”, disse un giorno Kurtz all’improvviso, “non sopporto quella vista.” Feci quello che chiedeva. Ci fu silenzio. “Oh, ma te lo strapperò il cuore, vedrai!”, gridò all’invisibile selva selvaggia. «Ci fu un’avaria – come mi ero aspettato – e dovemmo fermarci sulla punta di un’isola per ripararla. Questo ritardo fu la prima cosa che scosse la sicurezza di Kurtz. Una mattina mi diede un pacco di carte e una fotografia, il tutto legato con un laccio da scarpe. “Lo conservi per me”, disse. “Quel pernicioso imbecille” (intendendo il direttore) “è capace di frugare nelle mie casse se non sto attento.” Nel pomeriggio andai a trovarlo: giaceva supino, con gli occhi chiusi e mi ritirai senza far rumore, ma lo sentii mormorare, “Vivere rettamente, morire, morire…” Tesi l’orecchio, ma non ci fu altro. Stava ripetendo qualche discorso nel sonno, o era il frammento di qualche articolo di giornale?

     

    Aveva già scritto per dei giornali e intendeva farlo ancora, “per diffondere le mie idee. È un dovere.” «La tenebra che lo circondava era impenetrabile. Lo osservavo come si guarderebbe dall’alto un uomo che giace in fondo a un precipizio dove non brilla mai il sole. Ma non avevo tanto tempo da dedicargli, perché dovevo aiutare il macchinista a smontare i cilindri che perdevano, a raddrizzare una biella piegata, e a fare altre riparazioni. Vivevo in un’infernale bolgia di ruggine, limatura di ferro, dadi, bulloni, chiavi inglesi, martelli, trapani a cricco, tutte cose che detesto, perché non mi ci raccapezzo.

     

    Badavo alla piccola fucina che fortunatamente avevamo a bordo, e sfacchinavo spossato in quel miserabile mucchio di ferraglia, tranne quando i brividi della febbre mi impedivano di reggermi in piedi. «Una sera, entrando da lui con una candela accesa, trasalii nel sentirgli dire con voce un po’ tremolante: “Giaccio qui nella tenebra aspettando la morte.” La luce era a due passi dai suoi occhi. Feci uno sforzo per mormorargli: “Non dica sciocchezze!”, e rimasi curvo sopra di lui come inchiodato. «Non avevo mai visto, e spero di non rivederlo mai, niente di paragonabile al cambiamento che si era operato sui suoi lineamenti. Oh, non ero impietosito. Ero affascinato. Era come se fosse stato strappato un velo. Su quel volto d’avorio vidi l’espressione di un torvo orgoglio, di un potere spietato, di un terrore codardo, e anche di una disperazione immensa e senza rimedio. Stava rivivendo la sua vita in ogni particolare dei suoi desideri, le tentazioni, le capitolazioni, in quel supremo momento di conoscenza completa? Due volte, con voce bassa, lanciò verso non so quale immagine, quale visione, un grido che non era che un soffio: «”Che orrore! Che orrore!”

     

    «Soffiai sulla candela e uscii dalla cabina. I pellegrini stavano cenando in mensa, e presi il mio posto di fronte al direttore, che alzò gli occhi per lanciarmi un’occhiata interrogativa che riuscii fortunatamente a eludere. Era là, piegato all’indietro, sereno, con quel suo particolare sorriso a sigillare le inespresse profondità della sua bassezza. Una pioggia continua di moscerini si riversava sulla lampada, sulla tovaglia, sulle mani e sui volti.

    Improvvisamente, il servo del direttore mostrò la sua insolente testa nera sulla soglia, e disse, in un tono di ingiurioso disprezzo: «”Mistah Kurtz – lui morto.” «Tutti i pellegrini si precipitarono fuori a vedere. Non mi mossi e continuai la mia cena. La mia insensibilità, immagino, fu considerata rivoltante. Comunque, non mangiai molto. C’era una lampada là dentro – la luce, capite, – e fuori era dannatamente, dannatamente buio.

    Non mi avvicinai più all’uomo notevole che aveva pronunciato un tale giudizio sulle avventure della sua anima su questa terra. La voce s’era spenta. C’era mai stato altro lì ? Ma mi rendo perfettamente conto che il giorno dopo i pellegrini seppellirono qualcosa nella fossa fangosa. «E per poco non seppellirono anche me. «Comunque, come potete vedere, non ho raggiunto Kurtz lì per lì. No. Sono rimasto a sognare l’incubo fino alla fine, e a dimostrare la mia fedeltà a Kurtz ancora una volta. Il destino! Il mio destino! Che buffonata la vita: questa misteriosa combinazione di logica impietosa per un futile scopo. Tutto quello che ci si può aspettare, è una qualche conoscenza di se stessi -che viene troppo tardi -e un mucchio di inestinguibili rimpianti. Ho lottato con la morte. È il combattimento meno eccitante che si possa immaginare. Si svolge in un grigiore impalpabile, con niente sotto i piedi, niente intorno, senza testimoni, senza clamore, senza gloria, senza il gran desiderio di vincere, senza il gran timore della sconfitta, in una insalubre atmosfera di tiepido scetticismo, senza una ferma convinzione nel proprio diritto, e meno ancora in quello dell’avversario. Se è questa la forma suprema della saggezza, allora la vita è un enigma più grande di quanto alcuni di noi pensano che sia. Ero a un passo dalla mia ultima occasione di pronunciare una parola, e ho scoperto con umiliazione che probabilmente non avevo niente da dire. Ecco perché affermo che Kurtz era un uomo notevole.

     

     

     

    Lui aveva qualcosa da dire. E lo disse. Dal momento che ho sbirciato anch’io oltre la soglia, capisco meglio il significato del suo sguardo fisso, che non poteva vedere la fiamma della candela, ma era abbastanza vasto da abbracciare l’universo intero, abbastanza acuto per penetrare in tutti i cuori che battono nella tenebra. Aveva tirato le somme e aveva giudicato. “Che orrore!” Era un uomo notevole. Dopo tutto, questa era l’espressione di una specie di fede; c’era candore, convinzione, una vibrante nota di rivolta nel suo sussurro, era il volto terrificante di una verità intravista, il conturbante miscuglio del desiderio e dell’odio. E non è la mia ora estrema che ricordo meglio – una visione di grigiore senza forma, riempita di sofferenza fisica e di un disprezzo indifferente per l’evanescenza di tutte le cose -anche di quella stessa sofferenza. No! È la sua agonia che mi sembra di aver vissuto. È vero che lui aveva fatto il passo supremo, aveva oltrepassato la soglia, mentre a me era stato consentito di ritirare il mio piede esitante. E forse in questo consiste tutta la differenza; forse tutta la saggezza, e tutta la verità, e tutta la sincerità sono concentrate in quell’imponderabile momento in cui noi oltrepassiamo la soglia dell’invisibile. Forse! Mi piace credere che la mia parola conclusiva non sarebbe stata solo una parola di indifferente disprezzo. Meglio il suo grido, molto meglio. Era una affermazione, una vittoria morale pagata al prezzo di innumerevoli sconfitte, di abominevoli terrori, di soddisfazioni abominevoli. Ma era una vittoria! Ecco perché sono rimasto fedele a Kurtz fino alla fine, e anche oltre, quando, molto tempo dopo, udii una volta ancora, non la sua voce, ma l’eco della sua magnifica eloquenza rimandatami da un’anima pura e trasparente come un cristallo di rocca. «No, non mi seppellirono, anche se c’è un periodo di tempo che ricordo avvolto nella nebbia, con uno stupore da brividi, come un passaggio attraverso un mondo inconcepibile senza speranze e senza desideri.

     

     

     

    Mi ritrovai nella città sepolcrale pieno di risentimento alla vista di quella gente che si affrettava per le strade per rubarsi reciprocamente un po’ di soldi, per divorare quel loro cibo infame, per ingoiare quella pessima birra, per sognare i loro stupidi sogni insignificanti. Usurpavano i miei pensieri.

     

    Erano intrusi la cui presunta conoscenza della vita era per me un’irritante finzione, perché ero certo che non potevano assolutamente sapere le cose che io sapevo. Il loro comportamento, che non era altro che quello di banali individui che badano ai propri affari nella certezza di essere al sicuro, mi indignava come un’oltraggiosa ostentazione di stupidità di fronte a un pericolo che non si è in grado di discernere. Non avevo alcun desiderio di illuminarli, ma facevo fatica a trattenermi dal ridergli in faccia, a quelle facce piene di stolida supponenza. Devo ammettere che non mi sentivo tanto bene in quel periodo. Mi trascinavo barcollando per le strade – c’erano molte faccende da sbrigare – mostrando i denti in un sorriso amaro a quelle persone tanto rispettabili. Riconosco che la mia condotta era ingiustificabile, ma in quei giorni la mia temperatura non era quasi mai normale. Gli sforzi della mia cara zia di “rimettermi in forze” sembravano completamente fuori posto. Non erano le mie forze che bisognava curare, era la mia immaginazione che bisognava placare. Conservavo il pacco di carte che mi aveva dato Kurtz, senza sapere esattamente cosa farne. Sua madre era morta da poco, accudita, mi dissero, dalla fidanzata di suo figlio. Un uomo sbarbato di fresco, con modi da funzionario e occhiali cerchiati d’oro, mi fece visita un giorno e mi pose diverse domande, circospette all’inizio, e poi sempre più soavemente pressanti, riguardo a quelli che a lui piaceva definire i “documenti”. Non ne fui sorpreso perché laggiù avevo già avuto un paio di battibecchi con il direttore sull’argomento. Mi ero rifiutato di consegnare anche il più piccolo pezzo di carta del pacchetto e non cambiai atteggiamento con l’occhialuto.

     

    Alla fine divenne oscuramente minaccioso e, accalorandosi, mi fece osservare che la Compagnia aveva diritto a ogni minimo elemento di informazione sui suoi “territori”. E aggiunse: “La conoscenza del signor Kurtz delle regioni inesplorate doveva essere molto estesa e particolare – grazie alla sua grande abilità e alle deplorevoli circostanze nelle quali si era trovato, perciò…

    ” Gli assicurai che la conoscenza del signor Kurtz, per quanto estesa fosse, non verteva su problemi commerciali o amministrativi. Allora invocò il nome della scienza. “Sarebbe una perdita incalcolabile se”, eccetera eccetera. Gli diedi il rapporto sulla “Soppressione delle Usanze Selvagge”, il cui post-scriptum era stato precedentemente strappato. Se ne appropriò con avidità, ma finì per arricciare il naso con aria di disprezzo.

     

    “Non è quello che avevamo il diritto di aspettarci”, osservò. “Non aspettatevi altro”, dissi io. “Il resto sono solo lettere personali.” Se ne andò minacciandomi vagamente di procedere per vie legali e non l’ho più rivisto. Ma un altro tale, che si presentò come un cugino di Kurtz, comparve due giorni dopo, ansiosissimo di sapere tutti i particolari degli ultimi momenti del suo carissimo parente. Per inciso mi lasciò capire che Kurtz era stato essenzialmente un grande musicista. “Aveva tutto quello che ci vuole per un immenso successo”, disse quell’uomo, che era un organista, credo, con lisci capelli grigi che gli scendevano sul colletto unto della giacca. Non avevo motivo di dubitare della sua affermazione, e ancora oggi non sono in grado di dire quale fosse la professione di Kurtz, sempre che ne avesse una, né quale fra i suoi talenti fosse il più grande. Lo avevo preso per un pittore che scriveva per i giornali, o viceversa per un giornalista che era capace di dipingere, ma neanche il cugino (che durante la visita si ficcava il tabacco nel naso) mi seppe dire che cosa fosse stato esattamente Kurtz.

     

    Era un genio universale – su questo mi trovai d’accordo col vecchietto – che a quel punto si soffiò rumorosamente il naso in un grande fazzoletto di cotone e si accomiatò, in senile agitazione, portandosi via qualche lettera di famiglia e delle note senza importanza. Infine saltò fuori un giornalista, desideroso di avere qualche notizia sulla sorte del suo “caro collega”. Questo visitatore mi informò che la sfera adatta a Kurtz sarebbe stata la politica “dalla parte del popolo”. Aveva sopracciglia folte e dritte, capelli ispidi tagliati a spazzola, un monocolo legato a un ampio nastro e, divenuto espansivo, mi confidò che secondo lui Kurtz non era capace di scrivere una riga, “ma, caspita! come parlava quell’uomo. Elettrizzava le folle. Era uno convinto, capisce? Aveva la fede, la fede. Poteva credere in qualsiasi cosa. Sarebbe stato un magnifico capo di un partito estremista.” “Di quale partito?”, chiesi. “Uno qualsiasi”, rispose lui. “Era un… un… estremista.” Non ero d’accordo? Ero d’accordo. Lo sapevo, chiese, con un improvviso lampo di curiosità, “cos’è che l’aveva spinto ad andare laggiù?”

     

     

    “Sì”, dissi, mettendogli fra le mani il famoso Rapporto, perché lo pubblicasse, se lo riteneva opportuno. Lo scorse in fretta, borbottando tutto il tempo, decise che “poteva andare” e se la svignò col suo bottino. «Perciò alla fine mi rimasero un pacchettino di lettere e il ritratto della ragazza. Mi aveva colpito la sua bellezza, voglio dire la bellezza della sua espressione.

     

    So che anche la luce del sole può essere resa ingannevole, però si aveva l’impressione che nessun artificio nella posa o nell’illuminazione avesse potuto prestare ai suoi lineamenti una sfumatura così delicata di genuinità. Sembrava pronta ad ascoltare senza riserve mentali, senza sospetti, senza pensare a se stessa. Decisi che sarei andato a trovarla e che le avrei restituito di persona il ritratto e quelle lettere. Curiosità? Sì, e forse qualche altro sentimento. Tutto quello che era stato di Kurtz mi era scivolato fra le mani: la sua anima, il suo corpo, la sua stazione, i suoi progetti, il suo avorio, la sua carriera. Rimanevano solo la sua memoria e la sua fidanzata – e, in un certo senso, volevo cedere anche quello al passato – consegnare di persona tutto quello che restava di lui a quell’oblio che è l’ultima parola del nostro comune destino. Non sto cercando di difendermi. Non avevo la percezione esatta di cos’era che volevo veramente. Forse era un impulso di fedeltà inconscio, o la realizzazione di una di quelle ironiche necessità che si dissimulano dietro gli avvenimenti dell’esistenza umana. Non lo so. Non saprei dire. Ci andai e basta. «Pensavo che il ricordo di Kurtz fosse uguale a tutti i ricordi degli altri morti che si accumulano nella vita di ogni uomo, una vaga impronta tracciata sulla memoria da ombre che l’hanno lasciata nel loro rapido passaggio estremo; ma davanti all’imponente portone massiccio, fra le alte case di una strada tranquilla e decorosa come il viale ben tenuto di un cimitero, ebbi una visione di lui sulla barella, che apriva voracemente la bocca, quasi volesse divorare la terra e l’umanità tutte intere. Sorse lì davanti a me, vivo come non lo era mai stato, ombra insaziabile di magnifiche apparenze, di spaventose realtà, ombra più tenebrosa dell’ombra della notte, avvolta nelle nobili pieghe di una sfarzosa eloquenza. La visione sembrò entrare in casa con me – la barella, i portatori fantasma, la folla selvaggia dei suoi soggiogati adoratori, l’oscurità della foresta, lo scintillio del fiume fra le anse annebbiate, il rullio del tamburo, regolare e velato come il battito di un cuore -il cuore di una tenebra vittoriosa. Fu un momento di trionfo per la selva selvaggia, un’incursione invadente e vendicativa che a me sembrava di dover respingere da solo per la salvezza di un’altra anima. E il ricordo di quello che gli avevo sentito dire laggiù, mentre le forme cornate si muovevano dietro di me, nel bagliore dei fuochi, dentro ai boschi pazienti, quelle frasi spezzate risuonarono in me, in tutta la loro sinistra e terrificante semplicità. Ricordai la sua abietta insistenza, le abiette minacce, l’ampiezza smisurata dei suoi bassi desideri, la meschinità, il tormento, l’angoscia della sua anima in tempesta. E poi mi parve di vedere la sua aria languida e posata del giorno in cui mi aveva detto: “Tutto questo avorio in realtà appartiene solo a me. La Compagnia non ha pagato per averlo. L’ho raccolto io, con grandissimo rischio personale.

     

    Temo però che tenteranno di rivendicarne la proprietà. Uhm. È un caso delicato. Cosa pensa che dovrei fare? Oppormi, eh? Io non chiedo che giustizia.”… Non chiedeva che giustizia, nient’altro che giustizia. Suonai a una porta di mogano, al primo piano, e mentre aspettavo, sembrava che lui mi fissasse dal fondo del vitreo pannello, col suo sguardo dilatato e immenso che avvolgeva, condannava, esecrava tutto l’universo. Mi sembrò di sentire quel grido sussurrato: “Che orrore! Che orrore!” «Si faceva sera. Dovetti aspettare in un ampio salone con tre finestre alte da terra al soffitto che parevano tre colonne luminose e drappeggiate. Le gambe e gli schienali dorati e torniti dei mobili risplendevano in curve indistinte. Il grande camino di marmo era di una bianchezza fredda e monumentale. Un pianoforte a coda si allungava massiccio in un angolo, con oscuri riflessi sulle superfici lisce come un tetro sarcofago levigato. Si aprì una lunga porta, si richiuse.

     

    Mi alzai. «Venne avanti, vestita di nero, pallida, fluttuante verso di me nella luce del crepuscolo. Era in lutto. Era passato più di un anno dalla morte di lui, più di un anno dalla notizia della sua morte, ma lei sembrava dovesse ricordarlo e piangerlo per sempre. Prese le mie mani fra le sue e mormorò: “Avevo sentito dire che sarebbe venuto.” Notai che non era tanto giovane, voglio dire che non aveva niente della ragazzina. Dell’età matura aveva la capacità di essere fedele, di credere, di soffrire. Sembrava che la stanza fosse diventata più buia, come se tutta la triste luce di quella sera nuvolosa si fosse rifugiata sulla sua fronte.

     

    Quei capelli biondi, quel pallido viso, quella fronte pura, sembravano circondati da un alone cinereo da cui mi guardavano due occhi scuri. Lo sguardo era innocente, profondo, fiducioso e aperto. Portava la sua immagine di dolore come se fosse fiera di quel dolore, quasi volesse dire: io, io sola so piangerlo come lui merita. Ma mentre ci stringevamo ancora le mani, sul suo volto passò un’espressione di una tale desolazione che capii che lei non era una di quelle creature di cui il tempo si fa gioco. Per lei era come se lui fosse morto ieri. E per Giove!, l’impressione fu così forte che anche a me parve che lui fosse morto ieri, cosa dico?, in quel momento stesso. Vidi l’uno e l’altro nello stesso istante – la morte di lui e il dolore di lei – vidi quale era stato il dolore di lei nel momento stesso della morte di lui. Mi capite? Li vidi insieme, li udii insieme. Lei mi aveva detto, con un profondo singhiozzo nella voce: “Sono sopravvissuta”, mentre alle mie orecchie tese sembrava di udire distintamente, mescolato al tono di disperato rimpianto di lei, il sussurro della resa dei conti dell’eterna condanna di lui. Mi chiesi cosa ci stessi a fare là, con un senso di panico nel cuore come se mi fossi smarrito in un luogo pieno di misteri assurdi e crudeli, proibito ai mortali. Mi portò verso una sedia e ci sedemmo. Posai delicatamente il pacchetto sul tavolino e lei ci mise la mano sopra… “Lei lo conosceva bene”, mormorò dopo un attimo di doloroso silenzio. «”Fa presto a nascere l’intimità laggiù”, dissi. “Lo conoscevo quanto è possibile a un uomo conoscerne un altro.” «”E lo ammirava”, disse. “Era impossibile conoscerlo senza ammirarlo. Vero?” «”Era un uomo notevole”, dissi con voce incerta. E davanti alla fissità implorante di quello sguardo che sembrava aspettare altre parole dalle mie labbra, aggiunsi: “Era impossibile non…” «”Amarlo”, terminò con ardore, lasciandomi muto e sgomento. “Com’è vero! Com’è vero!

     

     

     

    E pensare che nessuno lo conosceva bene come me. Avevo tutta la sua nobile fiducia. Io lo conoscevo meglio di tutti.” «”Lei lo conosceva meglio di tutti”, ripetei. E magari era vero. Ma ad ogni parola pronunciata la stanza si faceva più buia e solo la sua fronte, liscia e bianca, rimaneva accesa per l’inestinguibile luce della fede e dell’amore. «”Lei era suo amico”, proseguì. “Suo amico”, ripeté un po’ più forte. “Bisognava che lei lo fosse se le ha dato questo e l’ha mandata da me! Sento di poter parlare con lei e… oh! ho bisogno di parlare. Voglio che lei sappia -lei che ha udito le sue ultime parole -che io sono stata degna di lui… Non è orgoglio… Ebbene sì! Sono fiera di sapere che ero io quella che lo aveva capito meglio di chiunque altro a questo mondo, me l’ha detto lui stesso. E da quando è morta sua madre non ho avuto nessuno – nessuno – con cui -con cui…”

     

    «Io ascoltavo. L’oscurità diventava più profonda.

    Non ero neanche sicuro che lui mi avesse dato il carteggio giusto. Ho qualche motivo di credere che quel che mi voleva affidare fosse un altro pacco di carte che, dopo la sua morte, ho visto fra le mani del direttore mentre le esaminava sotto la lampada. E la ragazza parlava, traendo dalla certezza di avere la mia simpatia un conforto alla sua afflizione; parlava come beve un assetato. Avevo sentito dire che il suo fidanzamento con Kurtz non era stato approvato dalla sua famiglia. Non era abbastanza ricco o qualcosa di simile. E infatti non so se sia stato povero tutta la sua vita. Mi aveva dato qualche motivo di arguire che fosse stata l’insofferenza per la sua relativa povertà a spingerlo laggiù. «”… Chi non era suo amico dopo averlo sentito parlare anche solo una volta?”, stava dicendo. “Attirava gli uomini a sé con quello che c’era di meglio in loro.” Mi fissò intensamente. “È la dote dei grandi”, continuò, e il suono della sua voce bassa sembrava avere l’accompagnamento di tutti gli altri suoni, pieni di mistero, di desolazione e di dolore, che avevo sentiti altrove: il mormorio del fiume, il fremito degli alberi agitati dal vento, il lamento della folla, la debole eco di parole incomprensibili gridate da lontano, il sussurro di una voce che parlava di là dalla soglia di una tenebra eterna. “Ma lei lo ha udito! Lo sa!”, esclamò. «”Sì, lo so”, dissi con una specie di disperazione nel cuore, ma con la testa china davanti alla fede che c’era in lei, davanti alla grande, salutare illusione che splendeva di una luce non terrena in quella oscurità, nella trionfante tenebra da cui non l’avrei potuta difendere, da cui non potevo difendere neanche me stesso. «”Che perdita per me -per noi”, si corresse con magnanima generosità; e aggiunse in un sussurro: “per il mondo.” Negli ultimi bagliori del crepuscolo potevo distinguere il luccichio dei suoi occhi, pieni di lacrime, di lacrime che non volevano cadere. «”Sono stata molto felice -molto fortunata -molto fiera”, continuò.

     

    “Troppo fortunata. Troppo felice per una breve parentesi. E ora sono infelice per… per tutta la vita.” «Si alzò. I suoi capelli biondi sembrarono raccogliere, in uno scintillio dorato, tutta la luce che rimaneva. Mi alzai anch’io. «”E di tutto questo”, proseguì, con desolazione, “di tutto quello che prometteva, della sua grandezza, della sua mente generosa, del suo nobile cuore, non rimane nulla, nulla se non il ricordo. Lei e io…” «”Lo ricorderemo sempre”, dissi in fretta. «”No!”, gridò. “È impossibile che tutto vada perduto -che una vita simile sia stata sacrificata per non lasciare nulla -se non dolore. Lei sa quali grandiosi progetti avesse. Anch’io li conoscevo, -potevo forse non capirli -ma altri ne erano a conoscenza. Qualcosa deve restare. Le sue parole almeno non sono morte.” «”Le sue parole resteranno”, dissi. «”E il suo esempio”, mormorò tra sé. “Gli sguardi degli uomini erano puntati su di lui. Ogni sua azione brillava di bontà. Il suo esempio…”«”È vero”, dissi, “anche il suo esempio. Sì, il suo esempio. Lo dimenticavo.” «”Ma io no. Non posso – non posso crederci – non ancora. Non posso credere che non lo vedrò mai più, che nessuno lo rivedrà mai, mai, mai più.” «Come verso un’immagine che si allontana, giunse le mani bianche e tese le braccia che, in controluce nell’angusta e pallida luce della finestra, sembrarono tutte nere. Non rivederlo mai! In quel momento io lo rivedevo abbastanza distintamente. Continuerò a vedere quell’eloquente fantasma per tutta la vita, e vedrò anche lei, ombra tragica e familiare, simile in quel gesto a un’altra, altrettanto tragica, adorna di incantesimi impotenti, che tendeva le sue braccia brune e nude, sopra lo scintillio del fiume infernale, il fiume della tenebra. All’improvviso disse, con voce molto bassa: “È morto com’è vissuto.” «”La sua morte”, dissi, mentre un’ira funesta montava in me, “è stata in tutto degna della sua vita.” «”E io non ero con lui”, mormorò. La mia ira lasciò il posto a un sentimento di pietà infinita. «”Tutto quello che si poteva fare…”, borbottai. «”Ah, ma io credevo in lui più di chiunque altro al mondo -più di sua madre più di… lui stesso. Aveva bisogno di me! Di me! Avrei raccolto gelosamente ogni sospiro, ogni parola, ogni movimento, ogni sguardo.” «Sentii come una stretta gelida al petto. “Non faccia così”, dissi, con voce strozzata. «”Mi perdoni. Io, io ho pianto così tanto in silenzio, in silenzio… Lei è stato con lui, fino all’ultimo? Penso alla sua solitudine. Nessuno vicino che lo capisse, come l’avrei capito io. Forse nessuno ad ascoltare…” «”Fino alla fine”, dissi scosso. “Ho udito le sue ultime parole…”, mi interruppi spaventato. «”Le ripeta”, mormorò con voce spezzata. “Voglio, voglio qualcosa, qualcosa, con cui vivere.” «Stavo per gridarle: “Ma non le sente?” L’oscurità attorno a noi le stava ripetendo in un sussurro ostinato, in un sussurro che sembrava gonfiarsi minaccioso, come il primo mormorio di un vento che si alza. “Che orrore! Che orrore!” «”L’ultima parola, per aiutarmi a vivere”, pregò. “Non capisce che io lo amavo, lo amavo, lo amavo!” «Mi ricomposi e parlai lentamente.

     

     

     

    «”L’ultima parola che ha pronunciato è stata … il suo nome.” «Percepii un leggero sospiro e poi il mio cuore cessò di battere, fermato di colpo da un terribile grido esultante, un grido di inconcepibile trionfo e di dolore inesprimibile. “Lo sapevo, ne ero certa!…” Lo sapeva, ne era certa. La sentii singhiozzare. Aveva nascosto il viso fra le mani. Ebbi l’impressione che sarebbe crollata la casa prima che io potessi fuggire, che il cielo mi sarebbe caduto sulla testa. Ma non accadde nulla. Il cielo non cade per così poco. Sarebbe caduto, mi domando, se avessi reso a Kurtz quella giustizia che gli era dovuta? Non aveva detto che voleva solo giustizia? Ma non ne fui capace. Non potevo dirlo a lei. Sarebbe stato troppo tenebroso, decisamente troppo tenebroso…»

     

    Marlow tacque e rimase seduto in disparte, indistinto e silenzioso, nella posa di un Budda in meditazione. Nessuno si mosse per un po’. “Abbiamo perso l’inizio del riflusso”, disse il Direttore all’improvviso. Sollevai la testa.

    L’orizzonte era sbarrato da un nero banco di nuvole, e quell’acqua – che come un viale tranquillo porta ai limiti estremi della terra -, scorrendo scura sotto un cielo coperto, sembrava condurre dentro al cuore di un’immensa tenebra.

     

    F  i  n  e

     

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    Molte  foto sono tratte dal film Apocalypse Now  ; un film del 1979 diretto da Francis Ford Coppola, liberamente ispirato al romanzo di Joseph Conrad Cuore di tenebra,

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