di Gian Carlo Zanon
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Come promesso a Maurizio Furgada, volentieri mi accingo a scrivere una recensione del suo libro, Dialoghi con la Pace, in cui viene narrata la sua esperienza di “ambasciatore di pace” nei territori dell’ex Jugoslavia dilaniati dagli orrori della guerra civile che si è conclusa nel novembre del 1995 con l’Accordo di Dayton con il quale ebbe termine la guerra in Bosnia e Erzegovina.
Questa guerra civile si inserisce all’interno delle “guerre jugoslave”, vale a dire quella serie di conflitti armati che hanno coinvolto diversi territori appartenenti all’ex Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia tra il 1991 e il 2001.
L’impegno di Maurizio Furgada, narrato nel libro, ha coinvolto decine di persone di culture e di religioni diverse stanziate in poche centinaia di chilometri quadrati, tra i territori di Cremona e i villaggi di Petrovo e Donja Orahovica separati da due fiumi: lo Spreĉa e la Jadrina.
Conoscevo Maurizio Furgada solo come “quel viaggiatore solitario” che aveva ripercorso le tracce di Bruce Chatwin e aveva descritto il suo viaggio nel libro Patagonia – Un viaggio sulle tracce di Bruce Chatwin. Eppure sulla quarta di copertina del suo libro sul viaggio patagonico, era indicato questo suo impegno precedente e anche il fatto che era stato insignito, nel 1999, del «Premio Annuale per la Pace della Regione Lombardia con un progetto interetnico nella Bosnia del post-conflitto.»
Allora non avevo approfondito questa sua esperienza… ed ora invece ci devo fare i conti, e non sarà facile. Non è facile perché questo libro non offre una lettura lineare anche perché, come scrive Lucia Zanotti nella postfazione, «ha in sé diverse angolature di lettura» che, a prima vista, non sembrano avere la possibilità di incunearsi perfettamente l’una nell’altra creando un mosaico tale da far comprendere al lettore il senso e il significato di questi ricordi, di questi racconti, di queste favole che in “modo disordinato” si susseguono.
Ma basta abbattere mentalmente questo confine, che è solo formale, e, come suggerito dall’autore, entrare nella frastagliata e indefinita frontiera del senso, e tutto appare coeso, fluente, ben decifrabile.
Anche il tempo cronologico qui perde il suo valore perché vengono privilegiati i tempi appartenenti alla sfera umana ed affettiva dei protagonisti di questo viaggio verso la ricerca del senso di un rapporto interumano “possibile/impossibile” che fa tremare i polsi. Ma prima di lasciarmi andare tra i gorghi di questo fiume di sentimenti estremi, devo affrontare la questione del linguaggio.
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Parole come “conflitto”, “pace”, “perdono”, “religione” sono state troppo usate e abusate perché possano conservare ancora un valore semantico univoco. Se pensiamo che è stato dato un Nobel per la pace ad un macellaio che ha sulla coscienza migliaia di vittime innocenti che porta il nome infame di Henry Kissinger, dobbiamo pensare anche quanto la parola “pace” abbia perduto il suo valore primario.
Questo vale anche per parole come “conflitto” che spesso porta con sé il delirio di un peccato originario che, pur perdendosi nella notte dei tempi, sarebbe, secondo le dottrine monoteistiche, presente in ogni essere umano dal momento del suo concepimento. Peccato originario che, ritradotto in termini psicanalitici, è divenuto “conflitto interiore ineliminabile” tra due entità interiori metafisiche: «Si parte dalla consapevolezza che il conflitto è dentro di noi e che è una realtà ineliminabile» scrive Maurizio Furgada a p. 74 del suo libro … poi scrive di «attività educative (…) necessarie a gestire questo momento di crisi delle relazioni umane».
Come se questo “conflitto ineliminabile” si potesse addomesticare con l’educazione al rapporto corretto e razionale con l’altro da sé, mettendo a tacere il Male – che sarebbe comunque ineliminabile – rafforzando il Bene.
Le cose sono molto più complicate di così, e non esistono due entità ineliminabili in conflitto che albergano all’interno degli esseri umani. Esiste una realtà umana uguale per tutti alla nascita e diversa durante l’esistenza per i distinti marosi dei rapporti interumani: «Ricorda: siamo uguali ma… non siamo tutti uguali» scrive giustamente la “Cherokee” Jelica all’uomo bianco nella finzione letteraria. (p. 97)
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Ma forse è solo questione di linguaggio. Per definire i rapporti interumani io non uso la parola “conflitto”, uso la parola “dialettica”. La dialettica tra esseri umani è ineludibile e prevede la presenza di un altro da sé con cui mettere in campo un rapporto necessario per la realizzazione umana di entrambi. Però serve sapere che anche il rifiuto totale dell’altro da sé può essere una dialettica. Il no definitivo è una delle modalità della dialettica perché potrebbe presupporre una presa di distanza – definitiva e momentanea – tra chi non vuole essere vittima e chi vorrebbe essere carnefice.
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E qui arriviamo alla parola “perdono”, che è la più difficile da comprendere, ed è il cuore del conflitto tra esseri che hanno mantenuto l’umanità primaria, avuta in dono alla nascita, e individui che l’hanno perduta totalmente o parzialmente. È questo che hanno dovuto sviscerare l’autore del libro e tutte le persone coinvolte in questa «esperienza eccezionale».
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Chi viene ferito psichicamente nella propria identità – identità umana che fonda il pensiero e l’azione dell’essere umano – non deve perdonare il carnefice perché significherebbe accettare la condizione di vittima. Non deve neppure vendicarsi con la legge del taglione perché significherebbe accettare la condizione di carnefice.
Deve, come fa Jelica nella sua lettera, trovare dentro di sé la forza identitaria per affermare la propria umanità e tracciare un confine netto tra sé e il carnefice che non è più un essere umano uguale a sé: «siamo uguali ma… non siamo tutti uguali». In questa semplice frase è condensato tutto il pensiero del rapporto interumano.
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l perdono è un termine astratto, non ha immagini, non è un affetto, è innaturale, è una sovrastruttura culturale senza validi fondamenti psichici. Infine è figlio di un pavido compromesso con se stessi, è un misero pasto consumato nella squallida mensa della ragione.
Non tenere in considerazione, un torto, un affronto, una ferita ricevuti da altri non è nemmeno umano. Non è umano perché perdonare significa annullare atti, materiali e non, che hanno leso la propria identità.
Si può rinunciare a propositi di vendetta, ma non si deve rinunciare alla rivendicazione della giustizia infranta.
I morti vanno sepolti, i lutti vanno elaborati rivendicando giustizia… ce lo insegnano le Erinni, ce lo insegna Antigone. Senza giustizia i morti e i torti rimarranno per sempre insepolti nella memoria di chi vive. Las Madres de Plaza de Majo non hanno mai perdonato.
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Che fare? Una risposta ce la dà Albert Camus in una delle “Lettere ad un amico tedesco” scritte tra il ‘42 e il ‘43 in cui, come i ragazzi di Petrovo e Donja Orahovica, scriveva a un ipotetico carnefice nazista: «Così, in mezzo ai clamori e alla violenza tentavamo di conservare nel cuore il ricordo di un mare placido, di una collina indimenticabile, il sorriso di un volto caro. Era, infatti, la nostra arma migliore, quella che mai riporremo. Perché se un giorno la perdessimo, allora saremmo morti come voi.»
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Ma come dicevo è solo questione di linguaggio, ed ognuno ha il suo.
Il linguaggio di Maurizio Furgada divampa quando ci parla per immagini narrando dei vecchi «che se ne stavano in silenzio in disparte e con i loro sguardi acuti e penetranti sembravano poter guardare dentro i miei pensieri». Oppure quando vede una donna davanti a sé che turbata dai ricordi troppo ostentati “abbassa il viso e ritrae tutto il suo orgoglio dentro il palmo di una mano”. Oppure ancora quando scatta questa lancinante fotografia: «Quando la pioggia cominciò a cadere copiosa sul cimitero di Protócari, Samina era già da tempo fuori dalla mia visuale. L’avevo lasciata con gli occhi incollati alla lapide che recava incise le lettere del nome del padre e quando alzai lo sguardo la vidi che già su stava allontanando sul viottolo di ghiaia bianca al riparo dell’ombrello di Ivana. Eravamo rimasti lì fermi tutti quanti come statue di marmo. Davanti a noi c’era l’immagine di copertina della nostra storia.»
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Come dicevo è solo questione di linguaggio, ed ognuno ha il suo, e in questo suo linguaggio, che attinge all’universalità dell’umano, mi riconosco e penso che sì io e Maurizio siamo fondamentalmente uguali. Siamo fondamentalmente uguali perché pur pensando verbalmente in modo diverso, le realizzazioni a cui tendiamo non prescindono mai dalla realizzazione degli altri. E in questo libro si racconta la storia di identità pericolosamente distinte che però quasi si fondono realizzando all’interno di quella frontiera dai margini infiniti e indefiniti – come infinite e indefinite sono le realizzazioni dei rapporti interumani con l’altro uguale e diverso da sé – la proria realtà umana: «E fu nella complicità dei loro sguardi che vidi, oltre la disperazione che aveva segnato quei miei primi giorni in Bosnia, la forza inestrirpabile della vita, la forza contagiosa dell’entusiasmo»
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Grazie a Maurizio Furgada, confine e frontiera ora hanno un’immagine più definita nella mia mente.
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Maurizio Furgada
Dialoghi con la Pace
Vedi sito: IL MIO LIBRO