• Chiedo scusa se vi parlo di Giorgio Gaber – Video

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     di Roberto Cursi


    Sono passati 10 anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber e proprio in questi giorni la sua città lo celebra con la rassegna  Milano per Gaber.

     

    Così, inevitabilmente, sono riemerse lontane memorie che accompagnano immagini e sensazioni di anni ormai lontani, quando, a me, era quasi del tutto sconosciuto il grande artista milanese.

     

    Era il 1981, avevo 16 anni, e già lavoravo. Per me, Giorgio Gaber, era quello della Torpedo Blu, Riccardo, Barbera e Champagne, di lui sapevo molto poco. Ascoltavo e compravo i “33 giri” dei vari cantautori italiani, sapevo tutto su De Gregori. Andavo alle manifestazioni e cominciavo ad avvicinarmi ai gruppi extra-parlamentari di sinistra…, ma di Gaber avevo in mente solo qualche immagine in bianco e nero proveniente dai varietà del sabato sera.

     

    Avevo 16 anni e già lavoravo, era il 1981. In quello stesso anno, da una fredda e nebbiosa città del nord, si trasferì a Roma un nuovo mio compagno di lavoro. Non eravamo coetanei, c’ erano 14 anni di differenza, lui ne aveva 30.

    Io un adolescente, lui già un uomo, che aveva deciso di cambiare vita, scegliendo la bella e assolata città eterna. Per la prima volta incontravo una persona che sapeva darmi risposte, non tanto alle mie inquietudini adolescenziali, che mi spingevano a voler “cambiare il mondo”, ma a quella mia percezione degli affetti umani che, deludendomi quasi continuamente, avevano creato in me, negli anni, confusione ed incertezza sul mio “sentire”. Delusioni per le quali, però, la rabbia non era riuscita ad averla vinta, e l’ indifferenza non sapevo proprio cosa fosse.

    Trovare quelle risposte aumentò in me la fiducia nel mio “sentire”, e la percezione degli affetti umani diventò la bussola per i miei futuri passi. Un giorno, il compagno di lavoro, mi parlò di Gaber. Lui lo conosceva bene, come la sua Milano, e lo aveva seguito anche a teatro. Ma ora, nel 1981, non più tanto, i suoi interessi volgevano altrove. Ora per lui c’ era un altra storia, un altra ricerca che lo interessava molto di più di quello che Gaber diceva. Una ricerca seguita da centinaia di persone, che si svolgeva, in via di Roma Libera, 23.

    Io andavo a manifestazioni e volevo “cambiare il mondo”, parlavo di possibili rivoluzioni.  Penso che, in quel momento, lui abbia capito che a me,  adolescente di 16 anni, Gaber, forse, poteva servire. Mi chiese se conoscevo la canzone  Chiedo scusa se vi parlo di Maria.

     – No, mai sentita!

     

    Così mi regalò una “musi-cassetta” dove erano registrate canzoni e testi di uno spettacolo di Gaber. Fu in quel momento che iniziai a conoscerlo. Poi ci furono i suoi spettacoli teatrali, le sue canzoni, le sue interviste. Non sono mai stato un suo fan, perchè non lo sono mai stato verso nessuno. E’ che non mi piace proprio esserlo, non mi viene naturale. Ma, tra gli artisti che poi ho conosciuto, è quello che sicuramente ho sentito più vicino. E’ forse perchè anche lui, che voleva “cambiare il mondo”, aveva poi capito che, prima di tutto, bisogna cambiare l’ uomo.

     

    Se dopo 32 anni, da quel lontano 1981, ho voluto ricordare Gaber, è proprio perchè una piccola parte di quello che ora sono, lo devo anche a lui.

     

    E per me, il miglior modo per ricordarlo, in questo decimo anniversario dalla sua scomparsa, è riprendere alcune delle sue stesse parole.

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     Estratti dal libro Quando parla Gaber

    Io credo che la malattia, o il malessere, nascano dall’ ambiguità, dalla non chiarezza: quando trovo qualcosa di negativo in me, qualsiasi cosa, e ne capisco l’ origine, la ragione, per me è una vittoria. La conoscenza è positività. Anche la conoscenza di cose negative ti porta ad affrontare la vita in modo diverso. La non conoscenza, la confusione, sono il delirio, che è poi malattia e morte. (1995)

    Diciamolo chiaramente: se uno è in crisi, non va a letto pensando agli operai che muoiono di silicosi o al Vietnam; va a letto, e si lecca le sue ferite. Perchè non è vero che l’ unico motivo per fare la rivoluzione sono il Cile o la repressione. Il vero motivo sei tu. (1973)

     

    Parole come “uomo nuovo”, “nuova coscenza” sono da esaminare qui e ora. Quando dico: “Trovare l’ audacia di frequentare il futuro con gioia” voglio dire che, in questo lamento generale, non si riesce a prefigurare nulla, e bisogna allora predisporsi ad una spinta utopistica che non conosciamo. …. Non sedersi quindi su futuri irrealizzabili, ma vivere immediatamente il desiderio di cambiamento. (1998)

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    …. E’ molto importante che ognuno si guardi un attimo ogni tanto e tenti di riconoscersi, al di là del documento d’ identità che ha in tasca. Ecco, il problema è veramente questo: mi senbra che, se nessuno di noi, avesse un documento d’ identità con nome, cognome e tutto il resto, oggi come oggi, non esisteremmo. Questo è il dato più disastroso di cui si parla poco. (1976)

    Sono uno che ci crede ancora. Non so bene in cosa, ma ci credo. E sono malato di conoscenza, di voglia di cambiare le cose. Di credere che sia possibile vivere in un modo non imbecille. E non è detto che gli anni della speranza non ritornino. (1984)

     

    L’ ideologia non è mai rivoluzionaria, è sempre un immagine del passato. Dire che l’ ideologia è rivoluzionaria è una contraddizione in termini. Credo che ognuno di noi abbia dentro una sua rappresentazione del bene e del male, a cui adegua la sua esistenza. (1986)

     

    Riflusso è una parolaccia equivoca inventata dal “Corriere della Sera” e affibbiatami dal Sig. Nico Orengo. Disse che ero “disimpegnato”, mentre io mi considero della razza dei vecchi resistenti.

    Riflusso sono la stupidità, la volgarità. Se uno parla della sua anima, questo non è riflusso: per me continua ad essere impegno. Si può parlare dell’ individuo, di se stessi, senza bisogno di far passare ciò come intimismo o individualismo borghese;….Anche il “Signor G” si poneva lo stesso problema: non distinguere il rapporto collettivo da quello che è il rapporto con se stessi. Questo è stato sempre il mio tema. (1984)

     

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    Quando è caduto il muro di Berlino, quando è finita come è finita e tutto questo ci è caduto addosso di colpo,con una rapidità allarmante, ho dovuto fare i conti con il mio passato e prendere atto di un disagio che nasceva dall’ improvvisa mancanza di una grande utopia.

    Attenzione, non dico che il muro non andasse abbattuto e che in URSS andasse tutto bene, ma noi in quegli anni ci si riconosceva in una specie di progetto utopico che andava in una certa direzione e che chiamavamo comunismo. Non è la parola “comunista” che importa qui…. Era una totale volontà di cambiamento, che non era la dittatura del proletariato, la lotta dei contadini russi, o la comune dei cinesi. Era qualcosa che, indipendentemente dal fatto che fosse appropriato o meno chiamarlo comunismo, ci aveva coinvolti emotivamente, al di là di ogni sforzo costruttivo e di ogni progetto strutturale che avesse per obiettivo una società diversa. (1992)

     

    Ci si definiva comunisti per contrapporsi ad un sistema statico, immobile, e quindi sgradevole. Di quegli ideali siamo orfani… (1996)

     

     

    Io ero uno di quelli che sono stati, si sono sentiti comunisti, “perchè avevo bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perchè sentivo la necessità di una morale diversa, perchè era solo una forza, un sogno, un volo, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita”. (1992)

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    Quello è un periodo di cui non parla più nessuno, per vergogna o per paura, o per incapacità di ricordarlo e ricostruirlo nella sua verità. Non c’è stato solo il terrorismo, non ci sono stati soltanto i miti dell’ Unione Sovietica o della Cina, non ci sono stati solo fraintendimenti, folclore, violenze, stupidaggini, ideologie, errori. Io credo che la gente abbia bisogno di sapere che non c’è un vuoto alle sue spalle, che allora qualcuno c’èra. Noi c’eravamo e non eravamo tutti scemi. (1992)

     

    Per utopia intendo quella tensione morale che uno ha dentro di sé verso un miglioramento dell’ uomo e la costruzione di un futuro diverso. Non mi interessano l’ utopia comunista o quella anarchica. La tensione di cui parlo è connaturata nell’ uomo, nei suoi geni vitali che passeranno ai suoi figli, e dai sui figli a i suoi nipoti. Pensare al futuro è una caratteristica dell’ animale uomo…. Qualcuno magari dirà: “ma da che parte sta questo Gaber? Sta a destra? A sinistra? Io sto dalla mia parte, dalla parte del mio pensiero. Non mi identifico in nessuno. Il mio amico Damascelli ha scritto giustamente: “Gaber è un uomo di sinistra. Non è della sinistra”. (1998)

    Si cerca per cercare, non per trovare. Non ho soluzioni in tasca, né voglio vedere un mondo migliore attraverso la speranza. Credo che questo sia qualcosa di intimo, di personale, che non riguarda la concretezza della cose. L’ importante non è la lunghezza del passo che si riesce a fare, ma il desiderio di fare quel passo. Occorre una spinta verso il vero, altrimenti sono morto, travolto dalla logica invadente dell’ effimero. (1984)

     

    Intellettuale io? Che brutta parola, logora e stantia. Non mi considero né intellettuale, né poeta: sono uno che cerca di vedere dentro se stesso, che è la via più sicura per capire gli altri. C’è poi una differenza tra l’ intellettuale e il saggio. Il primo fa un percorso di testa, che non tiene conto del corpo, dello spazio del cuore, perchè lavora solo di meningi. Io invece vorrei aspirare alla saggezza. (1987)

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    Non è vero che il destino entra alla cieca nella nostra vita. Io credo che entri dalla porta che noi stessi gli abbiamo spalancato. (1980)

     

    Vale la pena di vivere per la tensione a trovare livelli superiori di sé. Il raggiungimento di un gesto naturale potrebbe sembrare una posizione statica, ma in realtà è la salvezza. Il movimento, e anche il marxismo, sono la mia storia, il rifiuto della staticità. Si deve morire e rinascere continuamente. (1979)

     

    Della famiglia mi spaventa la rappresentazione di una routine, propinata spesso dai giornali. La routine felice è la negazione stessa della vita. La famiglia intesa come ripetizione di gesti, come quoditianità non vissuta ma subita, va combattuta… Le pantofole sono il simbolo della fine. (1987) 

     

    Il modo di vivere delle persone – lo star bene, l’ ammalarsi – dipende molto dalla sfera affettiva. Alla fine del giorno,quando spegnamo l’ abatjour prima di addormentarci, abbiamo questo sentimento profondamente dentro. Anche se distratti da una giornata molto intensa, ci rimane il senso della sicurezza di esistere, perchè qualcuno desidera che noi ci siamo. Ecco, se nessuno desidera che noi ci siamo, allora ci si ammala: non si può vivere senza essere amati. (1998)

     

     

    Giorgio Gaber

     

    La bruttezza è psicosomatica. Te la fai da te, con le tue meschinità, con la tua cattiva coscenza. La nostra incertezza ci limita a odiare senza riuscire a centrare neppure il bersaglio del nostro odio. Anche di odio e di rabbia lasciamo troppi aborti in giro. Bisogna essere più precisi nell’ amore, nei gusti, nelle passioni, e anche nell’ odio e nella rabbia. (1976)

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    In una canzone “Un alibi” dico: <<C’è perfino chi riesce ad inventarsi un amore infinito per le pene lontane di chi sta soffrendo / le sue braccia sono troppo corte per sfiorare un amico / ma abbastanza lunghe per abbracciare il mondo>>. E allora è arrivato il momento di chiedersi cosa si prova davvero.(1987)

     

    Abbiamo buttato via un sistema educativo che era da buttare, ci mancherebbe, ma ne abbiamo perso anche le caratteristiche positive. Al posto dell’ autoritarismo cattolico abbiamo sostituito il nulla, non siamo stati capaci di trasformare l’ autoritarismo in autorevolezza, siamo diventati genitori piuttosto inconsistenti. Questa inconsistenza porta i giovani a una mancanza di riferimenti precisi, ed ecco le colpe dei padri che ricadono sui figli. Non siamo stati capaci di dire no. Abbiamo sempre cercato di mediare, di ragionare, di discutere, ma la nostra capacità di dire no si è ridotta. (2000)

     

    Giorgio Gaber

     

    Il mondo, per me, è cambiato troppo in fretta. Allora reagisco. Prendo il mio tempo. Penso. Vado a caccia della mia coscenza. Cerco una via umana fra le contraddizioni. Dico anche come sia indispensabile rimettere la filosofia al primo posto. Bisogna risalire molto all’ indietro, recuperare i presocratici, le immortali invenzioni di chi leggeva tutto in chiave di movimento, ma si chiamava Eraclito, non internet. (1998) 

    25 febbraio 2013

     

     DOVE ESISTONO UNA VOGLIA, UN AMORE, UNA PASSIONE, LI’ CI SONO ANCH’ IO! (1998)

     GIORGIO GABER

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    Il libro “Quando parla Gaber” a cura di Guido Harari, è edito da “chiarelettere”

     

    Link video della canzone “Non insegnate ai bambini”

    http://www.youtube.com/watch?v=zb6WMfWPQ9Q

     

    • purtroppo l’analisi e’ terrificante perché corretta,sarebbe più facile la negazione,la non accettazione di ciò. Quello che dici mette a nudo quello che la nostra coscienza sa,e cerca di autonascondere,(parlo chiaramente della coscienza di quei qualcuno di sinistra) mi ripeto è più facile nascondere dietro mille distrazioni per non pensare,per non ammettere di esserci arresi, ma è anche un pensiero di speranza, perché capisco che: allora era tutto vero, allora forse il nostro cervello è solo in letargo, è solo una pausa di riflessione, siamo forse una quinta colonna silente ma pronta ad agire.

    • Andrea, è sempre facile che la negazione venga fuori quando ci si rassegna alla rinuncia, e anche io non ne sono certo immune, ma dalle tue parole si capisce che, avendo colto un pensiero di speranza, riconosci anche una reale possibilità di cambiamento. E usando sempre le parole di Gaber: ”non è vero che il destino entra alla cieca nella nostra vita. Io credo che entri dalla porta che noi stessi gli abbiamo aperto”.
      Roberto C.

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