• Albert Camus – “Il primo uomo” – Recensione

      5 commenti

    camus a 7 anni

     Albert Camus (al centro) a sette anni

     –

     di Gian Carlo Zanon

     –

    Lettera di Camus al suo maestro della scuola elementare

    19 novembre 1957

    «Caro signor Germain,

    ho aspettato che si spegnesse il baccano che mi ha circondato in tutti questi giorni, prima di venire a parlarle con tutto il cuore.  Mi hanno fatto un onore davvero troppo grande, (l’assegnazione del Nobel per la letteratura N.d.R.) che non ho né cercato né sollecitato. Ma quando mi è giunta la notizia, il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che io ero, senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo. Non sopravvaluto questo genere d’onore. Ma è almeno un’occasione per dirle che cosa lei è stato, e continua a essere, per me, e per assicurarla che i suoi sforzi, il suo lavoro e la generosità che lei ci metteva sono sempre vivi in uno dei suoi scolaretti che nonostante l’età, non ha cessato di essere il suo riconoscente allievo. L’abbraccio con tutte le mie forze.

    Albert Camus»

    «Algeri 30 aprile 1959

    Vorrei parlarti del mio malessere di insegnante laico di fronte ai minacciosi progetti che si stanno ordendo contro la nostra scuola. In tutta la mia carriera, credo di aver rispettato ciò che c’è di più sacro nel ragazzo: il diritto di cercarsi una propria verità. […] quando si doveva parlare di Dio (era nel programma), dicevo che alcuni ci credevano e altri no. […] Così, a proposito delle religioni mi limitavo a parlare di quelle che esistevano e alle quali appartenevano coloro che ci credevano. […] So bene che questo non piace e che a quanti vorrebbero trasformare i maestri in commessi viaggiatori della religione e , per essere precisi, della religione cattolica.[…] mio padre, come i suoi compagni, era obbligato ad andare a messa e a fare la comunione ogni domenica. Un giorno esasperato da questa costrizione mise l’ostia ‘consacrata’ in un libro da messa e poi lo chiuse. Informato della cosa, il direttore dell’École non esitò ad espellerlo. […]

    Germain Luis»

     –

    Queste sono due lettere poste nelle ultime pagine del libro di Il primo uomo di Albert Camus. Ho deciso di metterle all’inizio di questa recensione al libro di Camus e al film di Gianni Amelio, ora nelle sale italiane, perché ho pensato che potessero esprimere meglio di qualsiasi altro documento o discorso il senso profondo di quest’opera lasciata dall’autore incustodita per un’assenza non voluta. Il 4 gennaio, del 1960, Camus muore in un incidente d’auto a un centinaio di chilometri da Parigi; su quell’automobile non doveva salire; nelle tasche aveva il biglietto del treno; al volante c’era Michel Gallimard, nipote del suo editore, che muore cinque giorno dopo all’ospedale. Nella sua sacca, scrive la figlia Catherine, vengono trovate «centoquarantaquattro pagine scritte di getto, a volte senza punti né virgole, con una grafia rapida e difficile da decifrare, mai rielaborate».

    Il testo, incompiuto venne in uno primo momento dattiloscritto dalla moglie di Albert Camus,  Francine, e in seguito rielaborato dalla figlia Catherine. Ora è diventato un film. Un bellissimo film.

    Lo so, le recensioni non si fanno così, ma qui si sta tra amici … no? E poi quando il cuore è gonfio per la bellezza donata si può scrivere e dire tutto ciò che passa per … stavo scrivendo “mente”, ma è meglio dire “pancia”,  oppure “pelle”. Il primo uomo è una “autobiografia della memoria” scritta però in terza persona. È ciò che, usando il lessico dello psichiatra Massimo Fagioli, si potrebbe definire un’opera fatta di “immagini inconsce non oniriche”; una ricreazione del proprio passato divenuto leggenda, raccontata, come la narrerebbe  un uomo seduto vicino ad un fuoco che racconta ad un bambino il mito della propria esistenza e la leggenda di chi lo generò.

    Questo lavoro, proprio per le sue caratteristiche primarie «pagine scritte di getto, […] senza punti né virgole, […] una grafia rapida e difficile da decifrare, mai rielaborate», si presenta come un’elaborazione inconscia e una domanda universale di Camus sul senso della propria esistenza e sul senso dell’umano esistere degli esseri umani. Nel film vediamo Cormery/Camus curvo sulla tomba del padre mai conosciuto, morto nel ’14, a ventinove anni in una trincea sul fronte franco-tedesco. Su quella tomba anonima il figlio che non ha mai conosciuto suo padre perché morto prima che lui nascesse, grida in silenzio tutta l’assurdità di una storia insensata subita dai più. «E l’ondata di tenerezza e di pietà che ad un tratto gli riempì il cuore non era quello slancio dell’anima che spinge il figlio verso il ricordo del padre scomparso, ma la compassione e il turbamento di un uomo fatto davanti ad un ragazzo ingiustamente assassinato –  era una cosa fuori dall’ordine naturale, e in effetti non poteva esserci ordine, ma solo follia e caos, dove il figlio era più vecchio del padre.[…] non restava ormai che quel cuore angosciato, avido di vita, ribelle all’ordine mortale del mondo, che lo aveva accompagnato per quarant’anni e continuava a battere con la stessa forza contro il muro che lo separava dal segreto della vita, con la volontà di andare più in là, di andare oltre, e di sapere, sapere prima di morire, saper finalmente per essere, una sola volta, un solo secondo, ma per sempre»… ragazzi … questo è Camus!

    Questo è Camus e so  il motivo per cui, da quando a diciott’anni lessi Lo straniero, sono legato alla sua opera e alla sua immagine da un vincolo inestricabile che lega il mio pensiero al suo:

    Una giovane donna cammina sotto il sole nordafricano con una bambina araba tra le braccia.  La bambina ha una ferita infetta e la giovane donna la sta portando all’infermeria del villaggio. Una ragazzina, avrà si e no dodici anni,  osserva la madre con la piccola in braccio arrancare mentre si allontana sotto il sole e… prova vergogna per ciò che vede. La dodicenne è una  pies noire, così venivano chiamati i figli degli europei che nascevano nel Nord africa colonizzato dai francesi. Anche Camus era un pies noire  e venne espulso dal Partito Comunista franco/algerino per le sue divergenze con i dirigenti quando questi, su ordine di Stalin, decisero di espellere dal partito gli arabi. Nel 1937 il Partito Comunista Francese, i cui ideali erano quelli dell’uguaglianza, della libertà e della fratellanza, espulsero, quelli che, secondo loro, non essendo francesi non corrispondevano al “modello del comunista francese”.

    .

    La ragazzina nata in Tunisia queste cose non le sa, nel ‘37 ha dodici anni e a lei, sin dalle elementari, nelle scuole francesi, le hanno spiegato che gli arabi non sono esseri umani come loro. Loro, che li hanno colonizzati per esportare quell’eguaglianza che hanno avuto in eredità dalla rivoluzione francese. Quell’eguaglianza il cui significato, loro, i francesi, dovrebbero ben conoscere. Alla ragazzina hanno insegnato gli ideali della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza, fratellanza, ma le hanno anche insegnato che per essere liberi, uguali e fratelli si deve appartenere alla razza dei colonizzatori. Gli arabi sono una razza inferiore e non sanno neppure parlare correttamente la langue d’oïl.  Lei non sa che cose come il colore della pelle un po’ più annerita dal sole, i capelli un po’ più crespi, un parlare stentatamente la lingua dei colonialisti non possono qualificare un essere umano come inferiore. A lei a scuola le hanno insegnato che gli arabi non sono esseri umani come loro: sono infidi, stupidi, possono solo fare i servi, fare i mestieri umili. Le hanno anche spiegato chei boches sono cattivi per il solo fatto di essere nati in Germania e che i sal macaronì  sono gli italiani come lei. Però i boches e i macaronì in fondo sono esseri umani, gli arabi no. A lei hanno insegnato che con quella gente non si possono avere rapporti come tra eguali, non si può tenere in braccio una bambina araba , anche se è ammalata e deve essere portata all’infermeria del villaggio perché potrebbe morire, non si può … è un’onta.

    Invece la mamma della dodicenne è analfabeta, non è andata a scuola. A lei, schiava per la sua povertà e per essere donna,  nessuno gli ha insegnato che gli arabi appartengono alla razza degli schiavi. A lei che spesso ha diviso il pane con gli arabi sembra naturale prendere in braccio una bambina ammalata e portarla dal medico, anche se ha la pelle un po’ più scura della sua, anche se ha i capelli un po’ più crespi dei suoi.

    Sono passati più di settanta anni, quella che fu la dodicenne pies noire, vergognandosi finalmente della sua vergogna di allora, mi ha raccontato questa storia. Mi ha raccontato di questa sua ferita interna una notte d’inverno al telefono. Forse ha recuperato questo ricordo e me lo ha raccontato per mondarsi dall’inumano. Forse, ora che viviamo in una società multietnica, ha potuto capire. Forse avrà fatto un sogno o avrà sentito un suono che ha trasformato il senso di quella memoria. Qualsiasi cosa sia successo, ora, dopo avermi svelato il suo bruciate segreto il senso di colpa che gravava sulla sua immagine interna si è placato, la sua Erinni, ora si è acquietata.

    Quella donna al telefono era mia madre. E anch’io come Albert Camus «Sono cresciuto sul mare e la povertà mi è stata fastosa, poi ho perduto il mare, tutti i lussi mi sono sembrati grigi, la miseria intollerabile. – anch’io come lui ho capito in un momento della mia esistenza  «… che bisognava conservare in sé intatte una freschezza, una sorgente di gioia, amare la luce che si sottrae all’ingiustizia, e con questa luce conquistata tornare a lottare – anch’io ho scoperto –  nel cuore dell’inverno, che c’era in me un’invincibile estate.»

    In queste espressioni verbali  trovo una somiglianza ideale tra me e Camus, ma se lui non avesse scritto queste parole forse non avrei saputo decifrare un’idea-immagine indefinita che voleva un pensiero verbale per non smarrirsi.

    E Camus sapeva da sempre che svelare la verità agli uomini era il suo destino e che questo svelamento passava attraverso le sue parole: «Ho cercato in particolare di rispettare le parole che scrivevo, giacché, per mezzo di esse, rispettavo coloro che le potevano leggere e che non volevo ingannare. […] Dai miei primi articoli fino al mio ultimo libro io ho tanto, e forse troppo scritto, solo perché non posso fare a meno di partecipare alla vita di tutti i giorni e di schierarmi dalla parte di coloro chiunque essi siano, che vengono umiliati e offesi. […] mi pare che non si possa sopportare quest’idea, e colui che non può sopportarla non può neppure addormentarsi in una torre. Non per virtù, ma per una sorte di intolleranza quasi organica, che si prova o non si prova. Da parte mia ne vedo molti che non la provano, ma non posso invidiare il loro sonno».

    Anche nel suo discorso di Stoccolma in occasione dell’assegnazione del Nobel espresse più o meno gli stessi concetti: «Personalmente non potrei vivere senza la mia arte, ma non l’ho mai posta al di sopra di tutto: se mi è necessaria, è invece perché non si estranea da nessuno e mi permette di vivere come sono al livello di tutti. L’arte non è ai miei occhi gioia solitaria: è invece un mezzo per commuovere il maggior numero di uomini offrendo loro un’immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie di tutti. L’arte obbliga dunque l’artista a non isolarsi e lo sottomette alla verità più umile e più universale. E spesso chi ha scelto il suo destino di artista perché si sentiva diverso dagli altri si accorge ben presto che potrà alimentare la sua arte e questo suo esser diverso solo confessando la sua somiglianza con tutti: l’artista si forma in questo rapporto perpetuo fra lui e gli altri, a mezza strada fra la bellezza di cui non può fare a meno e la comunità dalla quale non si può staccare. È  per questa ragione che i veri artisti non disprezzano nulla e si sforzano di comprendere invece di giudicare: e se essi hanno un partito da prendere in questo mondo, non può essere altro che quello di una società in cui, non regnerà più il giudice, ma il creatore, sia esso lavoratore o intellettuale».

     –

    camus

    Jean Daniel, suo compagno di tante lotte giornalistiche, nel suo lavoro Resistere all’aria del Tempo, dove viene raccontata la biografia di Camus giornalista, parla del coraggio e della forte personalità dell’intellettuale algerin. Egli narra, il proprio sconcerto nel vedere come Camus « fosse stato capace, così giovane e con tanta facilità, di trovare la forza di opporsi a tutti, anche ai suoi amici, osando indignarsi, e con quale superbia, perché si arrivava a salutare l’esplosione della bomba di Hiroshima con entusiasmo incondizionato. […] In cosa consistesse la solitudine di quel grido e il coraggio non comune di esprimerlo, allora, pubblicamente, richiede un’attenta considerazione» Qualche tempo dopo Jean Daniel chiedeva a Camus le ragioni che lo avevano spinto a quel rifiuto che lo aveva allontanato anche da coloro che egli amava ed ammirava: «La mia domanda precipitò l’ex editorialista di Combat in un abisso di riflessione silenziosa: ricostruiva le condizioni della solitudine passata nel tempo dell’articolo di Hiroshima. E finì per rispondere con convinzione grave e al contempo esaltata. Mi disse che accade di sentir nascere, nel più profondo del cuore, un’evidenza che non è quella degli altri, insomma, un’evidenza contraria all’aria del tempo. Ma forse, aggiunse mentre sembrava trovare lentamente la propria verità, l’intellettuale dev’essere innanzi tutto un uomo che sa resistere all’aria del tempo» … ragazzi … questo è Camus.

    … Volevo scrivere una recensione sul libro di Camus e sul film di Amelio, molto bello e fedele allo spirito dell’autore, ma mi è uscito un omaggio a quest’uomo forgiato nelle officine telluriche di Efesto e Diòniso.

     Posso ancora dire però che questo film, che ha ‘rubato’ il testimone a quelle parole lasciate da Camus, racconta la Storia con la S maiuscola attraverso gli affetti e attraverso lo sguardo di un bambino che parla con gli occhi e diventa uomo seguendo quel ‘destino’ tutto umano che egli aveva trovato alla nascita, raccontata nel romanzo, quando la luce gli aveva donato il pensiero.

    Il film di Gianni Amelio, a parte un paio di citazioni, forse dovute, al film di Gillo Pontecorvo, la Battaglia di Algeri, si snoda in una serie di episodi legati tra loro con maestria che mostrano il farsi eticamente uomo di un grande uomo del novecento. Pontecorvo aveva raccontato la cronaca di una battaglia. Camus/Amelio rappresentano la storia di esseri umani presenti in quel luogo quando divampò la rivolta araba; raccontano come ognuno di loro visse quella storia dolorosa e per alcuni infamante. Scrittore e regista raccontano la rabbia suicida degli arabi a cui veniva negata l’identità umana; narrano di un bambino poi divenuto uomo che cercò sin da piccolo di colmare la distanza che diveniva sempre più enorme tra gli algerini arabi e i pies noires che avevano il corpo e gli affetti e il sangue intrisi di odori nordafricani e la mente inzuppata nel veleno della grandeur francese. Forse non poteva che andar a finire in quel modo, trecento anni di rabbia tenuta al guinzaglio difficilmente può trovare pace soprattutto se dall’altra parte fino all’ultimo si pensa di essere padroni del destino di un altro popolo.

     –

     Ma provate a pensare solo un momento a come sarebbe tutto il Nord africa se la speranza di Camus di creare una Stato algerino dove i nativi, arabi e europei, potessero vivere insieme con gli stessi diritti e con le stesse possibilità identitarie, si fosse realizzata … forse non ci chiameremmo più europei e nordafricani, italiani e tunisini ma unicamente mediterranei … e poi bellissima la rappresentazione del rapporto del piccolo Albert e del Camus quarantenne con la madre. Una grande interpretazione di Maya Sansa nel ruolo della madre da giovane.

    Articoli correlati

    Scheda libro

    Autore: Albert Camus

    Titolo: Le premier homme – Il primo uomo

    Editore Bompiani, 2011

    (alcune foto delle pagine originali le potete vedere nel libro elettronico allegato alle pagg 8, 54,122, 261). Questo è il link da copiare

    http://books.google.it/books?id=sMYP-UGkDj0C&pg=PT5&lpg=PT5&dq=Camus+lettera+a+germain&source=bl&ots=gODJiGOBwC&sig=DJD5rqM9c9qQYDVNc5SvR07129U&hl=it&sa=X&ei=T0ShT_WTGISB4ASUs7T5CA&sqi=2&ved=0CB4Q6AEwAA#v=onepage&q=Camus%20lettera%20a%20germain&f=false

    Scheda film

    Titolo: Il primo uomo

    Regia: Gianni Amelio

    Con: Maya Sansa, Jacques Gamblin, Denis Podalydes, Catherine Sola, Christophe Dimitri Reveille, Regis Romele

    • bellissimo articolo!! complimenti!!
      Francesco

    • Articolo magnifico e un grazie di cuore……..

    • Caro Giancarlo, che fortuna per noi non essere soli e saperlo. Vien voglia di abbracciarlo Camus… Lui così umano, così forte, ed anche così sensibile…
      Tu, penso, sai rendercelo bene perchè “lo senti”, un abbraccio, Silvia

    • ciao giancarlo, ho visto il film mi è piaciuto.ho rivisto finalmente il” primo” amelio,quello di un tempo,il bravissimo e sensibile regista,che ci aveva donato una serie di bellissimi e struggenti capolavori; il piccolo archimede,la fine del gioco,la città del sole,colpire al cuore, porte aperte,il ladro di bambini. poi piu niente,poi si era perso tra le luci di cannes,e i galà del lido di venezia….
      anche se ad essere sincero ,tra il regista amelio, è camus,la mia obbiettività l’ho mandata beatamente a farsi fottere,perchè li amo entrambi!!
      un abbraccio antonio

      • Sono d’accordo, io ho letto anche il libro e devo dire che Amelio , che è stato solo alla fine supervisionato dalla figlia di Camus, è stato molto fedele alla poetica dell’autore. Amche la scelta dell’attore è stat felice.

        Un abbraccione,
        Gian Carlo

    Scrivi un commento