• Albert Camus, 1942, lettere a un amico tedesco – Un documento storico imprescindibile che traccia la frontiera tra umano e disumano

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    «Lei non ha mai creduto che questo mondo avesse un senso e ne ha dedotto la concezione che tutto si equivalesse e che il bene e il male si potessero stabilire ad arbitrio. Ha creduto che, nell’assenza di ogni morale umana o divina, gli unici valori fossero quelli che governano il mondo animale, cioè la violenza e l’astuzia.»

    Nel 1942 Albert Camus, grazie a Pascal Pia che è divenuto uno dei capi del movimento di Resistenza Combat, entra attivamente nella lotta contro l’occupazione nazista. Ha appena compiuto trent’anni. In precedenza aveva scritto vari testi destinati alla stampa della Resistenza. Tra questi i più importanti sono le “Lettere a un amico tedesco”. Nelle Lettres vi è netto rifiuto alla cieca mistica nazista della forza e dello Stato, i “valori” per i quali vale la pena di vivere, di combattere e di morire esaltati da Heidegger.

    Nell’articolo sottostante, (settembre 2010) Alessandro Leogrande si chiede se nella cultura che porta agli orrori della seconda guerra mondiale «c’è una corrente sotterranea che porta dal nichilismo, da Martin Heidegger o da Carl Schmitt – attraverso il crollo della filosofia e della filosofia morale per come erano state intese per molto tempo – al nazionalsocialismo?» La risposta è sì. La recente scoperta dei famosi Schwarze Hefte (Quaderni neri) di Martin Heidegger e il saggio Emanuel Faye, del 2005, “Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia”, pubblicato in Italia nel 2012 da L’asino D’Oro, curato da Livia Profeti, non lasciano alcun dubbio: Heidegger fu colui che introdusse il nazismo nella filosofia prima ancora che il nazionalsocialismo se ne impossessasse per legittimare culturalmente il dominio del più forte e più violento sul meno forte e meno violento.

    L’affermazione di Hannah Arendt «La politica si fonda sul dato di fatto della pluralità degli uomini. Dio ha creato l’Uomo, gli uomini sono un prodotto umano, terreno, il prodotto della natura umana.» che secondo Leogrande si avvicina al pensiero a Camus, è troppo astratta e imbevuta di religiosità per poter essere in grado di rifiutare, come fa in modo netto lo scrittore algerino, l’aberrazione contenuta nei pensieri di Heidegger. Infatti la Arendt dopo la guerra si riavvicinerà al filosofo tedesco. É grazie a lei che nel ‘49 Heidegger verrà “denazificato” e riprenderà, nel 1951, la sua carriera universitaria. Heidegger le sarà riconoscente, e Hannah Arendt si farà in mille per divulgare il pensiero del suo maestro, si farà sua ambasciatrice nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti. E non è un caso se J.P. Sartre, che costruì la sua identità culturale ripercorrendo il pensiero Heidegger, tentò in tutti i modi di esiliare Camus dalla cultura francese. (leggi qui)

    Gian Carlo Zanon

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    Lettere a un amico Tedesco

    di Alessandro Leogrande

    pubblicato in Minima et Moralia mercoledì, 29 settembre 2010 e  sullo Straniero di settembre/ottobre

    Albert Camus scrisse le quattro Lettere a un amico tedesco (poi raccolte in un unico volumetto da Gallimard nel 1948) tra il luglio del 1943 e il luglio del ‘44, perché uscissero sulla stampa clandestina della Resistenza. La prima fu pubblicata su Revue libre. La seconda, con lo pseudonimo Louis Neuville sui Cahiers de la Libération. La terza e la quarta, destinate a Revue libre, rimasero inedite. Le Lettere sono un testo importante per capire la genesi del pensiero di Camus, dal momento che contengono temi e spunti che saranno articolati in maniera più esaustiva nell’Uomo in rivolta.

    Tuttavia l’aspetto significativo (a parte l’estrema lucidità di molti passaggi) è il fatto che siano state scritte nel cuore della lotta al nazifascismo, e che costituiscano nel loro insieme un contraltare teorico, più meditato, rispetto all’intensa attività pubblicistica condotta su Combat.
    Le Lettere a un amico tedesco (che recentemente sono state ripubblicate in un opuscolo dalla piccola cada editrice bolognese Ogni uomo è tutti gli uomini) non sono solo quindi un concentrato del pensiero di Camus in quegli anni, bensì sono allo stesso tempo un concentrato di quel pensiero in relazione alla lotta clandestina, alla riflessione sulla moralità (quale morale?) della Resistenza, e in relazione al rapporto con la Germania (e il pensiero tedesco) che, per la sua complessità, trascende l’immediatezza della lotta di liberazione.

    Due grandi questioni attraversano le Lettere. La prima è raccolta nel tentativo di creare un ponte epistolare con il nemico, attraversando il fronte e la più ambigua linea di demarcazione occupante-occupato (l’amico cui Camus scrive è un destinatario immaginario: è un intellettuale tedesco poco critico nei confronti del nazismo, che in fondo considera Hitler e il Terzo Reich un parto della propria nazione, e alla propria nazione, al proprio Stato – ne è fermamente convinto – non ci si ribella mai!). Camus sa bene che non può condividere niente con il destinatario delle sue lettere, e sa altrettanto bene che rivolgersi al nemico non vuol dire retrocedere dai propri principi. Ciononostante, nel momento in cui scrive, compie un gesto umano (non riconduce il proprio interlocutore a un rango sub-umano) e così facendo compie il gesto più antinazista di tutti.


    L’altra grande questione concerne i modi della lotta. Opporsi al nazismo non vuol dire semplicemente vincere la guerra contro la Germania (che, beninteso, per Camus è anche una guerra di popolo e una guerra civile), ma liberarsi da tutte le possibili scorie fasciste all’interno del proprio corpo sociale, culturale, spirituale e individuale. A un certo punto afferma: «Noi avevamo molto da vincere, come per esempio l’eterna tentazione di assomigliarvi. C’è una parte di noi che si lascia allettare dall’istinto, dal disprezzo dell’intelligenza, dal culto dell’efficienza.» E, potremmo continuare: dalla menzogna, dall’assassinio, dai virus dell’autoritarismo, del razzismo, dell’antisemitismo… La Resistenza non ha niente a che fare con tutto questo, benché sia stata costretta a imbracciare le armi. Ma chi sono il “noi” e il “voi” delle lettere di Camus? Come si sarà capito (a partire dalla scelta del proprio interlocutore immaginario, e soprattutto dalla consistenza dai reali lettori di questi scritti: i militanti della Resistenza francese, intellettuali e no, operai e no) questi non possono essere divisi con l’accetta in “francesi” e “tedeschi”.

    E quando nel testo ciò avviene, la Francia e la Germania non indicano due compatte entità territoriali o linguistiche, ma due diverse realtà spirituali, morali, con le loro ricadute politiche. Difatti nella prefazione a una successiva edizione italiana delle Lettere a un amico tedesco, uscita dopo la fine della guerra, Albert Camus scriverà con estrema chiarezza: «Ma non posso lasciare ristampare queste pagine senza dire che cosa sono. Sono state scritte e pubblicate in clandestinità. Avevano lo scopo di fare un po’ di luce sulla nostra lotta combattuta dapprima alla cieca, rendendola via via più efficace. Sono scritti di circostanza che perciò possono apparire ingiusti. Infatti, se si dovesse scrivere della Germania vinta, si dovrebbe usare un linguaggio un po’ diverso.» E ancora: «Vorrei perciò prevenire un malinteso: quando l’autore di queste lettere dice ‘voi’, non vuole dire ‘voi tedeschi’, ma ‘voi nazi’. Quando dice ‘noi’, non significa sempre ‘noi francesi’, ma anche ‘noi europei liberi’. Contrappongo due atteggiamenti, non due nazioni, anche se in un certo momento della storia queste due nazioni hanno combattuto una guerra.»

    Ma quel “voi nazisti” non vuol dire semplicemente le SS, Hitler, Himmler, Göring… chi ha ordinato o perpetrato una lunga sequela di carneficine, stermini, morte, violenza. Quel “voi” indica anche coloro che culturalmente e intellettualmente hanno sostenuto il massacro, il percorso spirituale (e filosofico) che porta (autogiustificandosi) al nazismo. Insomma, c’è una corrente sotterranea che porta dal nichilismo, da Martin Heidegger o da Carl Schmitt – attraverso il crollo della filosofia e della filosofia morale per come erano state intese per molto tempo – al nazionalsocialismo? È, questa, una domanda cruciale, nelle Lettere e, più in generale, nel pensiero di Camus, perché giammai Camus intende contrapporre ai suoi “nemici” la ricostruzione della vecchia metafisica, o di un universalismo posticcio, o di un ordine kantiano andato in frantumi. Camus non nega la necessità di un universalismo, anche minimo. Certo che è necessario. Ma questo va conquistato, e mantenuto. Non è un dato di fatto.

    Ciononostante, una risposta, dall’interno della Resistenza, va data. Perché è necessario essere diversi, sottrarsi alla mimesi, senza vagheggiare quel mondo antico, precedente alle temperie del Novecento, che non esiste più. Detto con altre parole: deve pur esistere un criterio, anche minimo, anche dissidente, per distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, al di là del potere assoluto della ragion di Stato, o della ragione della Storia, e soprattutto in netta contrapposizione a coloro i quali brindano alla dissoluzione di ogni valore e di ogni norma. E, allora, che fare?
    Le idee non sono mai distaccate dai fatti, né i fatti dalle idee (per quanto ci sia ancora qualcuno, ancora nel XXI secolo, talmente persuaso del contrario, da enunciarlo come proposito programmatico del proprio fare o del proprio scrivere).

    Così Camus raggiunge il cuore della questione (che ha a che fare, come si sarà già capito, con la crisi della civiltà e delle scienze europee, di cui tutti siamo parte) nella quarta lettera. È un passaggio talmente bello, e talmente limpido, che sarebbe ingiusto non citarne per intero alcuni passaggi. Scrive Camus: «Insieme abbiamo creduto a lungo che questo mondo non si fondasse su un principio superiore e che eravamo dei frustrati. In un certo senso lo credo ancora. Ma ne ho tratto conclusioni diverse da quelle di cui lei mi parlava allora e che da tempo voi tentate di introdurre nella storia. Oggi dico a me stesso che, se avessi veramente aderito alle vostre idee, dovrei approvare quello che fate ora. E questo è così grave che devo assolutamente prenderlo in considerazione (…). Lei non ha mai creduto che questo mondo avesse un senso e da ciò ha dedotto che tutto si equivale, che il bene e il male fossero intercambiabili. Lei ha supposto che, in assenza di qualsiasi morale divina o umana, i soli valori fossero quelli che dominano nel mondo animale, cioè la violenza e l’astuzia. Lei ne ha dedotto che l’uomo non è niente, che si poteva sopprimere l’anima, che, in una storia così senza senso, il compito dell’individuo non potesse essere altro che l’avventura della potenza e la sua morale il realismo delle conquiste.»

    Ma se lo scrittore francese condivide l’assenza di un senso superiore, in cosa consiste allora la differenza? «Nel fatto che lei accettava la disperazione senza farsi problemi, mentre io non l’ho mai accettata. Il fatto è che lei ammetteva l’ingiustizia della condizione umana tanto da risolversi ad aggravarla, mentre a me sembrava che l’uomo dovesse rendere più forte la giustizia per lottare contro l’ingiustizia eterna, creare felicità per protestare contro un universo di infelicità.» Rifiutare la disperazione e il mondo torturato, e operare questo rifiuto, questa obiezione materiale e di coscienza, nella solidarietà, nel lottare insieme “contro un destino orrendo”. Per Camus non c’è altro modo per rimanere fedeli alla terra, e a se stessi, che affermare e proteggere un’idea di uomo, contro i bombardamenti, le fucilazioni di massa, i vagoni piombati, i campi di prigionia, le torture, lo sterminio, la distruzione delle menti e dei corpi. «Continuo a credere che questo mondo non abbia una finalità superiore. Ma so che c’è qualcosa che ha un senso: l’uomo. Perché è il solo a pretendere di averlo.»

    Pochi anni dopo, Hannah Arendt in un frammento poi raccolto dopo la sua morte in Che cos’è la politica?, avrebbe scardinato il rapporto tra filosofia tradizionale e politica con queste poche, geniali parole: «La politica si fonda sul dato di fatto della pluralità degli uomini. Dio ha creato l’Uomo, gli uomini sono un prodotto umano, terreno, il prodotto della natura umana.» Il frammento è dell’agosto del 1950, la quarta lettera di Camus del luglio del 1944. Ma il materiale umano che informa le loro riflessioni (la pluralità degli uomini, senza maiuscole; da cui dovrebbe discendere, sul piano politico, l’intreccio di relazioni nuove, non violente, non totalitarie) pare la medesima. Difatti, Camus continua nella sua lettera, rivolgendosi al suo interlocutore filonazista, un po’ come avrebbe potuto fare il protagonista del noto dialogo di Platone che molti secoli addietro ebbe a rivolgersi ai sofisti: «Con un sorriso sprezzante lei mi dirà: cosa significa salvare l’uomo? Glielo grido con tutto me stesso: significa non mutilarlo, dare alla giustizia tutte le possibilità che l’uomo sa concepire. Ecco perché lottiamo.»


    Ecco perché lottiamo… E allora sarà superfluo aggiungere, come scrisse lo stesso Albert Camus poche settimane dopo, nel celebre editoriale apparso su Combat il 21 agosto del 1944, il giorno della liberazione di Parigi dall’occupazione nazista, che la lotta continua.

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    Il tempo della vostra sconfitta si avvicina. Le scrivo da una città famosa in tutto il mondo, intenta a preparare contro di voi un domani di libertà. Essa sa bene che non è facile e che, prima, dovrà attraversare una notte ancora più nera di quella iniziata quattro anni or sono, con la vostra venuta. Le scrivo da una città spogliata di tutto, senza luce né fuoco, affamata, eppur sempre indomita. Fra poco vi scoppierà una bufera di cui non avete ancora idea. Se avremo fortuna noi due ci troveremo allora uno di fronte all’altro. Allora potremo combatterci con conoscenza di causa: io ho un’idea chiara delle sue ragioni e lei può ben immaginare le mie.

    Queste notti di luglio sono leggere e nello stesso tempo gravose. Leggere sulla Senna e fra le piante, gravose nel cuore di quanti attendono l’unica alba di cui ormai abbiano desiderio. Attendo e penso a lei: ho ancora una cosa da dirle e sarà l’ultima. Voglio spiegarle come è possibile esser stati così simili e oggi esser nemici, e come avrei potuto essere al suo fianco e perché oggi fra noi tutto è finito.

    Per molto tempo, ambedue abbiamo creduto che questo mondo non avesse una finalità superiore e che noi fossimo dei frustrati. In un certo senso lo credo ancora. Ma sono giunto a trarne conclusioni differenti da quelle di cui lei mi parlava un tempo e che, da tanti anni, tentate di introdurre nella Storia. Oggi dico a me stesso che se l’avessi effettivamente seguita nei suoi ragionamenti, dovrei approvare la vostra condotta attuale. E la cosa è tanto grave che è necessario che mi arresti qui, nel cuore di questa notte d’estate tanto gonfia di promesse per noi e di minacce per voi.

    Lei non ha mai creduto che questo mondo avesse un senso e ne ha dedotto la concezione che tutto si equivalesse e che il bene e il male si potessero stabilire ad arbitrio. Ha creduto che, nell’assenza di ogni morale umana o divina, gli unici valori fossero quelli che governano il mondo animale, cioè la violenza e l’astuzia. Ne ha concluso che l’uomo è nulla, che si poteva sopprimere la sua anima, che, nella più insensata delle storie, il compito dell’individuo non potesse essere altro che l’avventura della potenza, e la sua morale il realismo delle conquiste.


    E, in verità, io che credevo allora di pensare come lei, non trovavo quasi argomenti abbastanza consistenti da opporle, se la passione ardente per la giustizia che, in definitiva, mi sembrava tanto poco meditata quanto la più improvvisa delle passioni.
    In cosa consisteva la differenza? Nel fatto che lei accettava con animo leggero la disperazione, mentre io non ho mai potuto consentirvi. Nel fatto che lei considerava ammissibile l’ingiustizia della condizione umana tanto da risolversi ad aggravarla, mentre a me pareva evidente che l’uomo doveva proclamare la giustizia per lottare contro l’eterna ingiustizia, creare un po’ di felicità per protestare contro un universo di infelicità. Lei invece si è ubriacato della sua disperazione e se ne è liberato erigendola a principio; ha acconsentito a distruggere le opere dell’uomo e a lottare contro di lui per rendere più completa la sua sostanziale miseria. Io, rifiutandomi di ammettere questa disperazione e questo mondo straziato, volevo semplicemente che gli uomini ritrovassero la solidarietà necessaria per lottare contro il loro orribile destino.


    Come vede, da un medesimo principio abbiamo tratto morali differenti. Lei, lungo la strada, ha abbandonato la lucidità e ha trovato più comodo (lei avrebbe detto: indifferente) che un altro pensasse per lei e per milioni di tedeschi. Eravate stanchi di lottare contro il cielo e vi siete riposati in questa avventura estenuante nella quale vi siete scelto il compito di mutilare le anime e di annientare la terra.
    Per dire tutto, avete scelto l’ingiustizia, vi siete messi dalla parte degli dei. La vostra logica era soltanto apparente.
    Io, al contrario, ho scelto la giustizia per restare fedele alla terra. Continuo a credere che questo mondo non abbia una finalità superiore. Ma so che in esso qualcosa ha un senso ed è l’uomo, perché è il solo essere vivente che esige di averlo. Questo mondo dunque ha, per lo meno, la verità dell’uomo e nostro dovere è di fornire all’uomo le ragioni per lottare contro il suo stesso destino. Non v’è altra ragione che l’uomo; è dunque lui che bisogna salvare se vogliamo salvare il concetto che ci si fa della vita.


    Il suo sorriso sprezzante mi dirà: “Cosa vuol dire salvare l’uomo?” Ma le rispondo, e con tutto me stesso lo grido, che salvare l’uomo significa non mutilarlo, significa concedere tutte le possibilità alla giustizia che l’uomo è il solo essere capace di concepire.
    Per questo stiamo lottando. Per questo abbiamo dovuto dapprima seguirvi per la strada che non era la nostra e in fondo alla quale, alla fine, abbiamo trovato la sconfitta: perché la vostra disperazione costituiva la vostra forza.


    Dal momento stesso in cui si ritrova sola, nuda, sicura di sé, spietata nella sua logica, la disperazione acquista una potenza senza misericordia. Così ci ha schiacciati mentre eravamo indecisi e avevamo ancora lo sguardo rivolto a immagini felici. Concepivamo la felicità come la conquista più grande, la conquista che si raggiunge a dispetto dello stesso destino che ci è imposto.

    Ma neppure nella sconfitta il rimpianto di essa ci lasciava.
    Voi, invece, avete fatto ciò che dovevate, noi siamo entrati nella Storia. E per cinque anni non è stato più possibile godere del canto degli uccelli nel fresco della sera. Si è dovuto per forza disperare.
    Eravamo isolati dal mondo perché ogni aspetto del mondo richiamava tutta una folla di immagini di morte. Da cinque anni, su questa terra, non ci sono più albe senza agonie, sere senza prigioni, meriggi senza massacri. Sì, abbiamo dovuto seguirvi. Ma il difficile della nostra impresa consisteva nel seguirvi scendendo in guerra, senza mai dimenticare la felicità. Così, in mezzo ai clamori e alla violenza tentavamo di conservare nel cuore il ricordo di un mare placido, di una collina indimenticabile, il sorriso di un volto caro. Era, infatti, la nostra arma migliore, quella che mai riporremo. Perché se un giorno la perdessimo, allora saremmo morti come voi.
    Semplicemente, oggi sappiamo che le armi della felicità esigono, per essere forgiate, molto tempo e troppo sangue.

    Abbiamo dovuto accettare la vostra filosofia, adattarci a somigliarvi un poco. Avevate scelto l’eroismo indiscriminato perché è il solo valore che resti in un mondo che ha perduto il suo significato. Avendo scelto l’eroismo per voi, l’avete scelto per tutti ed anche per noi.
    Siamo stati costretti a imitarvi per non morire. Ma ci siamo accorti allora che la nostra superiorità su di voi consisteva nell’avere una direzione. Ora che tutto sta per finire, possiamo dirvi cosa abbiamo imparato e cioè che l’eroismo è ben poca cosa, più difficile è la felicità.


    Ormai tutto deve esserle chiaro, così il fatto che siamo nemici. Lei è l’uomo dell’ingiustizia, che è la cosa al mondo che il mio cuore maggiormente detesta. Ma non era che una passione, adesso ne conosco le ragioni profonde. Vi combatto perché la vostra logica è criminale quanto il vostro cuore. E nell’orrore che ci avete prodigato per quattro anni la vostra ragione ha concorso in misura pari al vostro istinto. Per questo la mia condanna sarà assoluta: lei è già morto per me. Ma nel momento stesso in cui giudicherò la vostra atroce condotta, mi ricorderò che voi e noi siamo partiti dalla stessa solitudine, che voi e noi, insieme a tutta l’Europa, viviamo lo stesso dramma dell’intelligenza. A dispetto di voi stessi, vi conserverò il nome d’uomo. Per essere coerenti con la nostra fede, siamo costretti a rispettare in voi quello che voi non rispettate negli altri. Per molto tempo questo è stato il vostro immenso vantaggio, poiché uccidere con più facilità di noi. E fino alla fine dei tempi, noi, che non vi somigliamo, dovremo dare la nostra testimonianza affinché l’uomo riceva, al di sopra dei suoi peggiori errori, la giustificazione che gli spetta e il riconoscimento della sua innocenza.

    Ecco perché alla fine della lotta, dal grembo di questa città che ha preso volto d’inferno, al di sopra di tutte le torture inflitte ai nostri, nonostante i morti sfigurati e i villaggi orfani, posso dirle che, nel momento stesso in cui stiamo per distruggervi senza pietà, non abbiamo, però, odio alcuno contro di voi. E se anche domani, come molti altri, ci occorresse di morire, saremmo ancora senz’odio. Non possiamo garantire di non aver paura, tenteremo semplicemente di essere ragionevoli. Ma possiamo garantire di non odiare proprio nulla.
    E quanto alla sola cosa al mondo che oggi potrei detestare, le assicuro che siamo in regola con essa e vogliamo distruggervi nella vostra potenza, senza mutilarvi nell’anima.
    Il vantaggio che avevate su di noi, come vede, continuate ad averlo.
    Ma nasce proprio di qui la nostra superiorità. È grazie ad essa che questa notte mi è più leggera. La nostra forza è pensare come voi sull’abisso del mondo, non rifiutare nulla del dramma che è anche il nostro, ma nel tempo stesso tenere salva la nostra concezione dell’uomo sul limite estremo di questa sventura dell’intelligenza e poterne trarre l’infaticabile coraggio delle rinascite. Naturalmente l’accusa da noi lanciata al mondo non per questo è più leggera.

    Abbiamo pagato troppo cara questa nuova consapevolezza perché la nostra condizione cessi di apparirci disperata. Le centinaia di migliaia d’uomini assassinati all’alba, i muri tremendi delle prigioni, un’Europa dalla terra fumante di milioni di cadaveri che un tempo furono suoi figli: tutto questo ci è stato necessario per pagare l’acquisizione di due o tre sottili sfumature che forse serviranno soltanto ad aiutare alcuni di noi a morire meglio. Sì, la condizione è disperante. Ma dobbiamo dare prova di non meritare tanta ingiustizia.
    È l’impegno che abbiamo preso con noi stessi e che inizierà da domani.


    In questa notte d’Europa, percossa dal soffio dell’estate, milioni di uomini, armati o disarmati, si preparano al combattimento. Sta per sbocciare l’alba in cui sarete finalmente vinti. So che il cielo che fu indifferente alle vostre atroci vittorie lo sarà anche di fronte alla vostra giusta sconfitta. Neppure oggi mi aspetto qualcosa da esso. Ma almeno avremo contribuito a salvare la creatura umana dalla solitudine nella quale volevate relegarla.
    Per aver disprezzato la fedeltà dell’uomo, proprio voi, a migliaia, morirete in solitudine.
    Ora posso dirle addio.


    Albert Camus


    “Lettere a un amico tedesco”, Luglio 1944 – IV lettera

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