• Linguaggio e rappresentazione narrativa – “Il Logos era Dio e Dio era il Logos”

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    El-mito

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    Dal tentativo di spiegare la composizione dell’esistente si formò nei decenni un linguaggio concettuale, il Logos, che affrancandosi dalle immagini era in grado di descrivere il reale sterelizzando la narrazione dalle divinità immanenti che lo abitavano donandogli senso.

    di Gian Carlo Zanon

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    Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν καὶ ὁ λόγος ἦν θεὸς. οὗτος ἦν ἐν ἀρχῇ πρὸς τὸν θεόν πάντα ἐγένετο δι’ αὐτοῦ καὶ χωρὶς αὐτοῦ οὐδὲ ἕν ἐγένετο ὃ γέγονεν ἐν αὐτῷ ἦν ζωὴ καὶ ἡ ζωὴ ἦν τὸ φῶς τῶν ἀνθρώπων καὶ τὸ φῶς φαίνει ἐν τῇ σκοτίᾳ καὶ ἡ σκοτία οὐ κατέλαβεν αὐτὸ

     

    In principio c’era il logos e il logos stava presso Dio e Dio era il logos.  Lui stesso (il logos) in principio stava presso Dio. Tutto fu generato per mezzo di lui, (del Logos/Dio) e separatamente da lui non è stato creato un essere generato da se stesso. In lui  (Il Logos/Dio) era la vita e la vita era nella luce degli esseri umani, e la luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta.

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    Questa “insalatona di parole” con cui inizia l’Inno al Logos giovanneo, o se preferite il prologo al IV Vangelo, viene attribuito dalla tradizione cristiana a un certo Giovanni, così egli si presenta nel testo. Giovanni “a causa della parola di Dio” , tra la fine del I secolo e l’inizio del  II secolo a. C., vive in esilio nell’isola di Patmos. Lì, come mostrano persino le icone calamitate vendute nelle bancarelle dell’isola, egli, come accadrà poi a Maometto, viene raggiunto dalla voce di Dio ed egli sotto dettatura  detta a sua volta a uno scriba il testo del IV Vangelo canonico. E questa è la versione “più ragionevole” pensate a che livello stanno le altre.

     

    A me interessano poco le favolette cristiane, mi interessa invece molto l’impianto narrativo di questo testo in qui si possono intravedere le intenzionalità di chi scrisse.

    Il testo si misura direttamente con il pensiero dei primi filosofi della natura del VI – V sec. a.C., i Presocratici: e più precisamente con Talete, Anassimandro,  Anassimene, Eraclito  e Democrito che per primi pensarono all’arché (ἀρχῇ) cioè a quel principio di tutte le cose e che tutte le cose muove nel suo divenire di cui parla Giovanni.

     

    Secondo Giovanni non sono l’acqua, o il fuoco, o l’aria o gli atomi, o qualsiasi altra cosa naturale, quantificabile e misurabile, che dà inizio a ciò che esiste, perché “In principio era il logos” , dice l’Inconoscibile a Giovanni, che lesto fa trascrivere allo scriba.

    È chiaro che questo testo si nutre della koinè culturale del suo tempo quindi:

    sia della teologia ebraica, a sua volta già contaminata dal cristianesimo;

    sia del nascente cristianesimo, ancora alla ricerca di una codificazione che avverrà più di due secoli dopo (325 d.C. con il “Simbolo niceno-costantinopolitano”);

    sia della filosofia platonica.

    Tutte e tre le correnti teo/filosofiche danno alla parola/Logos il primato sulla realtà. L’autore o gli autori dell’Inno al logos, uniscono le due onnipotenze e ne fanno una sola: e Dio era il Logos”.  Nessuno lo aveva fatto prima di Giovanni.

     

    Assumendo per valido questo concetto religioso, i nomi con cui si indica l’esistente e la realtà non sono conseguenti ad essa ma la generano, la creano ex nihilo, dal nulla. Giovanni lo può dire senza temere che l’evocazione del nulla possa generare angoscia perché l’incarnazione del Dio-Logos nel mitico Gesù di Nazareth rassicura il credente sulla sua stessa esistenza materiale e terrena e calma l’angoscia generata dall’essere generato dal nulla e di poter tornare al nulla se per caso il nome che lo identifica come esistente dovesse scomparire.

    I riti post nascita servono a certificare con un nome l’esistenza del neonato. Le tracce storiche esistenti nei miti ci dicono che e al neonato non veniva dato un nome, egli non esisteva o perlomeno non veniva pensato come appartenente  genere umano e quindi poteva essere soppresso come un animale. Anche in questo caso è il nome che certifica l’esistenza, come se il neonato nascesse solo nel momento in cui, durante il rito, viene nominato per la prima volta. Il battesimo cristiano affonda le sue radici nei riti antichi dell’oikos patriarcale e ancor oggi il capo della chiesa cattolica asserisce che « Non è lo stesso, un bambino battezzato o un bambino non battezzato: non è lo stesso. Non è lo stesso una persona battezzata o una persona non battezzata. » Secondo questo delirio religioso, nominare l’esistente quindi crea l’esistenza.

     

    Da quando esiste il pensiero religioso c’è stata sempre una continuità di pensiero verbalizzato in forma mitopoietica evocatrice di immagini.  I passaggi dall’animismo magico al politeismo e dal politeismo al monoteismo sono abbastanza semplici, tant’è vero che ancor oggi nel monoteismo cristiano il sincretismo religioso è endemico.  Le religioni si sono trasformate seguendo varie strade che mano a mano venivano indicate da chi deteneva il potere religioso e/o secolare perché sono instrumentum regni. Sono mutate giungendo fino a noi perché esse sono per loro natura funzionali alla società che le ospita, le difende, e ci si identifica.

    Si sono “evolute” ma hanno mantenuto la loro fondamentale caratteristica: filtrare la percezione del reale attraverso le lenti appannate dalla credenza che fa di ciò che è, ciò che non è, e di ciò che non è, ciò che è. La credenza religiosa crea una visione distorta dell’esistente. È una “visione” che informa il pensiero sui dati di una realtà deformata. Credere che un feto sia un essere umano vivente con un pensiero formato, capace di quelle percezioni sensoriali che apparteranno solo al neonato nonostante la scienza affermi il contrario, non è un pensiero, è una credenza religiosa.

    Se è vero che nei millenni c’è stato un continuum nel pensiero religioso – che ha mutato le forme ma non i contenuti fondamentali che hanno sempre condizionato la cultura fino al punto d’essere identificato con essa –  è anche vero che c’è stato un brevissimo momento in cui le migliori menti esistenti, in un dato momento storico, hanno provato ad affrancarsi dalla cultura mitico-religiosa per cercare di narrare il tà ónta  l’esistente, ciò che esiste.

    Come dicevo pocanzi in un periodo che va dal VI secolo A. C. al IV secolo a. C. nel pensiero filosofico avviene una grossa cesura. È un tentativo di affrancarsi dalla narrazione mitica legata a varie cosmogonie e teogonie leggendarie che interpretavano religiosamente la nascita del Cosmo, l’esistente, e il suo divenire.

     

    Dallo sforzo di spiegare la composizione dell’esistente si formò un linguaggio concettuale, il Logos, che affrancandosi dalle immagini era in grado di descrivere il reale depurando la narrazione dalle divinità immanenti che lo abitavano, donandogli senso. Il pensiero con i filosofi della natura diviene “scientifico” ed esce dalle spire del pensiero religioso, che pervade la narrazione della realtà, e dal linguaggio mitologico. In realtà quello che succede in circa tre secoli di storia del pensiero è il tentativo, fallito, di giungere all’epistéme, vale a dire alla verità certa della realtà. Ricerca che si trasformerà, poi con la reazione di Platone che farà distruggere i testi degli atomisti, in negazione della realtà stessa.

    Ma in quei primi incerti passi ai primi filosofi dalla natura, per affrancarsi dal pensiero animista, che non faceva distinzione tra nome, divinità e contenuto dell’oggetto, serviva un pensiero/ragione/logos e un conseguente linguaggio articolato in grado di astrarsi dal contenuto invisibile della realtà popolata dagli spiriti che la animavano e dalla semantica religiosa. Ma per far questo gettarono l’acqua sporca con il bambino dentro. In questo modo tolsero il contenuto alla realtà, anche quello interno alla realtà dell’essere umano. Il pensiero, “bonificato dagli dei” che nel pensiero animista rappresentavano il contenuto ontologico di ogni particella di realtà, divenne arido e, grazie a Platone, che per primo parlò di un Demiurgo,  pericolosamente esposto all’attrazione del “pianeta” monoteista.

    Nel Timeo Platone afferma che senza il Demiurgo, «è impossibile che ogni cosa abbia nascimento». Giovanni, cinque secoli dopo, ripete le stesse parole:  «e separatamente da lui non è stato creato un essere generato da se stesso.» Forse il Demiurgo platonico non ha esattamente le stesse caratteristiche del dio monoteista perché non genera propriamente dal nulla, ma da una materia caotica e ingenerata preesistente che egli “organizza” in un sistema cosmologico ben ordinato. Inoltre come farà il dio monoteista con Adamo, il Demiurgo dà a questo sistema cosmico il soffio vitale. Chiaramente il pensiero di Platone nei confronti del pensiero dei filosofi della natura è involutivo perché torna a un en arché (ἀρχῇ) cioè a un “in principio”, a una ipotesi cosmogonica religiosa utilizzando la narrazione mitica ma lo fa attraverso la forma dialogica del Logos che non attinge alla realtà ma la crea e questo perché, come dirà poi Giovanni, senza il Logos, nulla può essere.

    Il linguaggio di Platone, fatte le dovute differenze, è lo stesso della Bibbia, codificato un secolo dopo, che viene usato per narrare miti e leggende della tradizione ebraica ma non più nella loro forma mitopoietica originaria ma utilizzando il Logos.

    Il Logos che prende forma per affrancarsi dal  mito, cade nelle mani della ragione astratta che riporta il pensiero nella mani della religione.

    Ma, intendiamoci, il logos non è mai stato in grado di narrare in contenuto ultimo delle cose, cioè la realtà inorganica del pensiero che nasce dalla materia organica quando a questa è raggiunta dalla luce: luce-materia=pensiero (1)  . Il logos dei presocratici può narrare dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, può spiegare le cause  del movimento degli oggetti nello spazio fino alle impalpabili onde magnetiche, ma quando deve parlare del desiderio non può che mentire parlando di chimica e di biologia, o astrarsi fino all’incongruenza semantica … come fa Massimo Recalcati quando nelle sue lezioni universitarie parla, hai noi,  del “desiderio della mancanza”… come se nominando “la mancanza” questa potesse esistere ed essere persino desiderabile.

    8 aprile 2016

    NOTE

    (1) Mi riferisco alla scoperta dello psichiatra Massimo Fagioli che è stata sintetizzata in questo modo: luce + materia = pensiero.

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