• Camus “pied noire” : Intervista a Catherine figlia dello scrittore algerino

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    … mio padre: solitaire, solidaire

    Catherine Camus

    in conversazione con Andrea Bianchi e Anna Sansa*

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    Nella casa di Lourmarin, in Provenza, che il padre acquistò con il denaro del Nobel per la letteratura, Catherine Camus, da anni impegnata nella pubblicazione degli inediti del grande scrittore, ne passa in rassegna diversi aspetti del pensiero e della personalità: il doloroso  isolamento dall’ambiente intellettuale parigino, la “volontà di parlare per coloro che non possono farlo da soli”, l’impegno contro ogni totalitarismo e il rifiuto della neutralità, la vocazione ‘mediterranea’ e la nostalgia per il sole d’Algeria, il legame con la natura.

     

    Enfants

    Catherine Camus in conversazione con Andrea Bianchi e Anna Sansa

    Nel 1957, ad Albert Camus viene assegnato il premio Nobel per la letteratura; ha 44 anni ed è, dopo Kipling, il più giovane vincitore. Tale consacrazione gli giunge nel pieno di un periodo molto difficile, in cui è massimo il suo isolamento all’interno dell’establishment intellettuale francese. Le sue posizioni di sinistra libertaria, egualmente rigorose nell’avversare l’ipocrisia e l’ingiustizia borghesi e nel denunciare le mistificazioni del socialismo «cesariano» e totalitario dei paesi dell’Est, gli valgono duri attacchi da destra e da sinistra. Pochi anni prima, nel ’52, la pubblicazione di L’uomo in rivolta, in cui contrappone all’idolatria del fatto e del successo, fondata in ultima analisi su di un nichilismo morale e sulla negazione dell’individuo, propria dei sostenitori dei regimi della «sinistra poliziesca», la sua difesa di una sinistra eretica ed il suo ideale di rivolta libertaria («Mi rivolto, dunque siamo»), era stata all’origine della celebre polemica e della rottura con il gruppo di Les Temps Modernes, guidato da Jean Paul Sartre, allora compagnon de route del Pcf. Le sue prese di posizione ed i suoi sofferti silenzi sulla guerra d’Algeria, che è per lui una ferita dolorosa e lacerante, ne acuiscono la solitudine.

    Sono lontani i giorni dell’immediato dopoguerra, in cui Camus era stato, agli occhi dei suoi compatrioti, per usare le parole dello stesso Sartre «l’ammirevole congiunzione di una persona, di un’azione e di un’opera». Il cartesiano dell’assurdo, l’autore dello Straniero e del Mito di Sisifo era anche l’eroe della Resistenza, il direttore di Combat, che, nelle Lettere a un amico tedesco, aveva fornito le più limpide ragioni alla lotta contro il nazismo. In pochi anni, le sue posizioni eretiche, nel clima della guerra fredda, hanno portato Camus dalla gloria al quasi totale isolamento. Certo, fuori dalla Francia la situazione è diversa e Hannah Arendt, al cui pensiero politico lo legano profonde affinità, manifesta la propria ammirazione per L’uomo in rivolta. Ma, a Parigi, Camus si sente in esilio. Un esilio intellettuale, per l’inattualità della sua difesa intransigente della tradizione libertaria e dell’autonomia del fatto morale (di una morale dell’assurdo), in piena guerra fredda, quando gli intellettuali engagés sacrificano all’idolo del realismo politico; ma anche un esilio sociale, per la sua condizione atipica di intellettuale di origine pied noir e proletaria, per ciò stesso alieno dai torbidi sensi di colpa alla base della cecità di tanti suoi colleghi di estrazione borghese di fronte ai crimini dello stalinismo.

    Tale sensazione di esilio prende la forma, sul piano esistenziale, di una nostalgia della patria perduta, di quel Mediterraneo nella cui civiltà Camus individua l’ideale di una misura che non è affatto il contrario della rivolta, ma l’antidoto alla dismisura delle ideologie che, in nome di ipostasi vecchie o nuove – ultima la Storia – asserviscono e sacrificano il singolo individuo, nella sua concretezza e finitudine. Nel ’58, con il denaro del Nobel, Camus acquista una casa nel delizioso villaggio di Lourmarin, in Provenza, regione che ha imparato ad amare anche grazie alla frequentazione di René Char, l’amico poeta in cui riconosce molte affinità, dall’impegno nella Resistenza alle posizioni anticonformiste del dopoguerra. In questo paesaggio, dove ritrova la luce e i colori d’Algeria, inizia la stesura di Il primo uomo, il romanzo in cui vuole ritrarsi a tutto tondo, partendo dalle proprie radici, nel modo più autentico possibile, e che lascerà incompleto.

    È tornando da Lourmarin a Parigi che Camus, nel 1960, muore in un incidente d’auto. Ora, nella casa di Lourmarin, modesta e quasi spoglia, ma con una splendida vista sulle colline del Luberon, vive la figlia Catherine, che da anni cura la pubblicazione degli inediti di Camus; è lì che l’abbiamo incontrata. I tratti del viso e il sorriso sono quelli paterni, così come la cortesia e semplicità dei modi; l’attenzione estrema a non sovrapporre le proprie interpretazioni al pensiero del padre e lo scrupolo d’autenticità sono in linea con la lezione di chi riteneva che la libertà – e il dovere – di uno scrittore consistano soprattutto nel non mentire.

    È probabile che Albert Camus abbia scelto di acquistare una casa qui a Lourmarin perché ha trovato in questo paesaggio una luce che gli ricordava quella della sua infanzia, dell’Algeria, gli stessi colori del Mediterraneo, ha voluto in qualche modo ritornare alle origini, ritrovare quello di cui a Parigi soffriva l’assenza, non è vero?

    In effetti a Lourmarin si trova una luce particolare. «Qui», diceva sempre, «dietro le montagne c’è il mare».

    È un paesaggio che ricorda quello della Toscana, sulla quale ha scritto pagine meravigliose.

    La Toscana, l’Algeria, il Mediterraneo, insomma. Era profondamente mediterraneo.

    Era legato a questi luoghi anche attraverso amici molto importanti, come Jean Grenier e René Char.

    René Char, sì, era molto radicato in Provenza, in Vaucluse. Jean Grenier era venuto al castello e aveva scritto un breve testo, in cui descrive Lourmarin, che s’intitola Cum apparuerit, che non si trova più e fa parte delle pubblicazioni del castello.

    C’erano luoghi dei dintorni che Albert Camus amava in modo particolare? Credo che fosse solito passeggiare con René Char nella foresta di cedri, vero?

    Nella foresta di cedri, mi stupirebbe. Faceva il giro della conca di Lourmarin, il mattino presto, prima di iniziare a lavorare, ma non è restato a lungo.

    Un anno e mezzo, penso.

    Appena, perché ha fatto fare dei lavori alla casa, l’ha arredata, ha scelto tutto personalmente: le tende, i letti, le lenzuola…

     

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    È vero che amava delle case molto semplici, un po’… Un po’ austere. Un po’ austere, spagnole; è ancora così?

     L’ho resa un po’ più confortevole, ma non da molto. Suppongo sia perché sono stata educata da lui, per cui il lusso, il superfluo sono quasi…. un peccato, ad ogni modo non valgono la pena.

     Ci sono molte persone, molti lettori che vengono qui a Lourmarin a vedere la casa che aveva scelto e la sua tomba?

     Sì, vengono a vedere la casa dall’esterno perché non è in visita, conservo un angolino per me e i miei figli e nipoti, poi vanno al cimitero. Vengono da tutto il mondo, ci sono molti coreani, molti giapponesi…

     È vero che aveva il biglietto del treno, ma è partito in auto su insistenza di Michel Gallimard?

    Sì, a Michel non poteva rifiutare niente. Perché Michel Gallimard era una persona adorabile, veramente adorabile.

     Camus diceva che vi erano due luoghi in cui si sentiva particolarmente a suo agio, lo stadio e il teatro. Ha davvero finanziato la squadra di calcio locale?

    Paghiamo ancora una quota alla squadra locale, le JSL, è una tradizione Camus. Ha offerto delle maglie nuove a ogni giocatore. Andava a tutti gli incontri, quando era a Lourmarin, e aveva accese dispute con il pescivendolo di Bonnieux!

    Ha iniziato qui Il primo uomo?

    Penso lo avesse cominciato prima, ma, in effetti, lo ha praticamente scritto tutto qui, seduto in terrazza, stando ai racconti di M.me Ginoux, la donna che lo aiutava nelle faccende domestiche.

    Il periodo in cui ottenne il Nobel fu piuttosto difficile, si sentiva molto isolato negli ambienti intellettuali parigini dopo la rottura con Sartre e Les Temps Modernes. In più era appena iniziata la guerra in Algeria e credo cercasse a Lourmarin la pace e le energie per completare questo romanzo, che contava molto per lui. Leggendo i Taccuini degli anni Cinquanta, si vede che erano per lui anni alquanto duri.

    Sì, erano duri, era molto solo, molto isolato. C’erano delle ragioni politiche, perché Camus ha sempre affermato che era di sinistra, un uomo di sinistra «all’antica». Diceva: «Sono di sinistra malgrado lei e malgrado me». Comunque di sinistra, quindi per la gente di destra era sempre troppo a sinistra; per la sinistra, denunciare i gulag significava tradire l’ideologia, quindi essere l’alleato oggettivo della destra. Era inoltre uno dei rari scrittori francesi che non erano nati borghesi, e questo nei suoi rapporti con l’intelligencija parigina costituiva un problema centrale. Veniva dal Sud, dalla periferia di Algeri, con quell’aria un po’ «canaglia», troppo persino per dei borghesi di sinistra che amavano molto incanaglirsi. All’epoca, la maggior parte degli intellettuali francesi veniva dall’École normale, erano dei professori o, ad ogni modo, salvo Genet e Guilloux, dei borghesi, che avevano avuto tutto fin dalla nascita. Invece è proprio dall’origine sociale di Camus (sua madre era analfabeta) che deriva il suo profondo rispetto della lingua francese.

    Prima di tutto, perché non ne aveva ricevuto la padronanza per nascita, aveva dovuto acquisirla con fatica. Poi, da scrittore, rivolgendosi ai suoi lettori, non voleva in alcun modo ingannarli. Era quindi molto attento alle parole che usava. E questa attenzione derivava dall’ambiente sociale in cui, a differenza di quasi tutti gli intellettuali francesi, era cresciuto. In terzo luogo, era un mediterraneo. Occorre ricordare che allora, e anche a lungo successivamente, la Francia voltava la schiena al Mediterraneo. Italia e Spagna erano ancora paesi arretrati e i francesi erano più affascinati dal Nord, dall’Inghilterra, dalla Germania. Camus, invece, era profondamente mediterraneo. D’altronde, c’è un bel testo in cui dice che l’Europa ritornerà ad abbeverarsi alle sorgenti del Mediterraneo. Questi tre aspetti erano, ritengo, alla base della sua solitudine. E poi, per un mediterraneo, un’offesa è un’offesa, tradire un’amicizia è tradire un’amicizia. Se uno ti offende pubblicamente, il rapporto si chiude. Negli ambienti parigini, tu insulti qualcuno oggi e vai a cena con lui domani. Ma mio padre non era così, per lui l’amicizia era sacra e non intendeva venirle meno.

    .

    Conobbe un periodo di autentica gloria parigina alla fine della guerra, anche perché aveva avuto un ruolo importante nella Resistenza, in particolare come caporedattore del giornale Combat, mentre, pochi anni dopo, era del tutto isolato…

    .

    Sì, in più i suoi libri avevano avuto grande successo. Imperdonabile, soprattutto quando si è cresciuti nella periferia malfamata di Algeri, mediterraneo e povero.

    E anche «pied noir»…

    .

     Eh sì, bisogna saper stare al proprio posto…

    .

     Dunque negli anni Cinquanta si volse di nuovo verso il Mediterraneo, soprattutto grazie alla sua amicizia con René Char, che è stato probabilmente il suo ultimo vero amico, non è così?

    .

    Ah no, c’era Guilloux; Louis Guilloux è molto importante. Per quanto riguarda René Char, nella bellissima corrispondenza fra lui e Camus, si può vedere che fra loro c’era una splendida amicizia, non molto frequente fra intellettuali famosi. C’era Char, c’era Guilloux, c’era un amico di Algeri che si chiamava Robert Jusseaux, da Gallimard c’era Brice Parain. Anche se è vero che era abbastanza solo, era pur sempre circondato dal Mediterraneo, non ha mai potuto separarsene. A Parigi si sentiva in esilio.

     Nei Taccuini ci sono delle splendide pagine sull’Italia.

    Oh, magnifiche, ad esempio su Siena: «Vorrei ritornare a morire fra quegli italiani che amo…».

    Sì, anche quando scrive che a Firenze ha capito per la prima volta che al fondo della sua rivolta c’era un consenso. Ha visitato le regioni d’Italia che suo padre amava particolarmente? Conosce l’Italia?

    Sì, conosco l’Italia: naturalmente sono stata a Firenze, a Venezia, a Milano, a Roma, a Napoli, ma sempre invitata da un regista, perché si rappresentavano delle pièces di Camus. A Roma sono stata anche a Villa Medici per l’uscita di Il primo uomo. Ho poi fatto un viaggio con amici sulle tracce di Piero della Francesca (San Sepolcro, Arezzo) e ho imparato l’italiano così, ascoltandolo, la sera guardavo la Rai per imparare questa lingua così bella, così dolce, così musicale, la adoro.

    Torniamo al periodo del Nobel che è stato per lui, mi sembra, molto difficile da sostenere; era lacerato, c’erano state numerose polemiche, probabilmente temeva che la sua opera fosse considerata ormai compiuta. Quando ha saputo di aver vinto il Nobel ha avuto una crisi profonda.

    Credo che questo riconoscimento l’abbia angosciato molto, ma potrei anche sbagliarmi, d’altro canto ci tengo a precisare che non possiedo delle verità su Camus.

    Penso comunque che debba essere molto difficile vivere una vita tanto lontana dalle proprie origini, non solo dal proprio paese, ma dalla propria origine familiare: persone che non sanno né leggere né scrivere. Il Nobel segnava una differenza abissale e credo ne abbia sofferto. Il primo uomo è un libro con cui voleva ritrovare le sue radici, probabilmente resta sempre in noi qualcosa dell’infanzia. Nei Taccuini, esprime le sue inquietudini, tutti i suoi dubbi, credo fosse molto angosciato, ma, se occorre trovare una ragione per questo, penso sia lo scarto enorme fra la sua situazione e le sue radici. Io ho conosciuto mia nonna, il mio prozio, non avevano proprio nulla a che fare con tutto questo.

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    È vero che amava delle case molto semplici, un po’… Un po’ austere. Un po’ austere, spagnole; è ancora così?

     L’ho resa un po’ più confortevole, ma non da molto. Suppongo sia perché sono stata educata da lui, per cui il lusso, il superfluo sono quasi…. un peccato, ad ogni modo non valgono la pena.

     Ci sono molte persone, molti lettori che vengono qui a Lourmarin a vedere la casa che aveva scelto e la sua tomba?

     Sì, vengono a vedere la casa dall’esterno perché non è in visita, conservo un angolino per me e i miei figli e nipoti, poi vanno al cimitero. Vengono da tutto il mondo, ci sono molti coreani, molti giapponesi…

     È vero che aveva il biglietto del treno, ma è partito in auto su insistenza di Michel Gallimard?

    Sì, a Michel non poteva rifiutare niente. Perché Michel Gallimard era una persona adorabile, veramente adorabile.

     Camus diceva che vi erano due luoghi in cui si sentiva particolarmente a suo agio, lo stadio e il teatro. Ha davvero finanziato la squadra di calcio locale?

    Paghiamo ancora una quota alla squadra locale, le JSL, è una tradizione Camus. Ha offerto delle maglie nuove a ogni giocatore. Andava a tutti gli incontri, quando era a Lourmarin, e aveva accese dispute con il pescivendolo di Bonnieux!

    Ha iniziato qui Il primo uomo?

    Penso lo avesse cominciato prima, ma, in effetti, lo ha praticamente scritto tutto qui, seduto in terrazza, stando ai racconti di M.me Ginoux, la donna che lo aiutava nelle faccende domestiche.

    Il periodo in cui ottenne il Nobel fu piuttosto difficile, si sentiva molto isolato negli ambienti intellettuali parigini dopo la rottura con Sartre e Les Temps Modernes. In più era appena iniziata la guerra in Algeria e credo cercasse a Lourmarin la pace e le energie per completare questo romanzo, che contava molto per lui. Leggendo i Taccuini degli anni Cinquanta, si vede che erano per lui anni alquanto duri.

    Sì, erano duri, era molto solo, molto isolato. C’erano delle ragioni politiche, perché Camus ha sempre affermato che era di sinistra, un uomo di sinistra «all’antica». Diceva: «Sono di sinistra malgrado lei e malgrado me». Comunque di sinistra, quindi per la gente di destra era sempre troppo a sinistra; per la sinistra, denunciare i gulag significava tradire l’ideologia, quindi essere l’alleato oggettivo della destra. Era inoltre uno dei rari scrittori francesi che non erano nati borghesi, e questo nei suoi rapporti con l’intelligencija parigina costituiva un problema centrale. Veniva dal Sud, dalla periferia di Algeri, con quell’aria un po’ «canaglia», troppo persino per dei borghesi di sinistra che amavano molto incanaglirsi. All’epoca, la maggior parte degli intellettuali francesi veniva dall’École normale, erano dei professori o, ad ogni modo, salvo Genet e Guilloux, dei borghesi, che avevano avuto tutto fin dalla nascita. Invece è proprio dall’origine sociale di Camus (sua madre era analfabeta) che deriva il suo profondo rispetto della lingua francese.

    Prima di tutto, perché non ne aveva ricevuto la padronanza per nascita, aveva dovuto acquisirla con fatica. Poi, da scrittore, rivolgendosi ai suoi lettori, non voleva in alcun modo ingannarli. Era quindi molto attento alle parole che usava. E questa attenzione derivava dall’ambiente sociale in cui, a differenza di quasi tutti gli intellettuali francesi, era cresciuto. In terzo luogo, era un mediterraneo. Occorre ricordare che allora, e anche a lungo successivamente, la Francia voltava la schiena al Mediterraneo. Italia e Spagna erano ancora paesi arretrati e i francesi erano più affascinati dal Nord, dall’Inghilterra, dalla Germania. Camus, invece, era profondamente mediterraneo. D’altronde, c’è un bel testo in cui dice che l’Europa ritornerà ad abbeverarsi alle sorgenti del Mediterraneo. Questi tre aspetti erano, ritengo, alla base della sua solitudine. E poi, per un mediterraneo, un’offesa è un’offesa, tradire un’amicizia è tradire un’amicizia. Se uno ti offende pubblicamente, il rapporto si chiude. Negli ambienti parigini, tu insulti qualcuno oggi e vai a cena con lui domani. Ma mio padre non era così, per lui l’amicizia era sacra e non intendeva venirle meno.

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    Conobbe un periodo di autentica gloria parigina alla fine della guerra, anche perché aveva avuto un ruolo importante nella Resistenza, in particolare come caporedattore del giornale Combat, mentre, pochi anni dopo, era del tutto isolato…

    Sì, in più i suoi libri avevano avuto grande successo. Imperdonabile, soprattutto quando si è cresciuti nella periferia malfamata di Algeri, mediterraneo e povero.

    E anche «pied noir»…

     Eh sì, bisogna saper stare al proprio posto…

     Dunque negli anni Cinquanta si volse di nuovo verso il Mediterraneo, soprattutto grazie alla sua amicizia con René Char, che è stato probabilmente il suo ultimo vero amico, non è così?

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    Ah no, c’era Guilloux; Louis Guilloux è molto importante. Per quanto riguarda René Char, nella bellissima corrispondenza fra lui e Camus, si può vedere che fra loro c’era una splendida amicizia, non molto frequente fra intellettuali famosi. C’era Char, c’era Guilloux, c’era un amico di Algeri che si chiamava Robert Jusseaux, da Gallimard c’era Brice Parain. Anche se è vero che era abbastanza solo, era pur sempre circondato dal Mediterraneo, non ha mai potuto separarsene. A Parigi si sentiva in esilio.

     Nei Taccuini ci sono delle splendide pagine sull’Italia.

    Oh, magnifiche, ad esempio su Siena: «Vorrei ritornare a morire fra quegli italiani che amo…».

    Sì, anche quando scrive che a Firenze ha capito per la prima volta che al fondo della sua rivolta c’era un consenso. Ha visitato le regioni d’Italia che suo padre amava particolarmente? Conosce l’Italia?

    Sì, conosco l’Italia: naturalmente sono stata a Firenze, a Venezia, a Milano, a Roma, a Napoli, ma sempre invitata da un regista, perché si rappresentavano delle pièces di Camus. A Roma sono stata anche a Villa Medici per l’uscita di Il primo uomo. Ho poi fatto un viaggio con amici sulle tracce di Piero della Francesca (San Sepolcro, Arezzo) e ho imparato l’italiano così, ascoltandolo, la sera guardavo la Rai per imparare questa lingua così bella, così dolce, così musicale, la adoro.

    Torniamo al periodo del Nobel che è stato per lui, mi sembra, molto difficile da sostenere; era lacerato, c’erano state numerose polemiche, probabilmente temeva che la sua opera fosse considerata ormai compiuta. Quando ha saputo di aver vinto il Nobel ha avuto una crisi profonda.

    Credo che questo riconoscimento l’abbia angosciato molto, ma potrei anche sbagliarmi, d’altro canto ci tengo a precisare che non possiedo delle verità su Camus.

    Penso comunque che debba essere molto difficile vivere una vita tanto lontana dalle proprie origini, non solo dal proprio paese, ma dalla propria origine familiare: persone che non sanno né leggere né scrivere. Il Nobel segnava una differenza abissale e credo ne abbia sofferto. Il primo uomo è un libro con cui voleva ritrovare le sue radici, probabilmente resta sempre in noi qualcosa dell’infanzia. Nei Taccuini, esprime le sue inquietudini, tutti i suoi dubbi, credo fosse molto angosciato, ma, se occorre trovare una ragione per questo, penso sia lo scarto enorme fra la sua situazione e le sue radici. Io ho conosciuto mia nonna, il mio prozio, non avevano proprio nulla a che fare con tutto questo.

    Sua nonna paterna è stata una figura molto importante per Camus, ha dei ricordi di lei?

    Sì, era deliziosa. La difficoltà era far comprendere che qualcuno che è analfabeta non è per questo un idiota. Semplicemente, non aveva le parole. Era intelligente, parlava molto con le mani, aveva delle parole, ma parlava soprattutto con i gesti.

    Era spagnola?

    Di origine spagnola, di Minorca, ma era nata in Algeria. Soprattutto, credo che non sapesse nemmeno cosa fosse la malvagità. Perché era davvero perfettamente, totalmente innocente. Quando ero bambina, avevo paura che le si facesse del male.

    Avevo paura per lei, perché era fine, delicata, senza difese. E per questo penso che sia stata preoccupazione costante di Camus parlare per coloro che non ne hanno la possibilità.

    Viveva in Algeria anche dopo l’indipendenza?

    È morta nove mesi dopo mio padre.

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    È con il denaro del premio Nobel che Camus ha acquistato la casa di Lourmarin?

    Ah sì, almeno qualcosa di positivo del premio. Aggiungo che, ad ogni modo, era un artista e un artista ha bisogno di essere conosciuto e, in questo senso, il Nobel è la consacrazione suprema per uno scrittore. Se non ci fosse una certa soddisfazione nell’essere conosciuto, non ci sarebbe il problema cui accennavo prima riguardo alla distanza dalle origini. Il problema è questo, ed era davvero una consacrazione incredibile, era molto giovane.

    Il più giovane vincitore dopo Kipling.

    Sì. Aveva quarantaquattro anni.

    Nella prefazione alla seconda edizione di Il rovescio e il dritto, Camus scrisse che ciò che desiderava di più era trovare un perfetto equilibrio fra ciò che era e ciò che scriveva, scrivere soltanto tutta la verità. Paragonando i suoi ricordi con la lettura delle opere di suo padre, trova che sia riuscito a esprimere quella verità totale della sua vita, che ricercava?

    Dovrei credere che sia possibile esprimere una verità totale, che la si possa individuare e che sia statica. E io penso che mio padre non avesse una tale idea della verità, ma che ritenesse la verità cangiante e in movimento. Un essere evolve, con l’età, con gli incontri, le situazioni sociali. Non penso fosse una verità totale quella che cercava. Voleva soprattutto una cosa: non mentire, perché pensava che la menzogna sia mortifera e credo avesse ragione. La menzogna, in Camus, è la morte. È per questo che, nella pièce Il malinteso, il figlio muore, ucciso da sua sorella e sua madre, perché aveva mentito. Non ha mai detto loro chi era. Lo uccidono perché non lo riconoscono. Penso che oggi si menta troppo, a se stessi e agli altri, in Occidente, e lo pagheremo molto caro. Quello che posso dire è che l’uomo che ho conosciuto era uguale a quello che esprimeva il suo pensiero nei libri che scriveva. Era lo stesso.

    Quando lo ha letto la prima volta? Aveva letto già qualcosa prima della sua morte?

    Quando era vivo ho letto Caligola.

    Poi ha aspettato anni?

    No, sei mesi dopo la sua morte ho letto La peste, ma mi ha fatto troppo male. Dopo ho letto tutto a diciassette anni. Quando è morto ne avevo quattordici.

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    Esiste un libro in cui riconosce la sua voce in un modo che la tocca particolarmente?

    È difficile dirlo: nei suoi libri colgo la sua musica, vale a dire che, in situazioni assolutamente impensabili, lo riconosco, dico: «Questo è di Camus». Una volta è stato davvero incredibile, durante una trasmissione su TF1, tra mezzogiorno e l’una, colgo al volo una frase detta da un uomo e d’istinto penso che è di Camus. Subito mi sono detta: «Devo smettere un po’ di lavorare, questa è paranoia totale, sono malata». Ma una donna ha risposto all’uomo chiedendo: «Bello questo concetto. Di chi è?» e lui: «È di Camus ». Sono rimasta molto colpita. In ognuno dei suoi libri c’è qualcosa di lui, dovunque lo ritrovo, è sempre presente. Non posso dire ci sia un testo in particolare. Personalmente, amo molto i Discorsi di Svezia e adoro La caduta.

    Trovo che La caduta sia perfetto.

    Perché ha deciso di curare la pubblicazione di Il primo uomo una quindicina d’anni fa? E perché ha atteso tanto prima di pubblicarlo?

    Prima di tutto perché avevo quattordici anni quando è morto e non avevo voce in capitolo. Mia madre ha chiesto agli amici di papà (Robert Gallimard, Jean Grenier, René Char eccetera), tutti erano contrari a pubblicarlo perché era solo un abbozzo. E siccome per denigrarlo si diceva che era uno scrittore finito, il testo incompiuto poteva fornire nuovi argomenti ai detrattori. Penso che a mia madre sia rimasta questa paura. È morta nel ’79, e per tutti era evidente che io avrei dovuto occuparmi dell’opera di mio padre. Per tutti tranne che per me; ma, alla fine, ho imparato il mestiere. Quando io ho ripreso in mano l’opera un anno dopo, il pensiero dominante era sempre lo stesso: Camus era un boy-scout con una morale da Croce Rossa. Faccio questo lavoro da trent’anni, con umiltà e ostinazione, è un lavoro enorme e non mi riesce mai di staccare. Quando ho riletto Il primo uomo mi sono detta che era sconvolgente e che bisognava pubblicarlo, perché per me Il primo uomo è una sorta di libro di liberazione totale, come se Camus dicesse: «Ecco chi sono veramente».

    È un libro molto lirico, molto sensuale. Per dire chi è, dice da dove viene. Secondo me è un libro davvero importante e, anche se era ben lungi dall’averlo terminato, dato che pensava a un’opera dalle 600 alle 800 pagine, vi si possono ritrovare i segni del suo impegno e il suo stile di scrittura tutto intero. Quel miscuglio di sensualità e austerità, la volontà di parlare per coloro che non possono farlo da soli. Mi sembra, osservando lo stile di Il primo uomo, che assomigli moltissimo a ciò che era lui come uomo, lo ricorda davvero molto. Comunque, quando il libro è uscito, ho avuto paura per lui, perché non avrei potuto difenderlo, non potevo parlare, ero l’ultima persona a poter dire qualcosa.

    E lei sente ancora dei legami con le radici algerine?

    Ah, certo, l’Africa, sì. Da là viene il mio lato selvaggio. L’Algeria, l’Africa, quella sorta di soffio nella schiena, quella selvatichezza, che trovo tuttavia meno pericolosa della ferocia che s’incontra a volte a Parigi.

    Perdere suo padre a quattordici anni, quando era uno scrittore così conosciuto, le ha mai dato l’impressione di essere obbligata a dividere il suo ricordo con molte altre persone, vale a dire tutti i suoi lettori?

    Non sapevo che mio padre fosse famoso. Era scrittore, ma, un bambino, a scuola, non ha poi tanta voglia di dire che suo padre è scrittore. Cosa fa tuo papà?

    Scrive, è scrittore. Per chi ascolta non vuol dire niente. Ho capito che era celebre quando è morto. Un uomo celebre come lui non ha famiglia, quindi per gli altri io non avevo perduto mio padre. Quando vostro padre muore ed è celebre, a nessuno viene in mente che voi avete perduto vostro padre. Non è «vostro» padre, appartiene a tutti. Quando sono tornata al liceo, qualcuno mi ha detto: «Peccato, volevo chiedervi di farmi autografare La peste». Mentre voi non potete nemmeno esprimere il vostro dolore, perché nessuno ne vuole sapere. Certo lo divido con molte persone, ma per me papà è papà. Da giovane, non è stato facile, ero in rivolta permanente, sempre messa fuori dalla porta in classe, al liceo, una rivolta che mi ha salvato, credo. Nel contempo, la solitudine era abominevole: nessuno ha mai considerato che mio fratello e io avevamo perso nostro padre. Ma bisogna passare attraverso tutto questo. Dopo si è molto più attenti, sensibili, completamente ricettivi al dolore degli altri; si cerca di non ferire nessuno, di non dire del male. Da questo punto di vista, è stata un’esperienza positiva.

    Era un padre severo?

    Sì.

    Vi ha insegnato il rispetto del denaro, è così?

    Del denaro non si parlava. D’altronde, non ne avevamo. Avevamo un franco alla settimana, io ero molto golosa, ma con quel franco dovevamo comprare il biglietto dell’autobus per andare al liceo e io andavo sempre a piedi perché desideravo dei dolci. Con un franco alla settimana potevo comprarmi un dolce. Quindi facevo delle economie. Ma è bene così, papà non voleva che avessimo del superfluo. Diceva che avevamo tutto e aveva ragione: avevamo un tetto, non avevamo fame, avevamo dei libri, facevamo delle domande e sapevano risponderci, avevamo tutto. Quindi niente superfluo. A Natale, a partire dai dieci anni, dei regali utili, ad esempio una cartella.

    Parlavate della scuola, dei compiti?

    Non molto, perché se andavamo male eravamo rimproverati, ma se andavamo bene era normale, perché avevamo tutto. Era molto severo, soprattutto sul rispetto degli altri. Ci lasciava liberi, ma responsabili, come normale. Ma quando da bambini dite o fate una sciocchezza e vostro padre vi dice: «Che cosa ne pensi?», non è così semplice. Avrei preferito le sberle, si è pagato e si può ricominciare tranquilli. Essere responsabili dei propri atti e delle proprie parole: è un’educazione molto severa, perché non ci sono scappatoie.

    Ma era anche divertente, scherzava con voi?

    Era divertente, era tenero e, soprattutto, era giusto. Ci parlava molto, io stavo benissimo con lui.

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    Avete avuto un’educazione laica?

    Ah sì, totalmente.

    C’erano dei libri che secondo lui dovevate leggere?

    Potevamo leggere tutto, tutto quello che volevamo. Lo stesso valeva per il cinema, la musica. Tutti si stupivano perché, a dodici anni, cantavo le canzoni di Georges Brassens. All’epoca Brassens era un anarchico, considerato pericoloso e volgare, e io cantavo Il gorilla senza nemmeno comprendere le parole. «Dove l’hai sentita? A casa? Ma dove l’hai trovata?». «Ma è papà che ci ha portato il disco».

    Nessuno ci credeva.

    Camus amava Brassens?

    Lo adorava. Ci ha portato Brassens e ce lo ha fatto ascoltare quando avevamo dodici anni; all’epoca era del tutto scioccante, era un libertario, come Camus del resto.

    Nell’ultima edizione della Pléiade c’è un inedito, L’impromptu des philosophes, che è piuttosto divertente, è una satira della Saint-Germain-des-Prés esistenzialista.

    Ma anche di se stesso.

    Sì. E di Sartre, monsieur Néant.

    Monsieur Néant, sì, è abbastanza trasparente.

    Non se ne è parlato molto.

    In Francia ci sono stati degli ottimi articoli su questa edizione della Pléiade, è stata bene accolta, ma ho trovato sorprendente che nessuno abbia parlato di L’impromptu des philosophes. Penso che sia un’autocensura inconscia che non deriva più dall’influenza di Sartre, ovviamente, ma dai tanti sartriani rimasti. É un testo curioso, perché è divertente, non è un capolavoro, ma è divertente, Camus si prende un po’ gioco di se stesso e un po’ di Sartre.

    È vero che Sartre ha proposto di aiutarvi, dopo la morte di Camus?

    Sì, è Robert Gallimard che ci ha detto che Sartre ha sempre chiesto: «Come vanno Francine e i ragazzi?» e che, se ci fosse stato un problema, ci avrebbe aiutati. Io di questo sono convinta.

    Ci sono ancora persone che pensano fosse meglio avere torto con Sartre che ragione, si diceva con Aron, ma si potrebbe dire con Camus?

    Sì, molte. È un peccato per loro, avrebbero un pò più d’ossigeno se pensassero diversamente.

    Pensa che il pensiero di Camus sia adesso più attuale, più di moda?

    Ci sono sempre dei lettori e ci sono anche molte persone che comprendono veramente quello che ha detto. Bisogna distinguere fra la Francia e gli altri paesi.

    Negli Stati Uniti, in questo momento, c’è un crescendo di interesse. Ho visto uno studente americano, di Yale, che è arrivato per studiare Camus e Simone Weil e mi ha chiesto: «Che cosa fate in Francia? Perché da noi, a Yale, il professore migliore, e uno dei più importanti degli Stati Uniti, fa un corso su Camus, quest’anno. E abbiamo dovuto rifiutare molti partecipanti, perché vi sono accorsi numerosi non solo gli studenti, ma anche i docenti». Una partecipazione, mi ha detto, assolutamente enorme. Anche in Inghilterra l’interesse è in crescita, idem in Spagna. Rappresentano spesso le sue pièces in India, in Giappone; hanno fatto un adattamento di Lo straniero in srilankese per la televisione srilankese. In Italia, i suoi testi teatrali vengono spesso rappresentati. Io adoro venire in Italia, perché gli italiani amano davvero fraternamente Camus.

    Ma la Francia… Che cosa vuole che le dica? Arrivo a Milano all’Istituto culturale francese, e mi dicono: «Abbiamo preso una sala piccola, perché non ci sarà nessuno». E poi arriva un sacco di gente e ogni volta è la stessa cosa. Questa è la Francia. Ma occorre dire che, anche in Francia, non è mai stato abbandonato dai suoi lettori. Camus è estremamente letto. È l’autore più venduto dell’intera collezione Gallimard ed è così da ormai molti anni. Le vendite non sono mai calate, quindi parlare di riscoperta lascerebbe intendere che in precedenza non sia stato letto, il che non è vero. Certo è che pochi sono gli universitari che frequentano il Centro di documentazione su Camus di Aix-en-Provence. La Francia è così, ci mette del tempo. Comunque fra i giovani è sempre lo scrittore, anche in Francia, più amato e molti che lo hanno letto da giovani ritornano a lui da adulti.

    Anche nei paesi dell’Est è sempre stato molto amato.

     Per il suo sostegno ai dissidenti.

    Sì, era il loro ossigeno. Ci sono persone che sono morte perché hanno tradotto Camus, l’hanno divulgato, o che sono state rinchiuse in ospedali psichiatrici. E, dicono, il che è ancora più sorprendente, che oggi nei paesi dell’Est, che sono giunti al capitalismo, è ancora Camus che li aiuta a sopportare la disillusione riguardo al capitalismo. In generale, ciò che fa che si ritorni a lui è la sua posizione nei confronti dell’ideologia: ha mostrato i suoi limiti e anche i suoi morti. Camus ha sempre detto che l’ideologia dovrebbe essere al servizio dell’uomo e non il contrario. Oggi, dunque, che cosa può proporre? Propone di trovare ciascuno il proprio cammino e dice che, essendo data l’assurdità, il tragico della condizione umana, esistere e scegliere ogni giorno il proprio cammino è già molto coraggioso. Non assume mai una posizione estrema, ma quando si dice che «la pensée de midi», cioè il concetto di «misura» espresso in L’uomo in rivolta rappresenta il ventre molle del pensiero, io dico no. La misura è nella quotidianità, significa scegliere fra molte contraddizioni e trovare un movimento, un’azione valida, in costante verifica, permanentemente in allerta: questo è Camus. È per questo che aiuta. Dice: «Reggetevi sulle vostre gambe e cercate di trovare ogni giorno, fra le vostre proprie contraddizioni e le contraddizioni che la vita vi oppone, un movimento». Cos’è un movimento? Due forze opposte, è esattamente questo in fisica e nella vita è lo stesso. Bisogna trovare una soluzione alle contraddizioni che tenga conto del contesto umano. Guardate l’economia.

    L’economia vuole appoggiarsi sulla teoria, senza considerare i criteri umani, il parametro «uomo». Ma, se si fa astrazione dell’uomo, le cose non vanno. È per questo che Camus è più alla moda oggi, perché dice sempre: «Sì, ma c’è l’uomo». È la prima cosa: «perché io sono uomo»; e sta in questo, la solidarietà.

    In Francia c’è ancora un pregiudizio riguardo al suo valore come filosofo, mentre non c’è dubbio che sia stato un autentico filosofo, non soltanto uno scrittore che si occupa di filosofia.

    Ha sempre detto che non era un filosofo, se per filosofia si intende un sistema, non aveva «esprit de système». In questo senso non è un filosofo. Se la filosofia è riflettere sulla condizione umana, allora è un filosofo. Che però non ha mai edificato sistemi.

    In più, non amava molto la filosofia tedesca, vero, salvo Nietzsche?

    Eccezione di non poco conto.

    Ma non amava molto la tradizione hegeliana.

    Camus insisteva sempre sul fatto che i criteri storici e l’argomentazione storica non erano le sole cose che occorreva considerare, che non erano onniscienti e che la storia poteva sempre ingannarsi di fronte all’uomo. È così che cominciamo a pensare oggi, ma, a quel tempo, era abbastanza solo. Tuttavia, quando Hannah Arendt è venuta a Parigi, ha scritto che voleva vedere solo Camus.

    Aveva apprezzato molto L’uomo in rivolta…

    Dicono più o meno la stessa cosa e sono stati altrettanto malvisti, perché è più confortevole…

    Riposarsi su un’ideologia.

    Sì, avere il bene e il male belli e pronti a colazione. Hannah Arendt, come Camus, dice: «Non è così semplice». E condividono lo stesso odio per la menzogna.

    Come cercava Camus di vivere il paradosso di essere, nel contempo, «solitaire et solidaire»?

    Penso che Camus si sentisse molto solitario. Si può vederlo in tutti i suoi libri.

    Lo straniero non è Camus, ma in Lo straniero ci sono degli elementi di Camus. C’è questa impressione di esilio. E non è da Parigi né da altrove che è in esilio, ma dal mondo intellettuale, a causa delle sue origini. E questo è un esilio completo. E, tuttavia, una cosa che è evidente è che Camus non poteva mai essere un uomo neutrale. Si è impegnato veramente e fisicamente nella Resistenza, nella lotta contro il nazismo. E ha conservato sempre un impegno profondo, un’autentica resistenza contro ogni totalitarismo. Si dimentica spesso che Camus era un oppositore accesissimo del regime di Franco, e fino all’ultimo. Rifiutava di recarsi in Spagna, ha lasciato l’Unesco perché l’Unesco aveva accettato la Spagna di Franco e aveva permesso un discorso al dittatore. Camus era del tutto intransigente – questa non è affatto neutralità. È schierarsi, essere un uomo che si è impegnato. Certo, non era esistenzialista, ma era impegnato, un uomo che si batteva. Non per niente dirigeva il giornale della Resistenza intitolato Combat.

    In Il rovescio e il dritto, si può leggere: «Fui posto a metà strada fra la miseria e il sole. La miseria mi impedì di credere che tutto è bene sotto il sole e nella storia, il sole mi insegnò che la storia non è tutto». E, nell’Estate: «Viviamo così il tempo delle grandi città. Deliberatamente, il mondo è stato amputato di ciò che costituisce la sua permanenza: la natura, il mare, la collina, la meditazione delle sere». Tra le cose che hanno impedito a Camus di essere schiavo di un’ideologia, di idolatrare la storia, di credere che tutto sia storico e la storia sia tutto, di farne un’ipostasi, e che gli hanno sempre fatto preservare nell’uomo, senza rifiutare le lotte del suo tempo, ciò che non appartiene alla storia, c’è senza dubbio la presenza della natura, molto forte nella sua opera e nella sua sensibilità. Condivide questo sentimento?

    Completamente. L’urbanizzazione sempre più tentacolare mi fa paura, perché separa l’uomo da tutta una parte della sua umanità e, soprattutto, dalla dolcezza e dalla bellezza. Quando la vita è difficile, e lo è di frequente, se non avete la dolcezza e la bellezza, allora è davvero atroce. Ha spesso detto che, nelle città, non è il meglio di noi che viene alla luce. Ed io sono del tutto d’accordo. Penso anche che, nell’infanzia, stesse meglio fuori che in casa e penso che, quando è così, quando casa vostra non è davvero un luogo rassicurante, quando è più rassicurante l’esterno, allora il vostro mondo è il mondo, il cosmo, vale a dire che casa vostra è fuori, con il cielo, la terra, gli alberi, gli animali… Credo che anche questo possa aver avuto un peso.

    *MicroMega n. 6/2013 Pagg 133 -147

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    Camus filosofo dell’avvenire da Gli eBook di MicroMega / 5 * www.micromega.net

    Roma, novembre 2013

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    Qui tutti gli articoli di Camus e correlati

    • Buongiorno,
      volevo sapere qualcosa di più su questa intervista. Chi è l’autore, per esempio e dove è stata pubblicata originariamente (Micromega?). Ho cercato di andare nei siti indicati ma non trovo modo per ottenere queste informazioni.
      Grazie,
      saluti,
      Rossella Faraglia

      • l’intervista/conversazione di A.Bianchi e A. Sansa a CatherineCamus è apparsa su Micromega n.6/ 2013 – Pag 133 – 147

        grazie per l’attenzione

        G.C. Zanon

      • Grazie per la segnalazione , avevamo maldestramente omesso dati importantissimi sulle fonti di questo post. Abbiamo già provveduto a sanare questa grave mancanza.

        Giulia D.B. (per la Redazione di G&N)

    • Quanto si impara dalle parole di Catherine Camus.

      • Si … spesso la realtà privata non corrisponde all’immagine pubblica… non in questo caso…
        Giulia De Baudi (per la Redazione di N&G)

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