• Zara e Natalino : l’amore al tempo del fascismo – Racconto di Loretta Emiri

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    ZARA E NATALINO *

    Loretta Emiri **

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    Il fratello maggiore di Zara svolgeva apprendistato nell’azienda elettrica comunale. Divenuto molto amico di un collega, un giorno presentò quest’ultimo a sua sorella. Già durante quel primo incontro i due conversarono alquanto. Lui le raccontò che la mamma era maestra, che gli piaceva ballare e ancor più andare a pesca, che possedeva una strepitosa macchina fotografica Kodak. Zara gli confidò che non riusciva a perdonare a sua madre di averle prima impedito di continuare gli studi, poi di costringerla a divenire sarta da uomo quando a lei piaceva ricamare. Gli disse pure che stava studiando l’Esperanto perché la prospettiva di comunicare a livelli internazionali, di per sé, arricchiva il suo quotidiano. Quando si lasciarono, l’autocombustione interiore aveva già sprigionato scintille d’amore.

    Nato il venticinque dicembre, lo avevano chiamato Natale; di bassa statura, magro, affabile e compagnone, per tutti era Natalino. Terminato l’apprendistato e appena assunto nell’azienda elettrica, andò a parlare con i genitori di Zara per rassicurarli circa le sue intenzioni. Si disse innamorato cotto e, grazie alla definizione della posizione lavorativa, in grado di pensare al matrimonio. Informò anche i suoi famigliari, che subito espressero il desiderio di conoscere la ragazza. Avvicinandosi alla frazioncina di campagna, Zara sentiva crescerle dentro l’apprensione. Quale accoglienza le avrebbero riservato persone secondo lei appartenenti a categoria sociale superiore alla propria? Leonardo forgiò un diminutivo e conquistò Zarella con i suoi modi accattivanti. La maestra, invece, l’affascinò con mitezza e discrezione. Al momento non ne capì la ragione, ma stringendo la mano del futuro cognato avvertì una sensazione sgradevole; con il trascorrere del tempo e degli eventi avrebbe detto che quel giorno le venne presentato un farabutto.

    Zara celò la notizia del fidanzamento a proprietari e apprendiste della sartoria. Che quelle persone tagliassero e cucissero anche con la bocca lo aveva sperimentato sulla pelle. Più di una volta le era capitato di raccontare di essere corteggiata. Del pretendente di turno ne avevano dette di tutti i colori riuscendo, con giudizi spietati e maldicenze svergognate, a influenzarla nelle sue scelte. Relazioni che avrebbero potuto divenire importanti erano così morte sul nascere. Infine aveva intuito che a muovere quelle boccacce era anche l’invidia, e si era fatta furba. Per proteggerlo, per dargli il tempo di crescere, mantenne segreto il nuovo legame. Quando ne giunse voce in sartoria, niente e nessuno poteva più metterlo in discussione.

    La data del matrimonio era stata fissata; a mandarlo a monte ci pensò Mussolini annunciando l’entrata in guerra dell’Italia. Il fidanzato e il fratello maggiore di Zara vennero chiamati a combattere sul fronte africano. Prima di partire Natalino, che in Africa aveva prestato il servizio di leva, affidò alla sua ragazza le foto scattate in quel periodo. Vi è ritratto sul lungomare di Tripoli o sotto le palme dell’oasi di Tagiura, accanto a monumenti o apparecchiature ricetrasmittenti, da solo o circondato da commilitoni giovani e forti. A lungo contemplate, in Zara le foto produssero un immaginario non corrispondente alla realtà. Delle tribolazioni per le quali il suo uomo passò lo seppe solo a guerra finita; e meno male, altrimenti avrebbe dovuto aggiungere peso a quello di per sé schiacciante della separazione. Ciò che invece aiutò Natalino a superare prima situazioni drammatiche al fronte, poi l’inquietudine della prigionia infinita, fu la consapevolezza che desideri del tutto normali, di persone normali come lui e Zara, avevano generato qualcosa di molto speciale, e cioè il grande amore, quello che spazio e tempo non affievoliscono né spengono. Nei momenti più duri riproponeva a sé stesso l’immagine della fidanzata; ricostruiva le rare occasioni in cui, non avendo un fratello minore di lei tra i piedi, si erano permessi caste eppur travolgenti effusioni. Cercava anche di raffigurarsi come poteva essere la loro prima notte d’amore, creando immagini conturbanti, pregustando amplessi. A salvare entrambi, insomma, fu la sfocatura della realtà e la messa a fuoco dei sogni.

     

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    Guerra e prigionia rubarono alla coppia sei anni di vita. Per farsi e far loro coraggio, in quel periodo Zara visitò spesso i futuri suoceri. Trovava la maestra sempre in classe, anche quando non c’era lezione: o aveva in mano il giornale, che leggeva tutti i giorni, religiosamente; oppure era in compagnia di quegli analfabeti che, avendo congiunti militari, le chiedevano di leggere lettere o stilare risposte. Questa pratica contribuì a cristallizzare i sentimenti di stima e affetto che i paesani già nutrivano nei confronti della sora maestra. La sua bellezza d’animo si manifestò anche attraverso un’intermediazione più impalpabile della lettura e scrittura: se le informazioni ricevute erano dolorose, preoccupanti, intratteneva gli ascoltatori cercando di risollevarne gli animi, di infondere una qualche speranza. Se le chiedevano di trasmetterle, forzava la vena letteraria fino a scovare parole che lenissero la crudeltà delle brutte notizie. Volendo esprimerle gratitudine, a volte quelle persone semplici le regalavano sacchette di farina, uova, fiaschi di vino. Per scongiurare che i proprietari terrieri ne venissero a conoscenza, i doni erano sempre accompagnati dall’esortazione a “non dir niente a nessuno”; essere analfabeti non equivale ad essere fessi, così certi contadini facevano fessi i loro intransigenti padroni.

    Zara e il fratello, che era rientrato dalla prigionia inglese tre giorni prima, andarono ad aspettarlo alla stazione. Quasi volesse far scogliere nell’abbraccio il ricordo delle brutte situazioni vissute da entrambi nel passato prossimo, Natalino ebbe l’istinto di salutare prima l’amico; solo dopo strinse a sé il presente che, avendo le fattezze di Zara, avrebbe potuto definirsi non bello ma piacente. La ricostruzione iniziò dal dentista, cui Natalino raccontò che era stata la sabbia a minare i suoi denti; l’odontoiatra buttò giù le macerie di quelli rimasti e gli consegnò una dentiera fiammante e sinistra.

    Il matrimonio venne celebrato a cinque mesi dal rientro dalla Scozia. Gli invitati si ritrovarono a casa degli sposi per prendere visione della sistemazione, ammirare i doni nuziali e consumare il rinfresco. La sartina aveva ricevuto un incredibile numero di regali. Il gruppetto si diresse poi nel santuario scelto per il rito. Nonostante i molti anni vissuti in Italia, l’anziano celebrante manteneva un pesante accento tedesco. Rivolto agli sposi, disse: “Figlioli, da questo momento per voi la vita è finita”; e tenne tutti con il fiato sospeso perché alla frase seguì un lungo silenzio. Quando si decise ad aggiungere “infatti ne comincia un’altra”, i presenti tirarono un rumoroso sospiro di sollievo. Il pranzo venne preparato da Mestizia e nella sua ampia cucina consumato. Poi qualcuno accompagnò gli sposi a prendere il treno che li avrebbe portati a Roma in viaggio di nozze.

    Alla stazione Termini c’era ad aspettarli una conterranea; lei e il marito lavoravano come portieri in un palazzo situato nelle adiacenze. Non chiesero compensi per farli pernottare; facendone parte radici culturali e profumata amicizia, ai generi alimentari che Mestizia mandò loro attribuirono più valore che alle lire. La figlia dell’amore e della guerra nacque dieci mesi dopo. Se avesse potuto essere solo figlia dell’amore, la prima notte dei suoi genitori, con ogni probabilità, sarebbe stata ancor più voluttuosa: suo padre non riuscì a eseguire la deflorazione con la lentezza che aveva programmato durante gli interminabili anni di guerra e prigionia; addormentatasi felice e contenta, sua madre venne svegliata dai lamenti del marito, che invece di sognare aveva incubi. Malgrado ciò, sfumature e attimi di ogni situazione vissuta durante la settimana di luna di miele furono splendidi: captati dall’atmosfera che avvolge la città eterna, ne sono entrati a far parte. Semplice, l’amore di Zara e Natalino, ma vero, grande, definitivo.

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     * Dal libro Quando le amazzoni diventano nonne, Loretta Emiri, CPI-RR, Fermo, 2011.

     

    ** Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português, il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, la raccolta poetica Mulher entre três culturas, i volumi di racconti Amazzonia portatile e Amazzone in tempo reale, il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice dell’inedito A passo di tartaruga, mentre del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice.

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